Articolo pubblicato la prima volta il 14 dicembre 2014
“Quando un’anima è pervenuta a un amore che pervade con la stessa intensità tutto l’universo, questo amore diventa il pulcino dalle ali d’oro che spezza il guscio del mondo.”
Simone Weil
Il secondo relatore è stato il professor Marco Vannini, fiorentino laureato in filosofia – tesi sul Wittgenstein metafisico e mistico – che ha percorso la strada mistica e spiritualista: è stato collaboratore di Padre Gino Ciolini al Convento agostiniano di Santo Spirito di Firenze, organizza un ciclo “di incontri con la spiritualità” presso la chiesa di S. Jacopo in via Faenza, è il massimo esperto di mistica speculativa e massimo conoscitore di Meister Eckhart di cui ha curato tutte le opere e infine, ma non per ultimo, autore di numerosi saggi, come “Storia della mistica occidentale dall’Iliade a Simone Weil”, “Inchiesta di Maria”, “Indagine sulla vita eterna” e molti altri.
Vannini esordisce dicendo che il sintagma Amore mistico, titolo della sua relazione, è un po’ ridondante, perché l’amore, nella sua natura più profonda, è sempre mistico, anche se non lo sa.
Il capolavoro dei libri occidentali sull’amore, continua il filosofo, è “Il convito” (o “Simposio”) di Platone, “testo fondante della mistica occidentale”, come lo ha definito Simone Weil, testo per eccellenza che scandaglia “questo sentimento popolare che nasce da meccaniche divine”, per dirla con le parole di Battiato e che accomuna tutte le direzionalità dell’amore.
A prima vista, l’amore mistico sembra rivolgersi a una realtà, una dimensione non direttamente sensibile (che sia rappresentata da un Dio, o da una divinità non per forza raffigurabile, a differenza del Cristo..). Nel linguaggio comune – da cui bisognerebbe sempre partire, come insegna Wittgenstein – è visto come un amore assoluto, incondizionato, che dovrebbe dar vita a una letizia anch’essa assoluta, quasi estatica, un amore che unisca l’amante all’amato (qualunque esso sia) in una specie di estasi amorosa. In realtà però non è vero che l’amore mistico sia privo di desiderio di contatto fisico, privo di carnalità o di erotismo, come molti credono. Esistono diverse testimonianze scritte che smentiscono questo “luogo comune”. In realtà , a ben guardare, l’amore mistico sembra più una specie di surrogato dell’amore umano, anche sessuale. Forse proprio per il fatto che la figura occidentale di Dio sia maschile, paterna, così come Gesù stesso è un uomo, non meraviglia che la maggior parte delle esperienze mistiche le abbia vissute delle donne: spesso queste erano monache e quindi si rifugiavano in questa sorta di amore surrogatorio, come ad esempio le monache medievali che sognavano di baciare “Il tenero prepuzio di Gesù bambino”, o di allattarlo, o andavano addirittura incontro a gravidanze isteriche. Questo per dire che non è vero che l’amore mistico sia qualcosa di etereo, celeste, tutto proiettato in una dimensione incorporea e sublimata, ma anzi è avidamente erotico, famelico quasi, sprigiona sensualità e passionalità erotica, violento desiderio carnale da tutti i pori, stando a certi scritti lasciati da alcune mistiche, sia medievali ma anche, ad esempio, novecentesche.
Basti leggere le parole della mistica lucchese del ‘900, Gemma Galgani, per farsi un’idea della brama potentemente carnale e anche intensamente dilaniante, lacerante con cui ella parla dell’amore:
“O amore, amore infinito…O spogliami di questa carne, o tirami fuori da questo corpo, o smetti; perché io non posso più… Il mio corpo, o Signore, non può più sopportarlo questo continuo struggimento; dunque, o toglimi dal mondo, o smetti (…) O amore, O amore infinito!.. Vedi, l’amor tuo, o Signore, mi penetra con troppa veemenza fino nel corpo. Quando, quando mi unirò a te, o Signore, che con tanta forza d’amore mi tieni unita qui in terra?…Fallo, Fallo! Ch’io muoia e muoia d’amore!.. che bella morte o Signore… Morir vittima del tuo amore, vittima per te! (…) O amore, o amore infinito! Fa’ che l’amor tuo tutta mi penetri; altro da te non vo’ e conosco quanto è soave il tuo possesso..” Un canto di monache tedesche medievali è addirittura ancor più scoperto, ancor più esplicito: “ Sempre di più cresce il desiderio di aderire profondamente all’Amatissimo, riceverlo dentro noi stesse e diventare una cosa sola con lui”. In realtà però, continua Vannini, questa unione mistica non è possibile, non esiste nella realtà. In questo amore, che è prevalentemente desiderio (e anche desiderio fisico) proprio come quello umano, non avviene mai un’unione sessuale che non è mai possibile. Infatti già dire “unione sessuale”
è cadere in una delle trappole linguistiche di cui parlava il già citato Wittgenstein, perché sarebbe come parlare per ossimoro, sarebbe come dire ferro di legno, dato che sesso significa separazione. Sarebbe come dire “unione separante”. Come scriveva Simone Weil “nell’unione carnale l’uomo e la donna vogliono diventare uno, ma non possono. È l’unico desiderio fisico che non può essere soddisfatto.” Quindi anche le estasi, possono sì essere di smisurata e lancinante intensità, ma restano comunque un momento fugace. Di questa provvisorietà, casualità, si rendevano conto già le profonde mistiche del passato, le quali per esempio non usavano mai un linguaggio così erotico e sensuale per riferirsi alle loro esperienze fisiche concrete, come si può notare attraverso due esempi: Il primo è quello di una mistica francese del ‘600, Madame Bouillon – che il grande filosofo Schopenhauer chiama “questa nobile anima che mi riempie di rispetto e ammirazione” – nei cui scritti non compare traccia di erotismo. Il secondo è quello di Caterina da Genova, gentildonna genovese che ha lasciato diversi scritti in cui si astiene da un linguaggio focosamente sessuale. Insomma, da tutte queste testimonianze si recepisce come il momento estatico, soprattutto dal punto di vista di chi lo vive, è assolutamente accidentale, eccezionale e addirittura persino fuorviante, disturbante. Teresa d’Avila – che nel 1577 scrisse l’intenso Il castello interiore – e Giovanni della Croce, scrivono che quando si diventa maturi le estasi finiscono e devono finire, perché quel che è essenziale è la realtà quotidiana, in cui, in ogni momento, se la si sa percepire e cogliere, c’è una profondissima beatitudine, che è ora, nel presente, può sprigionarsi in ogni attimo del nostro vivere quotidiano. Questi mistici si sono resi conto che l’amore come desiderio va necessariamente incontro a uno scacco, sostiene Vannini, in quanto, essendo desiderio di bene, di benessere, accade che ci sia sì un profondo attaccamento, ma anche necessariamente, un conseguente distacco, che deve esserci se non si vuole che amore sbocchi nel suo contrario, che non è l’odio ma il non-amore.
Margherita Porete, beghina del ‘300, bruciata come eretica e poi rivalorizzata e ispiratrice di Meister Eckhart, ne “Lo specchio delle anime semplici”, libro sull’amore, e di cui Amore è il primo personaggio, inizia e finisce con lui, si poneva la seguente, vera e sempre attuale domanda: “Che sarebbe se il mio amato volesse non essere più amato o preferirebbe che io amassi un altro più di lui?” Quindi già la mistica trecentesca si era accorta che l’amore va incontro a uno scacco che dipende dal fatto che il desiderio per qualcosa o per qualcuno è sempre amor sui, amore per sé stesso e di sé stesso. “L’anima crede di provare amore per Dio da cui è tenuta presa, ma in realtà è sé stessa che ama. Chi ama in senso forte è fatto non amore. Il mio volere è fatto non volere. Al termine dell’amore fui fatta non amore, al punto che l’anima non seppe più che farsi di Dio, né Dio di lei” (M. Porete). L’amore richiede il giusto distacco, richiede quel gelassenheit di cui parla Eckhart, che proprio per questo motivo, arrivava a dire “mio Dio, mio Dio, liberami da Dio!” L’amore mistico invece è sans pourquoi, non è subordinato a un fine, non è utilitaristico e non è dipendente dal desiderio, non è prigioniero di esso.
Nel Simposio, prosegue lo studioso, la dialettica amore-desiderio-distacco è centrale: si parte da una percossa del desiderio che si mostra come una divina follia, diviene desiderio di possesso, diviene brama di impadronirsi del corpo dell’altro, di far proprio l’oggetto amato, per poi accorgersi però, che dovrà sradicarsi da quell’unico esclusivo oggetto del proprio amore ed innalzarsi verso l’universale, dilatarsi, espandersi, disperdersi “nell’immenso mare della bellezza. Soltanto quando si vede questa bellezza, caro Socrate, soltanto allora, la vita ti apparirà degna di essere vissuta”, dice la sacerdotessa di Mantinea, Diotima, a Socrate, nel dialogo platonico. Quando il bene dell’altro ti è veramente caro, solo allora avrai perduto te stesso in esso e solo allora “viene il bello”: perché l’amore, dicevano i medievali “unisce nell’opera ma non nell’essenza”, può semmai attaccare ciò che è già unito, unisce nell’operazione ma non nell’essere, né a Dio né ad altro. Però in compenso fa molto di più: realizza quella cosa che è il far conoscere sé stessi a sé, perché uccide l’egoità. In un passo delle “Confessioni” nel momento in cui Agostino parla dei suoi molteplici e consumati amores giovanili il filosofo dice che lui non stava amando queste fanciulle. La persona era soltanto un’occasione, piuttosto, scrive, “amavo amare, amava l’amore”. Qui la distinzione tra soggetto amante e oggetto amato si fa evanescente, impallidisce fino al punto che viene meno la distinzione tra i due poli. L’amore è il soggetto dell’amare e l’atto di amare è l’amore stesso, che è anche oggetto dell’amore. È amore che ama e si ama l’amore. Amore amante che ama l’amore o l’amare, circolo infinito che non si chiude perché inizia là dove si conclude. L’azione dell’amore e il suo amare stesso ed è in questo atto che i due poli si dissolvono, l’amore li ama entrambi e li fa entrambi suoi, entrambi li comprende e li disperde entro di sé. In tale prospettiva, già solo dire “Io amo” è contraddittorio e già significa cadere nell’errore, in quella gabbia, in quella fortezza quasi indistruttibile che è il concetto di ego. Citando di nuovo Simone Weil, “non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci è concesso, se non la distruzione dell’io” , questa è la vera libertà, libertà dalla prigione dei nostri io. Tanto che bisognerebbe usare il neutro, l’impersonale e dire piuttosto “si ama”, perché non c’è più l’io, il cui uso è gravido, carico fino al midollo, traboccante di egoità e di essa è prigioniero. In un bellissimo passo del capolavoro hegeliano, “La fenomenologia dello spirito”, appare questo fatto, là dove l’esperienza d’amore è la più forte ma anche la più dolorosa: l’essere umano passa infatti, attraverso di essa, per quella che è “un’assoluta lacerazione”, viene straziato quando ad esempio la persona amata lo ferisce, lo rifiuta o peggio ancora lo tradisce. Scrive dunque Hegel (riferendosi a Cristo ma anche ad ogni uomo):
“È nella notte in cui fu tradita, che la sostanza si fece soggetto”. Dall’aspetto egoico all’aspetto spirituale quando si passa attraverso un’assoluta lacerazione. Solo così, quando il nostro io psicologico viene lacerato, straziato, distrutto, l’amore può davvero permanere, soltanto quando lo spirito è capace “di guardare in faccia il negativo e soffermarsi su di esso e questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’ essere” .
Solo grazie a questa magica forza, che non si sa da dove provenga, il geist, lo spirito, può sprigionarsi dal fondo del nostro essere, e passare, impermeabile, attraverso ogni ferita, ogni forma di dolore, rimanendo invulnerabile. Perché finché siamo oggetti d’amore siamo fragili, deboli, distruttibili, ma quando diventiamo donatori d’amore, dice Vannini, diventiamo invulnerabili. Ed è questo amore a rivelarci ciò che veramente siamo, a rivelarci il fondo di noi stessi, la nostra più intima, vera, profonda essenza di cui l’io è solo il costrutto superficiale e artificioso. L’io che a questo livello non è più necessario, come afferma Caterina da Genova che scrive di “aver rinunciato a dire io”, o come dicono gli Upaniṣad: questo tu sei. Questo, ciò, il das del neutro tedesco, il fondo senza fondo e senza ego di ciò che siamo, o meglio, che è ciò che siamo veramente.
In tutto ciò, ci si chiederà, “provoca” Vannini, dove sia Dio (dato che si parla di amore mistico, che non può eluderlo del tutto) e il professore risponde citando il grande filosofo e grande mistico Spinoza, il quale conclude la sua “Etica” con l’amor intellectualis dei (l’amore intellettuale di Dio) che è lo stesso con cui Dio ama l’uomo e in cui solo consiste, in questo slancio d’amore, la “nostra salus, libertas et beatitudo”. E proprio al filosofo olandese Jorje Luis Borges dedica un suo bellissimo sonetto, intitolato, per l’appunto, Baruch Spinoza:
“Bruma d’oro, l’Occidente illumina
la finestra. L’assiduo manoscritto
aspetta, già carico di infinito.
Qualcuno costruisce un Dio nella penombra.
Un uomo genera un Dio. È un giudeo
tristi gli occhi e citrina la pelle;
lo porta il tempo come porta il fiume
una foglia nell’acqua che declina.
Non importa. Il mago insiste e scolpisce
un Dio con geometria delicata;
dalla sua malattia, dal suo nulla,
continua a erigere un Dio con la parola.
Il più prodigo amore gli fu concesso,
l’amore che non aspetta di essere amato.”
Secondo Vannini gli ultimi due versi indicano perfettamente l’amore mistico. E di nuovo, cosa c’entra però, Dio, in questo poema? C’entra eccome, ribadisce il filosofo, perché si trova in quel fue ortogado, in quel gli fu concesso, nel verbo ortogar (concedere) che Dio si nasconde e lascia il suo timbro, la sua traccia. Anche Agostino, disquisendo con il suo rivale pagano (e anticristiano) Porfirio a un certo punto lo mette sotto scacco dicendogli:
“Anche tu, Porfirio, ammetti la grazia quando dici che giungere a Dio grazie alla forza dell’intelligenza è concesso a pochi. Non dici infatti piace o altro, dici che è concesso e allora, senza dubbio, tu stai ammettendo/ confessando che si tratta della grazia di Dio.” E in fondo, conclude Vannini, vi è forse uno stretto, inscindibile e magari identico rapporto tra l’amore umano e “L’amor che move il sole e l’altre stelle”.
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Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.