Il sistema politico ucraino negli anni Novanta
La geografia elettorale determinata il 17 marzo 1991 si sarebbe riproposta il 1° dicembre, quando si tennero sia il referendum per l’indipendenza (92% di sì) sia le elezioni presidenziali.
Il presidente del Soviet Supremo Leonid Kravchuk fu eletto al primo turno con il 62%, essendo riuscito ad accreditarsi in quasi tutta l’Ucraina come il garante di una transizione non traumatica dal sistema sovietico alla nuova sovranità: sia pure con ampie differenze (dal 44% della Bucovina al 78% di Zhytomyr) risultò la prima scelta in tutto il Paese, con la significativa eccezione dei tre oblast’ della Galizia, ove restò tra l’11 e il 17%, surclassato dal filo-occidentale Chornovil e a Ternopil’ superato anche dal nazionalista Lukianenko. Al tempo stesso, nelle zone storicamente più affini alla Russia e dove l’indipendenza aveva i consensi minori (la Crimea, il Doneck, Odessa, Charkiv) Kravchuk non ottenne i suoi risultati migliori, subendo la concorrenza di Hrynyov, espressione di un partito che proponeva di continuare la politica comunista della perestrojka.[1]
Fu questo un secondo aspetto che, emerso all’inizio della moderna sovranità ucraina, ha caratterizzato poi la successiva vita del Paese: la connotazione del panorama politico, con la presenza di due diverse forze entrambe basate in occidente e ostili alla Russia – il liberalismo e il nazionalismo –, il ruolo dell’eredità sovietica nel definire le lealtà politiche delle regioni dell’Est e del Sud, e infine un maggioritario blocco centrale sul quale ricadeva l’onere della mediazione e del gradualismo.
La presidenza di Kravchuk, a sua volta, inaugurò un terzo elemento che si sarebbe anch’esso ripetuto negli anni seguenti. Eletto prevalentemente dall’Ucraina nei confini sovietici del 1939, Kravchuk non gestì affatto in modo indolore la transizione: lo shock della liberalizzazione dei prezzi, il venir meno del sostegno del bilancio sovietico e la svendita (non sempre con mezzi leciti) di importanti industrie di Stato causarono un’iperinflazione e un vero e proprio crollo del tenore di vita, reso evidente anche dal ritorno epidemico della difterite a causa dello sfascio del sistema sanitario.
Così nel 1994 correndo per la rielezione Kravchuk non poté più contare sul sostegno della base industriale e filo-russa dell’Est, e cercò consenso tra liberali e nazionalisti in Ucraina occidentale. Il suo sfidante, l’ex comunista e suo ex Primo Ministro Leonid Kuchma, fu eletto al ballottaggio; la linea di confine fra i due blocchi ricalcava i confini internazionali del 1793, con le aree russe pro-Kuchma e quelle polacche e austriache pro-Kravchuk.
Alle spalle dei due maggiori candidati si piazzò il leader del Partito Socialista di Ucraina (SPU) Oleksandr Moroz, con il 13%. Sostenuto anche dal Partito Comunista di Ucraina (KPU), Moroz risultò il candidato con il consenso nazionale più omogeneo, raccogliendo buoni risultati in tutta l’Ucraina nei confini del 1939 – ma restando ancora escluso dalle regioni più occidentali.[2]
Durante il mandato Kuchma, tuttavia, continuò la politica di Kravchuk: ottenere prestiti dal Fondo Monetario Internazionale in cambio della privatizzazione delle attività produttive, secondo quanto previsto dallo «Washington consensus». Perciò arrivò all’appuntamento della rielezione nel 1999 nella medesima situazione del suo predecessore: eletto inizialmente dall’Est, sostenuto adesso dall’Ovest.
La sinistra stavolta presentò due candidature distinte: Moroz per la SPU e Petro Symonenko per la KPU, che a marzo 1998 si era affermata con grande distacco (27% contro il 10% dei liberali atlantisti arrivati secondi) come il principale partito alle elezioni per la Rada.
Al primo turno si ripeté, mutatis mutandis, la situazione di cinque anni addietro: Kuchma (36%) ebbe la propria base nell’Ovest, Symonenko (22%) nell’Est, Moroz (11%) nelle regioni più propriamente depositarie di un’identità peculiare ucraina (a loro volta divise internamente fra la metropoli globale di Kiev e zone fortemente agrarie come l’oblast’ di Poltava). Si era aggiunto però un quarto attore: Nataliya Vitrenko, che a capo del Partito Socialista Progressista di Ucraina (PSPU) ottenne l’11%, all’incirca nella stessa area di Moroz ma con un orientamento però più filo-russo.[3]
Al ballottaggio Kuchma ottenne un consenso composito: certamente fondato sulle vittorie schiaccianti nelle regioni acquisite dopo il 1939 (nei cui oblast’ andò dal 77% della Bucovina al 95% di Ivano-Frankivs’k) e a Kiev (71% in città, 63% in provincia), ma presente anche in zone più legate alla Russia (50,1% a Charkiv, 53% a Sebastopoli, 56% a Doneck, 57% a Odessa, 60% a Dnipropetrovsk). In realtà, le affermazioni più forti di Symonenko furono non nell’est, ma in regioni centrali (60% a Černihiv, 62% a Poltava, 64% a Vinnycja).
Un introvabile equilibrio
I risultati del 1999 furono il copione di anticipo del secondo mandato di Kuchma, che cercò di migliorare i rapporti sia con gli Stati Uniti e l’Unione Europea sia con la Federazione Russa. Questa peculiare forma di equilibrio tra Est e Ovest era però fondata sugli instabili pilastri della corruzione e della repressione della stampa e nella seconda metà del mandato Kuchma si rivolse sempre più verso la Russia.
In quei cinque anni, inoltre, nove Paesi dell’ex sfera sovietica entrarono nella NATO e sette nell’Unione Europea. Ciò rafforzò la prospettiva, per l’Ucraina occidentale, di legarsi definitivamente al blocco atlantico e di converso allarmò le regioni orientali del Paese. Il peso specifico di entrambe le regioni, economicamente più sviluppate e con maggiore densità di popolazione rispetto al blocco dell’Ucraina centrale, fu un ulteriore fattore di acutizzazione del contrasto.
I nodi giunsero al pettine con le presidenziali del 2004: al primo turno l’ex Primo Ministro ed ex Governatore della Banca Centrale Viktor Yushchenko, filo-atlantico, superò di poco (39,9% a 39,3%) il Primo Ministro Viktor Yanukovich, filo-russo e considerato il delfino di Kuchma; il risultato era però la media di due Paesi speculari: nell’aggregato in cui aveva prevalso Yushchenko, questi aveva il 66% contro il 19% dello sfidante (terzo Moroz con il 7%); negli altri, invece, Yanukovich vinceva con il 69% contro il 13% di Yushchenko (terzo Symonenko con il 7%).
Come l’ultimo Kuchma, Yanukovich era riuscito a unire sotto una generica bandiera del legame con la Russia settori largamente maggioritari della società dell’Ucraina orientale e meridionale, salassando nel mentre i consensi dei comunisti. Ciò che fino allora era stata una peculiarità dell’Ucraina occidentale, il costituire un blocco fortemente identitario e anomalo rispetto al resto del Paese, veniva ora condiviso anche dall’est e dal sud; il concetto di “Ucraina del 1939” si riduceva sempre di più, proprio come sempre più si assottigliava la SPU accusando perdite verso entrambi i campi.
Il declino della SPU e l’acutizzarsi della questione nazionale russa consentirono al blocco occidentale di saldare a se stesso anche l’Ucraina centrale. Al ballottaggio (quello internazionalmente riconosciuto del 26 dicembre 2004, dopo la cosiddetta Rivoluzione Arancione) Yushchenko prevalse con il 54%, che però era l’11% nell’Est, il 29% nel Sud, il 79% nel Centro e il 90% nell’Ovest.[4]
La storia del decennio seguente è quella della difficile coabitazione delle due Ucraine. Il grado di polarizzazione è esemplificato ancora una volta dal destino della SPU: dopo le elezioni parlamentari 2006 si unì al Partito delle Regioni (principale formazione russofila, ma che aggregava il consenso anche di altre minoranze etniche) e alla KPU nel sostenere un nuovo governo di Yanukovich, chiaramente in opposizione al presidente Yushchenko.
Escluso dalla Rada per circa trentamila voti alle elezioni anticipate convocate da Yushchenko l’anno seguente, il Partito Socialista espresse quindi sostegno alla formazione del nuovo governo filo-occidentale di Yulia Tymoshenko.
Il mandato del presidente Yushchenko fu un grave fallimento personale: nel 2010 alle presidenziali si piazzò soltanto quinto. Il suo operato però fu tutt’altro che privo di conseguenze per l’Ucraina: di fronte alle difficoltà politiche e alla impossibilità o mancanza di volontà di trovare un ampio accordo costituzionale fra i due blocchi, Yushchenko come già Kravchuk tre lustri prima giocò la carta dell’ultranazionalismo; cinque giorni dopo il primo turno che lo aveva già eliminato, conferì il titolo di Eroe dell’Ucraina al collaborazionista Stepan Bandera, facendo infuriare Unione Europea, Russia, Polonia e comunità ebraiche, ma probabilmente pagando qualche debito politico. Se nell’Est e nel Sud la sua ricandidatura ottenne circa l’1%, e anche nel Centro soltanto il 3%, nell’Ovest raggiunse il 18% (secondo posto dietro il 39% della Tymoshenko), un risultato tutto costruito sui tre oblast’ della Galizia nei quali ottenne il 26% a Ivano-Frankivs’k, il 27% a Ternopil’ e il 32% a Leopoli.[5]
Eletto Presidente al ballottaggio, Yanukovich evitò una problematica coabitazione con la Primo Ministro e sua ex sfidante Tymoshenko, grazie al fatto che il partito agrario di centro cambiò schieramento e si unì al Partito delle Regioni e al Partito Comunista consentendo la formazione del primo governo di Mykola Azarov.
La coalizione tra comunisti e russofili fu confermata dopo le elezioni parlamentari del 2012, che però videro l’emergere di prepotenza di un nuovo attore parlamentare sinora sconosciuto: l’estrema destra di Svoboda (“Libertà”), l’ex Partito Social-Nazionale che aveva sostituito il simbolo nazista del Wolfsangel con la mano a tre dita (in riferimento al tridente, simbolo nazionale ucraino) ma che non aveva abbandonato né il nazionalismo a base etnica né le attività paramilitari né i legami con le formazioni neonaziste. Forza importante anche in Volinia e nelle maggiori città (soprattutto a Kiev), Svoboda aveva però la propria roccaforte proprio in Galizia, dove fu primo partito a Leopoli e a Ivano-Frankivs’k con cifre intorno al 40%.
La radicalizzazione dello scontro
Nonostante gli sforzi di Yanukovich di giungere a una riconciliazione fra Ucraina occidentale e orientale (ad esempio da un lato promuovendo l’adozione del russo come seconda lingua ufficiale e dall’altro definendo la carestia del 1932-33 un genocidio degli ucraini) e di mantenersi in equilibrio fra USA e Russia, l’esasperazione del dibattito politico interno (fra cui la condanna per malversazione e abuso di potere di Tymoshenko), unita al deterioramento dei rapporti fra le due potenze a seguito delle guerre civili in Libia e in Siria si rivelò fatale per il Presidente ucraino.
Inizialmente intenzionato a perseguire l’integrazione con il mercato dell’Unione Europea, si trovò infine stretto fra le dure condizioni economiche poste dalla UE e dal FMI e le pressioni russe sul commercio del gas.[6] La sua decisione dapprima di tacitare le voci più filo-russe nel proprio partito e poi di fermare il percorso di associazione alla UE per sviluppare invece i legami con la Russia costò a lui l’isolamento politico generale e all’Ucraina una profonda e sanguinosa spaccatura.
La deposizione violenta del governo Yanukovich fu seguita dalla formazione di un governo di coalizione tra Batkivshchyna (“Patria”, il partito nazionalista filo-europeo di Tymoshenko) e Svoboda. Di fronte all’ingresso, per la prima volta, dell’estrema destra nel governo ucraino, la Russia intervenne militarmente in Crimea e fornì supporto al movimento separatista russofono nel Donbass; il referendum popolare che sancì l’annessione della Repubblica Autonoma di Crimea alla Federazione Russa, sebbene non riconosciuto dall’Ucraina e condizionato dalla presenza di truppe russe e dal boicottaggio da parte degli ucraini etnici, fornì un risultato del tutto compatibile con la composizione nazionale della regione, in cui circa due terzi dei residenti si dichiaravano di etnia russa (la Crimea e Sebastopoli sono in effetti gli unici oblast’ dell’Ucraina in cui la maggioranza della popolazione non è etnicamente ucraina).
Le elezioni presidenziali di maggio furono dominate da candidati nazionalisti e filo-occidentali; il Partito delle Regioni ottenne il 3%, il Partito Comunista l’1,5%, con un forte squilibrio nella distribuzione dell’affluenza, che superava il 75% in Galizia e il 60% nella metà occidentale dell’Ucraina, ma restava spesso sotto il 50% nella metà est. La campagna elettorale era stata costellata di incidenti e violenze, di cui la più grave fu il rogo della Casa dei Sindacati a Odessa il 2 maggio, che costò la vita a quarantotto persone (due fascisti ucraini e quarantasei antifascisti filo-russi) – probabilmente molte di più, visto che il governo ucraino non ha mai divulgato la lista dei decessi avvenuti nei giorni seguenti. Presidente fu eletto Petro Poroshenko, magnate della televisione che aveva dato un ingente sostegno finanziario alla rivolta contro il predecessore.
Le elezioni parlamentari di ottobre 2014 segnarono la definitiva ucrainizzazione etnica del panorama politico: dei 450 seggi della Rada soltanto 30 furono assegnati a formazioni rappresentative dell’Est o della comunità russofona; il Partito Comunista fu escluso dal Parlamento per la prima volta dal 1917 e, nonostante la marginalizzazione dell’estrema destra (7 seggi), non si aprirono spiragli per una pacificazione del Paese né per la risoluzione dei contenziosi con la Russia. Il nuovo governo di Yatsenyuk fu infatti sostenuto da tutti i partiti dell’arco ucraino, di cui il Blocco di Poroshenko, con posizioni politiche eclettiche ma filo-UE, era l’unico a chiedere una soluzione pacifica. Tutti gli altri chiedevano la continuazione della guerra contro i separatisti del Donbass: il Fronte Popolare, che rappresentava i settori più nazionalisti; Autosufficienza, che rappresentava i territori più filo-occidentali (la Galizia, Kiev, le città capoluogo); il Partito Radicale, che schierava su una piattaforma di acceso nazionalismo agrario i contadini e le campagne; infine ciò che restava del partito di Tymoshenko, che si manteneva in forza ormai solo nelle cittadine di provincia, intermedie fra capoluoghi e campagne.
Zelenskyy, un pacificatore sabotato
Gli Accordi di Minsk restarono lettera morta per via dell’impossibilità del presidente Poroshenko di ottenere la cooperazione degli altri partiti; mentre gli scontri nella coalizione si facevano sempre più accesi, con reciproche accuse di cleptocrazia, clientelismo e corruzione, Poroshenko tentò di forzare la situazione licenziando il governo e nominando primo ministro Volodymyr Groysman, un ebreo di orientamento socialdemocratico. Neppure Groysman riuscì a superare le resistenze nazionaliste e neofasciste che avevano sin lì impedito l’applicazione degli accordi di pace.
Del resto il varo a maggio 2015 della legge di decomunistizzazione, che ha equiparato il nazismo tedesco al socialismo sovietico, messo al bando il Partito Comunista di Ucraina e decretato la rimozione dei monumenti sovietici e la ridenominazione di città e luoghi pubblici, ha esacerbato ulteriormente i rapporti con la comunità russofona.
La tornata elettorale del 2019 fu l’ennesima occasione in cui la volontà del popolo ucraino cercò per via democratica di spezzare la paralisi del sistema politico. L’attore comico Volodymyr Zelenskyy ottenne il 31% al primo turno e il 75% al ballottaggio, con una distribuzione del voto che ricalcava quella dei partiti filo-russi, a cominciare dalla KPU. Al secondo turno Poroshenko prevalse soltanto in Galizia: nell’oblast’ di Leopoli, nel contiguo collegio di Zboriv e nelle città di Ternopil’ e Ivano-Frankivs’k; in termini relativi ottenne un consenso superiore alla media nazionale in gran parte dell’Ucraina occidentale, a Kiev e in un lembo sul fronte di Doneck.
Attorno a Zelenskyy si era coalizzato un fronte di tutte le forze che desideravano la pace: ucraini non nazionalisti, russofoni, minoranze etniche (come gli ungheresi in Transcarpazia o i rumeni in Bucovina); questo fronte contava sui tre quarti dell’elettorato. Pochi mesi dopo, la divisione del campo nazionalista consentì a Sluha Naroda (il partito populista di Zelenskyy) di replicare il successo alle elezioni parlamentari. La fine della guerra in Donbass, che sembrava favorita anche dalla scelta del Blocco di Opposizione (i filo-russi eletti nei territori ucraini di Doneck e Lugansk) di non votare contro il nuovo governo, fu nuovamente rimandata: né la Rada, sotto la pressione delle bande armate neonaziste, né Zelenskyy, sotto il timore di essere messo in stato d’accusa dalla Rada stessa, hanno potuto sbloccare la situazione.[7]
A svantaggio di Zelenskyy hanno giocato l’impreparazione politica personale, l’estrema instabilità del panorama politico, l’azione delle bande armate di estrema destra e la spregiudicatezza delle grandi potenze sulla questione ucraina (si ricorda ad esempio l’intenzione del presidente statunitense Trump di condizionare aiuti economici e militari all’apertura a Kiev di un’inchiesta a carico del figlio del suo sfidante Joe Biden). Nonostante il suo improbabile retroterra politico, la sua elezione fu però un’occasione per un nuovo compromesso in Ucraina sulla questione nazionale interna e sul posizionamento internazionale dello stato.
Il conflitto oggi in essere con la Federazione Russa, se da un lato aumenta la popolarità e il carisma di Zelenskyy (seppur non si sappia quanto a lungo, in un Paese che ha già divorato diversi leader), dall’altro rende ancora più spinosa la soluzione della questione russa, anche visto il decreto del 20 marzo che in base alla legge marziale ha sciolto i residui partiti filo-russi, gran parte dei quali socialisti e di sinistra, ancora in attività.[8]
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https://web.archive.org/web/20171019083729/http://www.ukrweekly.com/old/archive/1991/499101.shtml ↑
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https://www.electoralgeography.com/new/ru/countries/u/ukraine/ukraine-presidential-election-1994.html ↑
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https://www.reuters.com/article/us-ukraine-russia-deal-special-report-idUSBRE9BI0DZ20131219 ↑
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https://www.corriere.it/esteri/22_febbraio_19/crisi-ucraina-perche-russia-4df54322-917d-11ec-b793-2265998432ac.shtml ↑
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https://www.ukrinform.net/rubric-polytics/3434673-nsdc-bans-prorussian-parties-in-ukraine.html ↑
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.