Cuba: tra presente e futuro, dopo “i Castro”
«Non c’è nessuno spazio per una restaurazione del capitalismo nell’isola». Con queste parole, il nuovo presidente di Cuba Diaz-Canel, ha voluto lanciare un chiaro messaggio di continuità rispetto al percorso rivoluzionario tracciato da Fidel Castro.
Già Ministro dell’Educazione superiore ed esponente di lungo corso del PCC, il neo Presidente non sembra dunque intenzionato ad abbandonare le orme del castrismo, la cui eredità dovrà essere il pilastro su cui proseguire la realizzazione di una società socialista matura.
Diaz-Canel è però anche un convinto sostenitore dell’esigenza di modernizzare il paese anche per venire incontro a quella parte della popolazione che chiede una maggiore apertura.
La sfida sembra allora quella di coniugare il bisogno di cambiamento con la coerenza nei principi del socialismo cubano, in un epoca in cui sembra esserci poco spazio di manovra per chiunque voglia porsi in alternativa al capitalismo globale.
Sul presente e sul futuro di Cuba il 10 mani di questa settimana.
Di Cuba Il Becco aveva trattato diffusamente già in occasione della scomparsa di Fidel Castro (qui), un articolo che sottoscrivo e di cui mi sembra inutile ripetere i punti salienti. Basti dire che il passaggio di consegne tra Raul Castro e Diaz-Canel si inscrive in quella storia, spesso misconosciuta o guardata con sufficienza.
Di Cuba il Nord del mondo ha un’immagine alquanto distorta e falsata, in cui il mito di un supposto nepotismo dei Castro costituisce un pezzo fondamentale. Non sorprende quindi che i nostri media abbiano risemantizzato il cambio al vertice delle istituzioni cubane come una sorta di investitura, alterandone completamente il significato, o abbiano insistito sul carattere ademocratico della vita politica dell’isola, quando dell’irrigidimento della rivoluzione e del mancato sviluppo di una autentica democrazia che accompagnasse il formarsi dello stato socialista sono colpevoli in primo luogo i ripetuti tentativi di sovversione violenta compiuti dagli apparati militari e di intelligence dell’ingombrante vicino del Nord ed in secondo luogo un quadro di Guerra Fredda non voluto né causato dai cubani.
Studiare la storia, ascoltare e riflettere su come parliamo e scriviamo degli “altri” rimangono il modo migliore di guardare ad un contesto lontano, che da decenni non smette di interrogarci.
Nella Cuba del dopo Fidel troviamo un Raul Castro, abituato al ruolo di spalla e decisamente senza il piglio del leader, defilarsi dal potere.
Cuba ha ancora oggi un ruolo centrale per il Sud America rivoluzionario, soprattutto in una fase di collasso dei principali Stati che hanno osato insorgere alla colonizzazione statunitense. Il vero problema è il ricambio generazionale. Oggi che i rivoluzionari del Movimento 26 Luglio sono quasi tutti scomparsi o comunque arrivati a una venerando età in cui le forze iniziano a scomparire sembrano mancare le nuove generazioni.
Queste sono indubbiamente cresciute in un altro contesto e non hanno vissuto le brutture del regime di Batista, per questo probabilmente hanno maturato minor combattività. Del resto Cuba è diventato uno Stato socialista con necessità di buoni amministratori e non più di rivoluzionari. Forse una visione più lungimirante avrebbe richiesto una maggior spinta su questo versante, ma la prudenza di fronte a un vicino aggressivo come l’imperialismo statunitense ha avuto la meglio.
Nel frattempo è cambiato il contesto con i Brics e l’apertura al mercato di Cina e Russia. In questo senso Cuba ritiene di avere ancora molto da fare e l’incarico a Miguel Díaz-Canel va in questa direzione. Certamente eleggere come Presidente la guardia del corpo di Raul potrebbe non essere la mossa politica più lungimirante presa dal Pcc. È senz’altro una mossa di chi ritiene di doversi porre sulla difensiva e ha bisogno di un uomo deferente.
Il vero problema è che l’attuale fase prevede un imperialismo aggressivo come non mai e non è ponendosi sulla difensiva che si salverà l’America Latina. Farsi cogliere impreparati rischia di spalancare le porte continente allo Zio Sam, che fiuterà nuovi spazi di mercato, incuneandosi al meglio in economie socialiste che si apriranno incautamente al mercato. Sembrerebbe questo il rischio maggiore per Cuba, piuttosto che una eccessiva chiusura del proprio commercio.
Il vero problema per le economie latinoamericane è la dipendenza da quella statunitense che ha sempre saputo come imbrigliare le politiche economiche delle nazioni sudamericane. Cuba, aprendosi al mercato rischierà questa sorte, finendo dalla padella dell’embargo alla brace di un’economia dipendente dagli Stati Uniti.
Dmitrij PalagiDa iscritto all’Associazione di Amicizia Italia-Cuba credo di poter testimoniare il valore simbolico di un’isola capace di resistere all’arroganza degli Stati Uniti d’America del secondo dopoguerra. Un incubo sul piano dell’immaginario, capace di consolidare una speranza rivoluzionaria fuori dalle maglie del socialismo reale. Con molta ingenuità e scarsa consapevolezza storica, che accomuna però quelli come me a chi non ha mai dovuto amministrare nemmeno un condominio e si ritrova a sentenziare su come dovrebbe funzionare una democrazia. Perché nel 2018, con una repubblica italiana attraversata da fenomeni tragicomici (Berlusconi, Bossi – oggi Salvini, Grillo, la Margherita, Mario Monti, …), c’è ancora chi si ostina a dire che “almeno da noi si vota“. Esistono contesti storici diversi e soprattutto è possibile praticare la partecipazione anche fuori da una semplificata dinamica prettamente consultiva. Anche nel nostro ordinamento sono previsti poteri autonomi dalla “volontà della maggioranza” (che poi come si formi quest’ultima sarebbe tema interessante, in tempi di vuota preoccupazione per le possibilità dispotiche che potrebbero attenderci). Si vedrà come farà Cuba a resistere al nuovo cambiamento globale in corso. La crisi del 2008 ha bloccato l’ascesa del socialismo bolivariano / del XXI secolo, mina La resistenza di un modello alternativo a quello capitalista non può dipendere dalla sola isola “dei Castro”. Ci si potrebbe interrogare su cosa significhi pensarsi fuori da una società di mercato e intrecciare rapporti internazionali realmente utili a creare blocchi di forza sociale. Mentre troppo spesso ci si accontenta di fare una vacanza un’orchestra e un paio di sigari…
«I suoi successori annunziano di volerne continuare la politica». Con queste parole si concludeva, il 10 marzo 1953, il servizio dedicato da “La settimana Incom” alla morte di Stalin.
Oggi Cuba si trova davanti a un identico punto di svolta: il venir meno della classe dirigente che si è formata nelle durezze e nelle asprezze della clandestinità, della guerriglia, di confronti ad altissima tensione (la Baia dei Porci, la crisi dei missili) e di un logorante assedio. La differenza rispetto all’Urss è che questo momento è stato ritardato di molti anni grazie non soltanto alla maggiore durata della vita ma anche all’assenza di una eliminazione della “vecchia guardia” quale quella avutasi in Urss nei secondi anni Trenta.
Díaz-Canel sembra aver annunziato di voler continuare la politica castrista: «Non c’è posto a Cuba per coloro che ambiscono a una restaurazione del capitalismo». È probabile che Cuba – a differenza di quanto effettivamente accaduto in Urss nel dopo Stalin – segua la traiettoria della Cina di Deng, quella di una formale conservazione cultuale del leader passato all’interno di una silenziosa ma sostanziale ristrutturazione politica ed economica. L’orientamento verso la Cina era già stato attuato nell’ultimo periodo della presidenza di Fidel, prima del 2006.
La chiave per interpretare le prime parole di Díaz-Canel sembra il termine «restaurazione». Cuba non tornerà pre-rivoluzionaria, in mano alla mafia, centro di prostituzione e gioco d’azzardo, ma questo di per sé non esclude un’apertura al mercato. La finestra del mercato potrebbe costituire un canale per la ri-penetrazione del capitale statunitense, ma anche un’opportunità per lo sviluppo da parte cinese di una maggiore efficacia economica dei Paesi socialisti e di una più stretta rete, anche di carattere militare, tra di essi.
Cuba nell’immaginario collettivo della sinistra è stata a lungo un santuario. Impossibile per chi si riconosceva nei valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale non proiettare emozioni e speranze su una rivoluzione gloriosa che ha abbattuto una dittatura fascistoide e permesso al popolo cubano di migliorare le sue condizioni di esistenza, in particolare nell’ambito dell’istruzione e della sanità, nonostante il blocco economico imposto dagli USA. Il mito del Che, il carisma e l’acume intellettuale di Fidel Castro, hanno reso ancora più leggendaria la storia della piccola isola a poche centinaia di chilometri dalle coste statunitensi che si è ribellata in faccia all’Impero. Anche per chi storceva in naso davanti ai piani quinquennali sovietici o alla Rivoluzione Culturale di Mao, Cuba rappresentava molto spesso un modello virtuoso e la speranza di un socialismo meno grigio e inflessibile di quello che veniva solitamente attribuito all’Unione Sovietica o alla Cina.
Ci vorrebbero anni di studio per investigare in profondità le trasformazioni nelle rappresentazioni culturali degli ultimi due decenni e per capire come gradualmente il mito di Cuba si sia così offuscato. Quando ero nei miei anni del Liceo provavo un sincero fastidio per chi andava in giro ed esibiva con fierezza la maglietta del Che. La ritenevo la cosa più omologante e banale che uno studentello di media o (più spesso) buona famiglia di una regione rossa come la Toscana potesse fare. Col senno di poi, mi rendo conto che quantomeno quell’esibizione mostrava ancora un barlume di attaccamento di massa a certi ideali, a certe narrazioni, a certe vicende. Oggi si è perso persino questo innocuo attaccamento simbolico e rituale consumistico (l’ultimo è stato la bandiera della pace – che ovviamente detestavo – che nella sua ridicolezza esprimeva almeno un reale rifiuto per la guerra imperialista in Iraq, rifiuto mai registrato nei casi più recenti di Libia e Siria).
La regressione culturale degli ultimi anni ha cancellato la possibilità di leggere la realtà nella sua complessità. Laddove non ci sono elezioni, si grida alla dittatura che va abbattuta ad ogni costo senza interrogarsi sul contesto e la storia di quel paese, senza problematizzare come la nostra democrazia rappresentativa sia ormai un vuoto simulacro che ha reso il suffragio uno spettacolo da consumare o un talent fra personaggi più o meno carismatici in cerca di ribalta. Se riteniamo Cuba meno libera dell’Italia perché qui abbiamo avuto più elezioni o Presidenti del Consiglio forse ciò è sintomatico del fatto che dovremmo rivedere le nostre categorie di libertà e democrazia. Proprio un sistema che impedisce ai propri cittadini di guardare oltre il proprio naso e di discutere e problematizzare una categoria tanto vasta e complessa come quella di libertà, riducendola al teatrino dell’election day, in un mondo sempre più individualista e senza più una reale partecipazione attiva alla vita politica e sociale, prova che non dovremmo dare lezioni di libertà a nessuno senza prima esserci liberati delle nostre catene, che sono più trasparenti ma probabilmente ancor più pesanti di quelle di venti anni fa.
Oggi, buona parte della sinistra sarebbe felice di vedere il ritorno di un sistema capitalistico a Cuba fatto a immagine e somiglianza di quello americano, con tutto l’apparato della democrazia formale da esportare e impiantare dal nulla. Forse ritengono che una donna e un uomo siano più liberi se ogni cinque anni sono chiamati alle urne, piuttosto che se venga assicurata loro una sanità universale di qualità e un’istruzione gratuita che li emancipi dalle catene dell’ignoranza. Io continuerò a pensarla diversamente. E spero lo farà anche il nuovo Presidente cubano Diaz-Canel.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.