A poche ore dalla conclusione di Cop26 a Glasgow, il capo negoziatore cinese ha annunciato come Cina e Stati Uniti, i due Paesi maggiori inquinatori al mondo, collaboreranno per migliorare l’azione climatica negli anni Venti.
Le due superpotenze hanno infatti deciso di istituire un gruppo di lavoro che si riunirà a partire dalla metà del 2022 per “potenziare l’azione sul clima” nel decennio in corso.
Questa collaborazione apre nuovi scenari, non solo dal punto di vista della lotta al cambiamento climatico? Ne parliamo a più mani questa settimana
Leonardo Croatto
L’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping è stato annunciato con grande enfasi nei giorni precedenti l’evento, considerando che i due principali inquinatori globali si erano scambiati insulti a distanza durante tutta la CoP26.
L’annuncio dell’incontro ha generato grandi – e assolutamente malriposte – speranze sulla stampa: l’idea che i due paesi potessero avviare un percorsso bilaterale di collaborazione sul clima, oltre a produrre risultati diretti, visto il peso dei soggetti coinvolti, avrebbe dovuto servire da stimolo per gli altri paesi presenti alla conferenza, resuscitando un dibattito già morto il primo giorno.
Le grandi speranze, come facilmente immaginabile, sono state completamente disattese: La CoP26 si è chiusa con un sostanziale nulla di fatto, e nel primo incontro (in video) avvenuto dopo la chiusura della conferenza sul clima di Glasgow tra Cina e USA, l’unico tema rilevante che la stampa riporta è lo scambio di minacce sulla situazione di Taiwan.
Da quanto ufficialmente riportato e quanto elaborato dai commentatori, quindi, il primo incontro tra i due stati sembra sia servito a avviare la costruzione dei nuovi equilibri di un bilateralismo del XXI secolo in cui la Cina si appresta a sostituire la Russia nel ruolo di superpotenza, con gli USA ancora protagonisti della geopolitica mondiale e l’Europa ancora fuori dai giochi.
Di impegni sul clima, ad oggi, neanche l’ombra.
Francesca Giambi
Secondo Gaël Giraud, direttore dell’Environmental Justice Program della Georgetown University e propugnatore di un cambiamento radicale delle nostre società che passi per una totale de-carbonizzazione, la reale transizione deve poggiare su quattro assi: la sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile, il rinnovamento termico degli edifici, la mobilità verde, la trasformazione dell’industria e dell’agricoltura verso modelli meno energivori.
Si calcola che la transizione ecologica costerebbe 500 miliardi l’anno nella zona euro e ogni anno per l’Italia ci vorrebbero circa 70 miliardi.
Costi veramente alti, ma bisognerebbe anche, per trovare risorse: abolire i paradisi fiscali in Europa, proporre una tassa Carbonio o una tassa sulle transazioni finanziaria o anche mettere tasse sul capitale.
Il Cop26 ha visto contrapposizioni tra gli stati, ognuno pensando ai propri interessi (vedi India) ma purtroppo la terra è allo stremo e questo riguarda ogni stato e ogni popolo. La speranza del futuro è l’obiettivo di 1,5° di taglio di emissioni globali entro il 2035 ed azzeramento entro il 2050 obiettivo per la cui realizzazione i paesi più interessati sono le isole del Pacifico, dei Caraibi e l’Africa ma anche UE e Regno Unito.
Ma i 3 miliardi di persone di Cina e India pensano di fissare l’obiettivo emissioni nel 2060 la prima, addirittura nel 2070 la seconda, mentre gli Usa, tra i principali responsabili delle emissioni globali promettono di rispettare l’azzeramento nel 2050.Glasgow non è stato diciamo un successo, come hanno dimostrato le lacrime di Alok Sharma, presidente di Cop26, perché troppi sono gli interessi economici in gioco ma forse solo il fatto di un accordo tra Cina e Stati Uniti potrebbe far intuire uno spiraglio. Mancano 20 anni per l’obiettivo, e secondo i giovani del movimento Fridays for Future si continua a fare solo “bla bla bla” e non intervenire per evitare il devasto totale.
Qualche spunto positivo c’è stato na ripetiamo che mancano solo 30 anni… tra i progressi, gli impegni sulla deforestazione, la riduzione del metano e lo stop agli investimenti sui combustibili fossili all’estero… ma è decisamente poco…India e Cina faranno ostruzionismo sul carbone, e questo è seriamente drammatico.
L’india è infatti il secondo consumatore di carbone: il 70% dell’elettricità indiana è prodotta da centrali a carbone e si parla di più di 300000 lavoratori.
Bisogna fare davvero presto: vanno chiuse tutte le centrali a carbone non ne devono essere costruite altre. Ma l’alleanza climatica fatta in extremis tra Washington e Pechino porta un primo progetto concreto: aiutare la Cina a ridurre le emissioni di metano, gas serra 80 volte più potente della CO2, “riparando” le falle degli impianti che disperdono nell’atmosfera.
Jacopo Vannucchi
Osservando i dati sulle emissioni pro capite di anidride carbonica notiamo in cima alla lista i paesi produttori di petrolio; soprattutto, naturalmente, i piccoli paesi (Qatar, Trinidad e Tobago), ma anche quelli di considerevole stazza come l’Arabia Saudita. La Cina è ben più in basso: sotto la Polonia, che ha un’economia e in parte una società ampiamente basata sul carbone, e meno della metà del livello degli Stati Uniti, che a sua volta è inferiore a quello dell’irenico Canada. L’India si trova al di sotto della Moldavia, e il suo dato è del 40% inferiore a quello medio mondiale.Le sorti della decarbonizzazione negli Stati Uniti sono un po’ più in forse, dopo che il 5 novembre l’opposizione dei democratici moderati e conservatori ha costretto Nancy Pelosi a scorporare il piano di spesa per le infrastrutture fisiche (Bipartisan Infrastructure bill, BIF) da quello sulle cosiddette infrastrutture umane (Build Back Better bill, BBB). Su quest’ultimo la scadenza inizialmente concordata (15 novembre) è passata senza che la Camera lo abbia approvato e i tempi sembrano nuovamente allungarsi. Secondo la Ocasio-Cortez la principale causa di questi rinvii è l’attivismo delle lobby dell’oil & gas, che vorrebbero emendare il BBB in modo da rendere inefficaci alcune disposizioni ecologiche del BIF.
Le principali responsabilità della crisi climatica sembrano così ben individuate. Al di là dell’esito di COP26, tuttavia, la governance dei problemi mondiali transita dai negoziati bilaterali. Questo appare un passo avanti rispetto a una recente età in cui dietro le passerelle dei vertici multilaterali le decisioni erano dettate da un singolo Paese, o, su un altro piano, da grandi poteri economici. Il riequilibrio dei rapporti di potenza fra Stati Uniti e Cina generatosi negli ultimi vent’anni ha avuto sotto questo aspetto un effetto positivo. La stessa dichiarazione congiunta fra i due Paesi prodotta in occasione di COP26 ricorda la collaborazione sovietico-americana sulla non-proliferazione nucleare e sulla riduzione degli armamenti.Resta da chiarire se, nell’evidente mutazione del contesto internazionale rispetto al sistema di Jalta, i negoziati fra Washington e Pechino si accompagneranno a un mutamento dinamico del resto del mondo, oppure a una sua continuata emarginazione.
Alessandro Zabban
La Cop26 è stato il solito mezzo fallimento anche perché il tentativo di raggiungere degli standard condivisi e degli obiettivi comuni fra Paesi è, in un mondo profondamente disomogeneo, di per sé complicato, oltre che sostanzialmente ingiusto.
L’India, almeno sulla stampa italiana, è stata duramente attaccata per la sua volontà di voler continuare a usare il carbone nel suo percorso di sviluppo. Ma come si può chiedere a un Paese a tratti ancora palesemente sottosviluppato di rispettare le stesse scadenze di decarbonizzazione che hanno promesso i Paesi occidentali? Lo scandalo è semmai che ci siano Paesi che già da decenni hanno avuto tutte le possibilità economiche di abbandonare le fonti fossili più inquinanti che continuano a usarne in grandi quantità. Aspetto che oltretutto rende del tutto poco credibili le pressioni che l’Occidente muove ai Paesi in via di sviluppo, indebolendo così enormemente la lotta al cambiamento climatico. In rapporto alla popolazione, i Paesi occidentali sono di gran lunga ancora i più inquinanti: con che coraggio si va a dire che le responsabilità sono dell’India o di qualche altro Paese emergente?
Sorte simile è capitata anche alla Cina, accusata dai media e dai politici occidentali di non fare abbastanza. In realtà Pechino investe più di ogni altro Paese in rinnovabili ed è l’unico Paese di una certa dimensione che nello scorso decennio ha intrapreso una seria politica ecologica che sta dando i suoi frutti (ovviamente Roma non fu costruita in un giorno). Questo, gli Stati Uniti di Biden, al di là della solita campagna di denigrazione da guerra fredda che devono montare, lo sanno bene, come sanno che molte delle aziende leader nelle rinnovabili sono cinesi, insieme alle terre rare che sono indispensabili per la green economy.
Biden è in difficoltà dal punto di vista dei consensi, ha capito che lo scontro sulla Cina non paga in termini economici e ha promesso una svolta epocale nelle transizione verde. Il suo pacchetto di stimoli economici è l’unica speranza che gli è rimasta per permettergli di acciuffare un secondo mandato ed evitare una rielezione di Trump. I democratici hanno dunque bisogno che il tanto propagandato Green Deal funzioni, cioè che porti gli Stati Uniti a centrare i suoi impegni sul clima senza con questo causare una catastrofe sociale, anzi possibilmente aumentando i posti di lavoro e la qualità della vita anche nel breve periodo. Per fare questo ha bisogno della Cina, leader mondiale nelle rinnovabili e nelle infrastrutture.
Dal canto suo, anche Pechino ha tutti gli interessi a sedersi al tavolo con gli americani. Il clima di guerra fredda che tutto l’Occidente ha mosso nei confronti della Cina, che nella politicamente fluida globalizzazione ci sguazzava, preoccupa le autorità di Pechino che si vedono come bersaglio di una nuova, pericolosa crociata anticomunista.
Non si sa quali risultati possano raggiungere questi nuovi rapporti bilaterali incentrati sul clima. La Cina non nasconde la volontà d continuare la sua politica di apertura al mondo. Gli Stati Uniti invece devono decidere se preferiscono rilanciare la propria prosperità in cooperazione con la Cina o lascarsi sedurre dalla pulsione di creare nell’immaginario nazionale l’idea di un nuovo grande nemico (dopo URSS e Mondo Islamico) attorno al quale ricostruire un percorso identitario reazionario. Purtroppo, anche e soprattutto attraverso considerazioni politiche legate all’interesse nazionale si decideranno le politiche climatiche del futuro.
Immagine di Garry Kinight, Extinction Rebellion in Victoria Street, Londra, 26 August 2021
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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