Gianluca Falanga, Non si parla mai dei crimini del comunismo, Laterza, 2022
È esistito un comunismo prima di Lenin? Può esistere un comunismo dopo la fine dell’esperienza dell’Unione Sovietica?
Alla prima domanda il libro di Gianluca Falanga, Non si parla mai dei crimini del comunismo (Laterza, 2022), risponde in modo affermativo, mentre sulla seconda la questione sembra rimanere aperta. La pubblicazione rientra nella collana Fact Checking, dove storiche e storici si occupano di smontare i luoghi comuni riguardanti avvenimenti spesso citati nel dibattito politico, accompagnandosi a stereotipi sempre più radicati.
In questo caso l’obiettivo è dimostrare come sia falso ipotizzare una diffusa mancanza di volontà nel riconoscere le morti per mano di governi e stati che hanno agitato nel secolo scorso le bandiere con la falce e martello.
L’autore lavora come formatore al Museo della Stasi di Berlino: questo lo aiuta a chiarire l’impostazione generale in cui si collocano riflessioni, ricostruzioni e opinioni. La Germania è per lui il luogo in cui più si è lavorato sul fare i conti con la storia del nazismo e del socialismo reale. La memoria tedesca incrocia una stratificazione importante e unica, non sovrapponibile a quanto avviene in Europa orientale, Russia compresa. Falanga è attento a costruire una rassegna ampia sull’uso della storia che diversi paesi fanno, sfruttando il passato per giustificare narrazioni con cui coltivare consenso elettorale, anche in modo selettivo e spregiudicato.
Recentemente Putin ha confermato di dichiararsi ostile al comunismo e di agire in continuità con la “guerra sacra” portata avanti contro il nazifascismo, mentre in diversi paesi alcune pagine storiche si rivalutano come oscure per il vecchio continente, piene di antisemitismo e intolleranza.
Il Parlamento europeo ha approvato una discutibile e confusa risoluzione, vissuta come l’ennesimo tentativo di equiparare i regimi totalitari del Novecento. La teoria da smontare è proprio questa. Chi denuncia una presunta rimozione dei crimini del comunismo lo fa per creare un unico e indistinto passato, cancellando il senso della storia. Le pagine di questo libro non risparmiano nulla delle tragedie di quei paesi in cui sono saliti al potere partiti comunisti, con la capacità di guardare anche all’America Latina, all’Africa e all’Asia.
Si percepisce una simpatia per Marx, o meglio per la Prima Internazionale, e un pregiudizio verso il marxismo, inteso come dottrina destinata a essere sempre più impermeabile alla dialettica. La presa del Palazzo d’Inverno sarebbe un momento spartiacque, dopo il quale la violenza è diventata inscindibile dalla possibilità di sovvertire i rapporti di forza dati dal capitalismo. Anche perché le esperienze di ascesa democratica del socialismo, come quelle avvenute in Spagna e in Cile, sono state soffocate dalla repressione. Viene ripresa una sorta di differenza tra marxismo occidentale e orientale, recuperando Losurdo, rispetto al quale però è evidente una significativa distanza di Falanga riguardo le posizioni generali di giudizio sulla storia del comunismo: il socialismo reale prima, e le successive esperienze di presa del potere dopo, sono state tutte segnate dalla necessità di conservare la sovranità statale, usando il comunismo come mezzo, più che come obiettivo. La vittoria di Lenin ha segnato una frattura imprescindibile per ogni attività successiva, anche per chi è rimasto fuori dalla Terza Internazionale.
Su molti giudizi sarebbe possibile aprire un dibattito, ma è qui opportuno evidenziare i meriti del libro. Memoria e storia sono cose diverse, anche se si alimentano a vicenda. Il rapporto con il passato e il Novecento deve evitare di svilupparsi in una sorta di mitizzazione astratta di ciò che è stato e dall’altra parte non può essere banalizzato.
In Occidente, è certo che negli ultimi decenni si sia lavorato per rimuovere ogni immagine di possibile alternativa allo stato di cose presenti. Chi ci governa vorrebbe illuderci di vivere in un eterno presente. Parlare dei crimini del comunismo, riconoscerli come legati a un’aspirazione di costruzione di nuova umanità, può essere un ambito in cui elaborare con maturità nuove istanze di cambiamento, radicali e pronte ad apprendere le lezioni del Novecento, rispettando il dolore delle vittime e dando centralità alla libera ricerca storica.
Un’ultima riflessione. Canfora, rileggendo il 1921 nel centenario della scissione di Livorno, ha voluto raccontare la “questione bolscevica” come una parentesi, rispetto alle istanze marxiste comuni anche alle forze realmente socialdemocratiche. Posizione diversa da quella rintracciabile nel libro di Falanga: entrambi sembrano però segnati da una sorta di nostalgia per il punto di partenza della storia del socialismo, una sorta di auspicio di ritorno al filosofo di Treviri. Ma se il Novecento è finito, lo è anche l’Ottocento. Il problema è apprendere le lezioni della storia per capire come andare avanti: questo è però compito della politica, non della ricerca.
Immagine elaborata utilizzando la copertina del libro da laterza.it
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.