Da l’Internazionale scritta da Eugène Pottier per celebrare la Comune di Parigi nel 1871, la nascita e la crescita del Socialismo va di pari passo con le musiche che l’hanno sempre accompagnato. La morte (solo fisica, per la verità) di Paolo Pietrangeli, ultimo cantore del ’68 (ma non solo), ci interroga su alcune questioni: dove è finita la canzone di protesta di sinistra in Italia? Quale sono i generi che l’hanno contraddistinta e quale la contraddistingueranno? Esistono ancora i cantanti come Paolo Pietrangeli o Ivan Della Mea? Proviamo a rispondere (anche solo parzialmente) nel Dieci Mani di questa settimana.
Piergiorgio Desantis
La storia della Sinistra e del Socialismo è connessa alle musiche e agli inni che hanno accompagnato le avanzate o i passi indietro del movimento stesso. Ecco perché la canzone di protesta in Italia ha percorso diverse epoche connettendosi endemicamente alla stessa storia italiana. Dai canti dei lavoratori nei campi (per esempio quelli delle mondine) in un’Italia prevalentemente agricola fino a quelle di Paolo Pietrangeli che cantava un movimento di contestazione, operaio e studentesco in massima parte, affluente in manifestazioni di piazza dove avvenivano spesso scontri con le forze dell’ordine. Con la morte dello stesso Paolo Pietrangeli viene da chiedersi dove sia finita la canzone di protesta italiana, dopo i terribili anni ’80 e ’90. Un antico adagio afferma che la melodia la si ascolta quando si è felici, mentre, quando si è in crisi, si ascolta prevalentemente il testo. Ecco perché la crisi ultraquarantennale in cui versa la Sinistra fa pensare a musiche in cui centrale è il testo (da ascoltare accompagnandolo a riflessioni). Si sta parlando soprattutto del rap che continua a essere un genere centrale e importante. Si pensi a gruppi storici come 99 posse e gli Assalti frontali che utilizzano un linguaggio universale di chi non accetta lo stato di cose presenti. Le canzoni sono ambientate in grandi città metropolitane con tutte le contraddizioni e i conflitti che emergono con facilità: dal problema della casa, ai lavori precari e sottopagati fino alla perdita della vita stessa sul posto di lavoro. Da ultimo emerge nei testi anche il problema delle delocalizzazioni delle aziende italiane e il deserto industriale e sociale italiano. È il caso del rapper fiorentino Tenore Fi che nella sua canzone “Ivan” racconta la storia di un operaio della GKN che lotta per la difesa del suo posto di lavoro e sente vivo il senso di appartenenza alla sua classe. Ancora una volta la denuncia e la voglia di lottare (“Insorgiamo” è la loro – stupenda – parola d’ordine) traspare e si materializza in una posizione di difesa, purtroppo. Chissà se un giorno si potrà tornare all’avanzata impetuosa che così bene Paolo Pietrangeli ha narrato nei suoi testi, accompagnata dall’amore per la propria compagna, la propria famiglia, la propria classe, il proprio Partito.
Francesca Giambi
Dal mio punto di vista la canzone politica, impegnata, di protesta, non ha troppo spazio al giorno d’oggi, non incide più sulle coscienze e non viene troppo seguita…Sono lontanissimi gli anni del “Cantacronache” (1957) quando intellettuali, cantautori di Torino decisero di introdurre il concetto di canzone impegnata soprattutto sul fenomeno della resistenza partigiana.
Oggi nelle rare manifestazioni continuiamo a cantare “bella Ciao” o “Contessa di Pietrangeli, eppure di canzoni “politiche” ce ne sono state veramente tante in Italia ma sembra che oggi tutti siano più interessati a sfogarsi sui social o a seguire le melasse dei nuovi gruppi…Sono davvero lontani gli anni de “La guerra di Piero” (De André), “La locomotiva” (Guccini), “Per i morti di Reggio Emilia” (Amodei)… Negli anni ’70 la canzone “impegnata” voleva essere testimonianza della realtà e strumento per cambiarla…Oggi c’è questa intenzione? O dobbiamo dire che la sinistra non ha idee sul come cambiare tutta questa melma?
Non ci sono più Ivan Della Mea (Creare due, tre, molti Vietnam), Claudio Lolli (Borghesia), Giovanna Marini (I Treni Per Reggio Calabria), gli Stormy Six…La morte di Pietrangeli è stata proprio una pietra tombale per tutto ciò ch nei suoi testi, nelle sue musiche ci aveva insegnato… penso a “Tornerà a soffiare il vento”…Certo esistono gruppi recenti con accezioni politiche, quali Modena City ramblers, 99 Posse, Bandabardò, The Zen Circus, il gruppo combat folk La casa del vento, fino a Lo Stato Sociale, ma anche Caparezza e non ultimo ad esempio Willie Peyote…Questi artisti cosiddetti “indie” fanno un’operazione politica in quanto contestano la produzione ed il modo di distribuzione della musica ma quali ideali, quali idee porta avanti?
Alla critica, spesso feroce, alla politica si è sostituita una critica alla società, al costume, la canzone “impegnata” diventa una lettura disincantata del presente…Forse c’è davvero bisogno di un ritorno alla canzone politica, come atto identitario e che sia veicolo di messaggi forti e condivisi… Gli slogan e le lotte per il clima potrebbero essere una base di partenza… chissà…
Jacopo Vannucchi
Nel corso di uno spettacolo Giovanna Marini raccontava che Pietro Gori scrisse «Addio Lugano bella» mentre era agli arresti in Svizzera. Quando la polizia elvetica lo accompagnò alla frontiera in attuazione del provvedimento di espulsione, sul confine trovò un gruppo di lavoratori intonare proprio il canto che egli aveva scritto in carcere. Come aveva potuto diffondersi? «Sono canzoni», rispondeva Marini.Sospetto che la storia sia apocrifa, o se non altro che ne sia stata omessa la parte fondamentale in cui Gori riusciva a far uscire dalla cella il manoscritto, ma in ogni caso essa rende bene la funzione politica del canto in un mondo ancora dominato dall’analfabetismo.
La genesi della canzone politica risiede (se vogliamo escludere gli inni religiosi del puritanesimo inglese) nella Rivoluzione francese; nella necessità di saldare un blocco popolare e un altro tra borghesia rivoluzionaria e popolo. La canzone svolgeva due veci: quella di veicolare le idee per chi non fosse in grado di leggere fogli e giornali; quella di cementare un’appartenenza, in qualche modo analoga e opposta alla compattezza delle truppe che già veniva scandita dalle musiche militari. Gli strumenti utilizzati furono tre: riutilizzo di motivi popolari, composizioni ex novo, prestiti dalla musica di intrattenimento (chi direbbe che la napoleonica «La victoire est à nous» nasce in un’opera lirica?).Anche in un mondo non più analfabeta la necessità di inni identitari non è scemata – si pensi, checché se ne possa pensare della sua ecumenica applicazione, al rinnovato successo di «Bella ciao». Il declino del canto sociale e di protesta appare dovuto semmai al sorgere di altri elementi riconoscitivi: l’individualizzazione nel leader dei fattori di aggregazione politica, la diffusione di memi (grafici e non) via web, nonché la stessa rinuncia dei partiti a dotarsi di propri canti di riferimento per appoggiarsi invece alla musica commerciale. Come epitome di tutto questo si pensi all’involontariamente grottesca performance «Lo smacchiamo!» rilasciata dal PD (su note dei Queen) a quattro giorni dal voto nazionale nel 2013. Ma anche per questa dimensione della comunicazione politica si può scommettere che valga il marxian-shakespeariano “ben scavato, vecchia talpa!”. O, nelle parole di una secolare canzone del movimento operaio tedesco, che miscela eccezionalmente le avanzate e le sconfitte della nostra storia, «die Fahne ist niemals gefallen, sooft auch ihr Träger fiel» (la bandiera non è mai caduta, per quante volte sia caduto il portabandiera).
Alessandro Zabban
La musica politicamente impegnata in Italia ha una lunga tradizione, sempre intrecciata a doppio filo con le vicende storiche che l’hanno accompagnata. Se nell’Ottocento il Melodramma si è spesso fatto portavoce dei sentimenti patriottici e risorgimentali, i canti partigiani hanno accompagnato la Liberazione e restano ancora simboli viventi di una tenace cultura antifascista. Il Sessantotto ha portato anche in Italia in auge il rock, il linguaggio musicale che più di tutti ha saputo interpretare sogni e speranze delle nuove generazioni.
Proprio in riferimento alla vivacità della canzone di protesta in quegli anni, si tende a considerare l’epoca attuale come molto povera di proposte musicali adeguate alle esigenze della lotta politica e sociale. Ma manca la musica o manca la politica? Cioè, è l’aridità della proposta musicale a influenzare negativamente il contesto culturale e politico oppure è l’ambiente sociale che produce poco fermento musicale?
In realtà è un po’ come chiedersi se viene prima l’uovo o la gallina. Evitando ogni retorica dell’artista/innovatore/demiurgo si può credo dire che un’epoca di fermento alimenta musica di protesta in grado di interpretare il sentimento dei gruppi sociali più politicamente dinamici. A sua volta la musica unisce, identifica, stimola e rafforza i movimenti in lotta. La seconda metà degli anni Sessanta negli Stati Uniti si caratterizza per una serie di innovazioni nelle concezioni sia musicali che politiche che si sono intrecciate e influenzate a vicenda (la psichedelia come accesso ad una realtà altra rispetto allo spazio del conformismo borghese, le chitarre elettriche nel folk come rottura delle tradizioni, e così via) in un dialogo serrato che ha definito quella che per molti è l’età d’oro del rock.
Così, in un’epoca caratterizzata da un’egemonia culturale di destra, in cui i movimenti di protesta fanno fatica ad emergere, anche la musica impegnata appare appiattita su uno sterile revivalismo. Franco Battiato aveva colto con pungente ironia il nuovo clima politico e sociale che si stava profilando negli anni Ottanta, all’insegna dell’edonismo, del disimpegno e dell’individualismo consumistico sfrenato.
Viviamo ancora in un’epoca simile, ma caratterizzata da una profonda ansia: sociale, climatica, esistenziale. A ciò si aggiunge una frustrazione radicale, la sensazione che il mondo sia marcio ma che non possa essere curato e che non abbia senso impegnarsi per farlo. La musica non può non risentire di questo contesto e non a torto Mark Fisher mette in evidenza l’aspetto disperato, distopico, spettrale della musica contemporanea (basti pensare ad esempio a Burial o ai Boards of Canada).Ovviamente la musica di protesta non è morta ma raramente emerge e ancora più raramente arriva ad avere quella rilevanza sociale che servirebbe a farsi strumento catartico per una lotta di trasformazione politica. Il genio musicale non è una caratteristica innata in alcuni, ma dipende dalla percezione storica e dalle condizioni e concezioni sociali in cui si trova ad operare un musicista. Per tornare ad un esempio fatto precedentemente: in un ambiente culturale del tutto restio al cambiamento, anche un’innovazione puramente tecnica che a noi oggi appare banale, quella di usare le chitarre elettriche in un disco di musica folk, avrebbe condannato il suo ideatore, Bon Dylan all’oblio. E del resto probabilmente in un clima di conservatorismo di quel tipo non sarebbe mai venuto in mente al cantautore americano di fare una cosa del genere!
Così è possibile che nell’underground si muovano musicisti che ora non dicono niente a nessuno ma che in un momento di effervescenza politica potrebbero essere eletti a profeti di un nuovo linguaggio espressivo.
In Italia alle vecchie glorie della scorsa generazione come Modena City Ramblers, Banda bassotti o 99 Posse che hanno indubbiamente avuto un ruolo nel far rivivere la fiamma della protesta e della contestazione dove e quando è stato possibile, non sembrano attualmente riuscire a subentrare musicisti impegnati in grado di raggiungere la stessa popolarità. Negli Stati Uniti, che restano tuttora un punto di riferimento imprescindibile per comprendere le dinamiche musicali, il conscious hip hop ha avuto negli ultimi anni una certa rilevanza (come dimostra un rapper “underground” da decine di milioni di visualizzazioni su YouTube come Kendrick Lamar) e sarebbe miope non vedere una connessione fra il nuovo rap di protesta e i movimenti per i diritti degli afroamericani in America.
Insomma, le potenzialità della musica di protesta di tornare in auge ci sono ma affinché il suo linguaggio faccia presa è necessario un ambiente culturale più ricettivo, che solo tramite le lotte politiche può emergere.
Immagine da wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.