Attacco alla Siria: il déjà-vu di cui il mondo non aveva bisogno
Dopo due settimane di propaganda di guerra sul presunto utilizzo di armi chimiche in Siria, a cui hanno partecipato esponenti della sinistra parlamentare, è arrivato puntuale il bombardamento “umanitario”.
Nella notte tra venerdì e sabato, statunitensi, francesi e britannici hanno scatenato un bombardamento di missili sul territorio siriano. La promessa di Trump, il suo “arriveranno” (i missili), è stata mantenuta. La Russia invece ha preferito non rispondere, almeno per ora. Vista l’alta densità di eserciti stranieri presenti in Siria il pericolo principale resta il possibile incidente, tanto più che l’amministrazione statunitense potrebbe non essere interessata a fermare l’escalation seguendo la scia di odio e volontà di dominio israeliana.
Insomma, si è trattato di un bombardamento circoscritto, oppure solamente del preludio a un intervento massiccio? Ne parliamo questa settimana con gli autori del Dieci Mani.
Un ordine internazionale fondato sulla pace non sembra più interessare nessuno, né in Europa né in (Nord) America, e i fatti di questi giorni non sono che l’ennesima dimostrazione. Al contempo, però, bisogna notare come, negli esecutivi occidentali, nessuno sia (fortunatamente) disposto a rischiare un conflitto vero e proprio, nemmeno nelle forme del ricorso alla sola forza aerea o dell’intervento limitato.
D’altra parte è alquanto facile capire perché, senza ricorrere a complottismi fantasiosi e senza teorizzare altrettanto fantasiose alleanze “segrete”: May ha già compiuto un gesto di dubbia legalità ordinando il bombardamento degli scorsi giorni prescindendo dal voto parlamentare, occasione in cui rischierebbe una umiliante sconfitta, potendo contare magari su qualche transfugo del Labour ma dovendo fare i conti con una maggioranza ballerina e con possibili fronde interne al suo stesso partito; Macron sa benissimo di non potersi permettere un intervento militare reale oltre a quelli già in corso, soprattutto non in un’area del mondo nel bene e nel male così sotto i riflettori come la Siria: un risvegliato movimento pacifista, che molto probabilmente farebbe da collante tra scioperi e agitazioni dei lavoratori e movimento studentesco, sarebbe sicuramente troppo da gestire anche per un esecutivo virtualmente invulnerabile come quello francese; Trump, infine, oltre ai molti pronunciamenti contro le missioni statunitensi all’estero – percepite dal magnate come uno spreco di denaro a favore di ingrati alleati – deve fare i conti con una popolarità in caduta libera e con le prossime elezioni di midterm, e quindi sicuramente vuole evitare un dossier divisivo come quello mediorientale costi quel che costi.
Le gare di retorica che di questi tempi contrappongono l’armata Brancaleone di USA, Regno Unito e Francia alla Russia e ai suoi stati fantoccio – impegnati a scambiarsi minacce e accuse a mezzo stampa – non sono quindi che tragicomiche battaglie tra tigri (e orsi) di carta per sempre più ristretti cortili imperialistici, pronte a squagliarsi davanti alla realtà dei fatti. A farne le spese, come sempre, i civili siriani e curdi, privati ancora una volta di ogni possibile voce in capitolo.
Da tempo l’imperialismo statunitense ha messo nel mirino la Siria, la quale compare già nelle prime posizioni dei Rogue States emanata da Bush. Il prevalere delle volontà del deep state americano nelle politiche militariste e guerrafondaie è scontato, nonostante Trump abbia effettivamente tentato di tornare a politiche isolazioniste. Tuttavia, nemmeno il multimiliardario può nulla contro il deep state che abbiamo visto agire in maniera potente e pericolosa già nella vicenda nordcoreana e che è tornato prepotentemente a farsi sentire in quella siriana.
Nel 2013 gli Stati Uniti decisero di rovesciare la Siria di Assad. Nel 2014 sempre sull’onda di un attacco chimico attribuito alle forze governative, Obama arrivò ad un passo dall’attacco diretto, ma si fermò non per rispetto della democrazia (mancava ieri come oggi il voto del Congresso) bensì in seguito ad una forte contrapposizione di Russia e Cina (quest’ultima latitante oggi). Le indagini ovviamente stabilirono che l’attacco chimico venne orchestrato dai ribelli per trascinare nella guerra civile gli Stati Uniti. Come già accaduto più volte, anche nello specifico caso siriano, le armi chimiche sono il pretesto per aggredire come il lupo con l’agnello nella celebre favola di Esopo. Ciò che lascia interdetti è vedere l’aggressione imperialistica sostenuta come nobile gesto umanitario dalla Sinistra parlamentare e dal Movimento 5 Stelle, mentre la destra è rimasta l’unica ad osteggiare l’interventismo occidentale. Una cosa gravissima e devastante per il futuro politico dell’Italia, che va ben oltre la gravità dell’annientamento politico della Sinistra ormai completamente irriconoscibile perlomeno nelle sue rappresentanze istituzionali.
L’attacco promosso da Stati Uniti, Regno Unito e Francia alla Siria con il pretesto di colpire siti di stoccaggio di armi chimiche nascosti dal governo Assad ci rimanda indietro nel tempo. Nuovamente, l’utilizzo di questa tipologia di armi da parte di un governo è stato assunto a giustificazione per l’intervento militare in un paese terzo.
Il presidente Trump e i suoi alleati non hanno neppure aspettato il controllo, per quanto anche solo formale, da parte delle Nazioni Unite per l’accertamento dei fatti. La decisione è stata quella di sferrare un attacco, il venerdì sera (quasi con l’intento di monopolizzare il dibattito del fine settimana), che rischia, nel caso a questo facessero seguito altri interventi, di aggiungere ulteriori problemi in un territorio dilaniato da una guerra che dura da anni. Un attacco del genere porta in primo piano tutta una serie di questioni non risolte.
In primo luogo, il ruolo Stato Islamico e dalle altre formazioni fondamentaliste e l’efficacia dell’azione occidentale nel contrastarlo: l’evoluzione dei rapporti tra Stati Uniti e Califfato, petromonarchie, Turchia, Russia e resistenza curda mostrano chiaramente come, nuovamente, la strategia dominante sia quella della destabilizzazione di un territorio cruciale per gli interessi geopolitici occidentali, a discapito, anche qui nuovamente, di milioni di vite e delle aspirazioni dei popoli. A ciò vanno aggiunte tutte quelle relazioni economiche, politiche, culturali e religiose di cui oggi la guerra in Siria rappresenta il centro e che non sembrano avere soluzione imminente: il grande scontro tra sciiti e sunniti, l’influenza di quelli che fino a trent’anni fa erano i blocchi delle due superpotenze e le aspirazioni espansionistiche delle potenze territoriali.
In secondo luogo, vi è la logorante assenza di un movimento pacifista che dall’Europa richieda a gran voce che si eviti l’ennesima carneficina. Nel nostro Paese in particolare, oramai da anni la politica non è in grado di sviluppare un’elaborazione che definisca una posizione chiara sul piano internazionale e anche a questo giro, le posizioni abbozzate sull’intervento armato sono state quasi esclusivamente utilizzate per rimpinguare la folta produzione di commenti a proposito delle discordanze all’interno delle coalizioni e liste che hanno ottenuto i risultati migliori alle ultime elezioni.
Il mondo pare non rendersi conto, ancora, del dramma della guerra in Siria: milioni di vite spezzate, un patrimonio culturale e artistico incommensurabile andato perduto e l’ennesima dimostrazione di come, molto banalmente, la guerra e l’imperialismo riescano a distruggere tutto ciò che millenni di civiltà hanno creato.
Dmitrij PalagiSu questo sito, nelle ultime settimane, abbiamo cercato di offrire dei contributi complessivi sulla questione curda, tentando di riaccendere la memoria su Iraq e Afghanistan. Il Medio Oriente vive la crisi degli stati nazionali in modo più drammatico rispetto alle altre parti del mondo, complice anche l’imposizione (nel Novecento) di confini difficili da sostenere anche senza ingerenze di interessi stranieri sul territorio. L’Iran rappresenta un’anomalia. Se la Turchia riesce a restare nella NATO e stringere accordi con la Russia, Israele porta avanti politiche decisamente poco coerenti dal punto di vista della propaganda di cui si ammanta. Le petromonarchie rimangono un monumento all’ipocrisia del sistema internazionale. Finita la Guerra Fredda le contraddizioni tra interessi imperialisti hanno finito per esplicitarsi all’interno di quello stesso blocco convinto di aver vinto la sua battaglia nella storia. Con la crisi del 2008 si è attestato un ruolo quasi subalterno [provocazione] di una parte dell’economia globale, rispetto alle grande potenzi definite “emergenti”. Gli Stati Uniti non sanno gestire politiche multipolari senza conflitti: nella loro storia le due guerre mondiali hanno rappresentato un cambio di paradigma definitivo, proiettando l’idea del “popolo delle libertà” a giro per il globo. Non è facile ritornare su posizioni isolazioniste, come si illudevano in troppi nelle file della sinistra europea, salutando con simpatia l’ascesa di Trump (ignorando le conseguenze per quelle minoranze interne che pagano lo slittamento a destra, assieme ai settori sociali più deboli). Il vecchio continente non riesce a pervenire, con una Germania al centro di rapporti commerciali troppo complessi per risolversi unilateralmente e le due ex potenze coloniali [Francia e Gran Bretagna] eufemisticamente in difficoltà. La Russia ha saputo recuperare diplomazia e retorica di tempi che furono, senza un corrispondente peso. La Cina non è interessata a lavorare in una dimensione che non sia di lungo periodo e relativamente di secondo piano. La questione è economica. Della politica interessa a ben pochi, in crisi di consenso come sono tutte le narrazioni occidentali post-liberali. Quando cambieranno i rapporti di forza si assisterà probabilmente a un diverso equilibro. Nel frattempo sarebbe obbligatorio per gli europei tentare di recuperare una dignità, anche solo all’interno dei loro stati nazionali (per quanto possano risultare effettivamente inadeguati). E sperare che questo vuoto passato al governo delle istituzioni non determini ulteriori conflitti a danno di chi inevitabilmente paga il prezzo di gruppi dirigenti irresponsabili. La Siria è schiacciata da queste logiche. Assad rimane in piedi come simbolo di un Iran che cerca di mantenere una linea di influenza autonoma dalla strana coppia israelo-turca.
L’attacco anglo-franco-americano alla Siria si è risolto, a conti fatti, in un unico bombardamento di centri di produzione e depositi di armi chimiche – che evidentemente non vi erano: in caso contrario, la deflagrazione di tali armi avrebbe provocato davvero un eccidio di massa.
L’operazione è stata quindi poco più che una esibizione di muscoli effettuata contro la Russia sulla pelle della sovranità siriana – la May ha dichiarato esplicitamente che la destituzione di Assad non rientra tra gli obiettivi delle tre potenze. Perfino Macron, che aveva annunciato di aver convinto gli americani a restare in Siria (è stato smentito da Trump), si è distinto per aver rilanciato l’azione diplomatica nei confronti della Russia.
La rapidità di manovra del Presidente francese è particolarmente pericolosa non soltanto perché ripercorre il corso colonialista tracciato da Sarkozy e Hollande, ma anche perché insiste su un obiettivo di medio periodo che rischia di disintegrare gli obiettivi di lungo termine dello stesso Macron. In altri termini, il rilancio dell’imperialismo francese nuoce gravemente all’integrazione europea.
È proprio il tema dell’integrazione europea che i fatti siriani fanno apparire in controluce come il più urgente. Senza istituzioni unitarie, senza una politica estera unitaria, senza forze armate unitarie, la UE è inesistente nei rapporti di potenza. La vera domanda non è quella di Kissinger, «Qual è il numero di telefono dell’Europa?», bensì quella staliniana «Quante divisioni ha l’Europa?».
In assenza di una risposta, gli Stati europei – o perlomeno l’Italia – sono costretti ad avvitarsi in un vuoto dibattito tra due contrapposti errori: l’adesione automatica al vincolo atlantico da un lato, l’immediato schieramento pro-russo dall’altro. In entrambi i casi l’Italia – e quindi, uno stato per uno, tutta l’Europa – resta avamposto geografico di una potenza straniera e si priva tanto della sovranità militare quanto di un’effettiva indipendenza in politica estera.
Resta da segnalare infine la debolezza del movimento pacifista. In parte lo si può imputare allo sfibramento prodotto da una lunga crisi economica, ma il dato fondamentale mi pare essere la percezione dell’inutilità di una mobilitazione di fronte a interessi di potenza gestiti unicamente a Washington e a Mosca. Al tempo della guerra in Iraq la situazione europea e mondiale vedevano una più ampia distribuzione dell’equilibrio; ad oggi, il ritorno di una dura confrontation spinge necessariamente le forze politiche e sociali ad aderire alla linea del blocco di riferimento. Non è forse privo di significato che il partito italiano più decisamente russofilo, ossia la Lega, si stia in questi giorni irrigidendo anche sulla soluzione del governo, con il rischio (calcolato?) di ritrovarsi all’opposizione di un esecutivo pigliatutto.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikimedia.org
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