Pubblicato per la prima volta il 13 aprile 2018
Altra testimonianza presente nel libro è quella alla scuola elementare di Fonni in cui Maria insegna in una classe composta per lo più da bambine. Le bambine, a quei tempi, erano un costo per le famiglie, perché non potevano essere impiegate nei campi come i maschi e quindi meno utili al sostentamento della famiglia, se non un vero e proprio peso. Perciò si cercava di darle via, di darle in matrimonio, sebbene anche questo fosse un costo, dato che insieme alla propria figlia occorreva dare una dote affinché qualcuno se la “accollasse”.
Mentre infatti i bambini solitamente non si presentavano mai scalzi a scuola e in inverno portavano sempre qualcosa di lana che li mantenesse al caldo, le bambine indossavano solo una tunichina di cotone e arrivavano scalze, anche quando fuori il clima era gelido. Anche questo rappresenta la ferocia e la durezza del vivere in quei tempi, ancor più dilanianti se nasci femmina perché sei meno utile, sei più sacrificabile. La vita di una femmina ha meno valore di quella di un maschio che va maggiormente preservato in quanto le sue braccia di futuro uomo, le sue braccia di futuro lavoratore sono più preziose e vanno mantenute sane per essere sempre più forti. Eppure anche le bambine, nonostante siano giudicate meno preziose, dopo scuola, vengono impiegate nei cosiddetti “servizi”: puliscono la maialaia, vanno a prendere l’acqua, spazzano il cortile, lavano i panni nel ruscello ghiacciato, insomma fanno anch’esse lavori durissimi, considerata la giovane età e l’esile anatomia.
Anche in questo caso Maria nota quanto queste bambine siano poco stimolate dalle fiabe e quanto invece si animino di vivo entusiasmo quando vengono raccontate loro storie drammatiche di ammazzamenti, storie dure, che forse richiamano quella stessa durezza, quella disumanità cui sono così avvezze e da cui, forse, sono ormai anestetizzate, a fronte delle quali si sentono ormai naturalmente invulnerabili.
A Fonni la Giacobbe riesce a ottenere una conquista enorme se si pensa alla situazione di partenza di queste bambine e al disagio della loro vita domestica: riesce a far scrivere loro “il vocabolario fonnese”.
A Fonni non ci sono né la radio, né la televisione così come non c’è nulla di scritto, dunque i bambini e le bambine conoscono e parlano soltanto il dialetto fonnese. Fonni si trova a circa 37 km di distanza da Nuoro ma tutte le frazioni che si trovano sul percorso sono piccoli mondi diversi e separati, incomunicabili tra loro, a cominciare dall’aspetto linguistico, poiché ogni paese ha il suo dialetto, ogni frazione parla la sua lingua locale. Così, solo una volta costruito questo vocabolario fonnese-italiano, italiano-fonnese, solo allora, si può iniziare a comunicare e solo partendo dalla comunicazione si può sperare in una qualsivoglia, quant’anche minima, forma di insegnamento. Già comunicare, e comunicare in italiano è una prima, grande tappa del percorso di istruzione e formazione.
Ed è solo attraverso la comunicazione, attraverso uno scambio linguistico che si fa di conseguenza anche umano e affettivo, solo attraverso il dialogo e l’interazione si può instaurare un contatto vero con quella dimensione così lontana dal mondo da cui proviene Maria, dal mondo in cui è cresciuta e in cui si è istruita (Maria aveva fatto il liceo classico, sebbene avesse anche sostenuto l’esame delle Magistrali per poter ottenere le prime supplenze). Solo stabilendo un dialogo si può allora edificare un rapporto di rispetto, stima, fiducia reciproci ed è solo in questo modo che si può scalfire il muro dell’incomunicabilità tra mondi, che si può accorciare le distanze e penetrare, pian piano, l’uno nella dimensione e nell’universo dell’altro, scoprendo qualcosa di nuovo, qualcosa di sorprendente, qualcosa che ci fa crescere e arricchire.
Maria resta a Fonni dal ’51 al ’53 e in questi anni le bambine si affezionano alla maestra e soprattutto acquistano, grazie a lei, ai suoi metodi, al suo approccio, al suo modo di comunicare con loro, una nuova consapevolezza: la timida consapevolezza che esiste un’altra realtà rispetto a quella che vivono ogni giorno, che possono aspirare ad appartenere a un altro mondo, avere delle alternative. Maria insegna a queste bambine a credere che loro potranno essere ciò che vogliono e che non per forza dovranno rimanere relegate in quel nocciolo di realtà in cui sono adesso costrette a stare. Insegna loro a sperare, a guardare il mondo, sebbene dal piccolo angolo sperduto e piccolo di Fonni, con gli occhi della possibilità e non solo attraverso quelli della necessità, di un destino ineluttabile segnato dalle circostanze della miseria e del disagio. Anche da Fonni, anche da una microscopica realtà pastorale e montana si possono alzare gli occhi verso l’alto e credere, o fingere di credere, che un posto spetti anche a loro, piccole bambine sarde senza scarpe né vesti di lana.
E queste bambine infatti si affezionano alla maestra, tanto che alla sua partenza, quando lei sta per salire sulla corriera che l’avrebbe condotta in un’altra scuola, le porgono una scatola di cartone. Sulla corriera Maria apre la scatola, “sudicia e scolorita” e vi trova tre uova, quattro biscotti, “sei caramelle, un nocciolo di frutta levigato come se fosse un gioiello prezioso, un foglio di carta con i nomi delle bambine, una dedica e la preghiera di restituire la scatola”. Sì, perché a quei tempi di carta non se ne trovava tanta e quindi era qualcosa di prezioso. Un dono pieno di tenerezza, che richiama tutto il candore e quella involontaria e quasi surreale “primordialità”, quella purezza così naif tipica di una fanciullezza acerba, non ancora per bene “addomesticata”, non inquadrata o irreggimentata in certi modi standardizzati di agire, pensare, muoversi, parlare. Le bambine di Fonni ricordano quasi delle piccole creature del bosco, delle piccole bestioline che come regalo per le bestiole più adulte portano code di lucertola e piccoli frutti che nascono per terra, credendo di star portando i doni più preziosi e sontuosi degni di una regina. E quelle uova, quei biscotti e quel foglio sono davvero, per chi dona e per chi riceve dei regali meravigliosi.
L’anno successivo, prosegue Soldani, Maria Giacobbe cerca di andare in un paese più avanzato, Bortigali, ma in cui finirà per annoiarsi presto: lì i bambini sono già “addomesticati”, incapaci di esprimere un pensiero genuino, realmente proprio, autonomo; sono impostati e prevedibili, non hanno la spontaneità, la “veracità”, quasi rude e selvaggia ma allo stesso tempo sincera e inconsapevolmente profonda dei bambini e delle bambine con cui Maria aveva avuto a che fare fino a quel momento.
Così la maestra se ne parte alla volta di Orgosolo, un altro piccolo comune in provincia di Nuoro, privo di quasi tutto. Vi è una sola corriera che fa un unico percorso, un solo bar, non c’è niente che abbia a che vedere con la carta stampata, o con qualcosa di scritto che reclami il bisogno di imparare a leggere o a scrivere. Come nella scuola di Fonni, anche i pavimenti della scuola (come del resto quelli delle case) di Orgosolo sono in terra battuta.
In questo comune Maria insegna in una prima elementare di 31 bambini che presto diventano 60 a causa dei ripetenti. Non appena la maestra inizia a parlare i bambini cominciano a piangere, a sbraitare perché non la capiscono, hanno l’impressione di ascoltare una lingua straniera perché l’italiano non lo conoscono. Allora cercano di “addomesticare” la maestra “facendo i banditi”, provando cioè, con le cattive, a farle capire chi è che comanda, provando a intimorirla: un giorno catturano una biscia nera e la mettono davanti a Maria, che però, anziché rimanerne atterrita, la afferra e la stringe forte nella mano. Una tale prova di indomito coraggio sbalordisce i bambini che cominciano a vederla come un’eroina forte e coraggiosa. Perché questi bambini vivono in un mondo in cui gli eroi, per loro, sono i banditi e loro stessi vorrebbero diventare gli eroi (ovvero i banditi) del futuro.
Maria riesce così a guadagnarsi il rispetto e persino l’ammirazione della classe stupefatta da tanta prodezza e in questo modo riuscirà a stabilire un contatto con loro facendogli intravedere altre possibilità, altre strade rispetto a quella del banditismo, facendogli conoscere la bellezza, la meraviglia, nascoste anche nelle cose più semplici ma magari sconosciute per quei bambini.
Uno di questi è il figlio di un famoso bandito in attesa di venire processato a Sassari per omicidio premeditato. A questo bambino Maria regala una conchiglia da cui poter ascoltare la voce del mare e lui sembra di sentire voci di mondi lontani, stranieri, gli sembra di scoprire segreti straordinari. La Giacobbe riuscirà a parlare con i bambini di Orgosolo e anche con le loro famiglie, cominciando sempre dalle cose di vita quotidiana che lei stessa impara a conoscere.
Scopre cosa mangiano la mattina – “una tazza di caffè e un pugno di fave secche, perché il caffè si può segnare a libretto e quindi non si paga finché non si hanno soldi per farlo” – e cosa mangiano a quello che noi chiamiamo pranzo (un termine improprio): “un pezzo di pane mangiato in piedi su cui a volte viene spalmato un po’ di formaggio, perché solo la sera si mangia a tavola”; scopre come e dove dormono: la casa è composta da due vani e in uno di questi ci sono tavolo, sedie, focolare e un solo letto. Tutti i bambini, a parte uno, Graziano, dormono per terra, su una piccola stuoia, perché così fanno tutti i maschi e così fanno i vecchi, dormono sul duro cercando al massimo di avvicinarsi al calore del fuoco. Graziano viene perciò irriso dagli altri bambini che gli danno di “femminuccia”.
Anche a causa di queste precarie condizioni igieniche e di abitudini quotidiane che costringevano a stare molto a contatto con la sporcizia le malattie più endemiche erano proprio la tigna (la malattia del sudicio) e il tracoma (la malattia della miseria), tanto che Maria, per arginare un minimo il pericolo di queste epidemie riesce a far arrivare alla scuola dieci letti, così che almeno dieci bambini ci potessero dormire.
“Sono mondi che abitavamo come in due epoche diverse”, continua Simonetta Soldani, “epoche diverse ma paradossalmente contemporanee”, intoccabili e incomunicabili come due rette parallele che però corrono a velocità diverse. Epoche diversissime in uno stesso identico tempo.
Simonetta Soldani con la sua capacità di raccontare – anche attraverso le testimonianze tratte dal Diario di Maria Giacobbe – , in maniera magnetica, questi sprazzi di vita vera, ha donato al pubblico che era presente, delicati istanti di magia, quasi di incanto, come se l’auditorio fosse catapultato in quella dimensione della Sardegna degli anni ’50, una dimensione che sembra essere rimasta sospesa nel tempo e nello spazio e che le parole delle due insegnanti (del presente e del passato) sono riuscite così bene a “dipingere”, facendola vedere, oltre che ascoltare, rendendola quasi tangibile, quasi vicina pur nella sua inaccessibile lontananza, per il suo senso di antico e distante nel tempo, sebbene non lo sia invece così tanto.
Il pubblico finisce quasi per commuoversi insieme alla professoressa Soldani, quando conclude il suo intervento con la lettura dell’ultima parte del Diario, dedicata a un ragazzino di Orgosolo, Giovanni di Francesco soprannominato Don Coco.
Va premesso che Maria non è una Don Milani, lei boccia, ha un senso della giustizia perfino rigido, abbastanza netto, e questo bambino era uno di quelli destinati alla bocciatura. Sebbene si trattasse infatti di un ragazzino “amabile, che si sforza di fare bene” poi una volta uscito dalla scuola, sulla strada, già si dimentica di tutto, si dimentica delle lezioni, i dettati sono un orrore, dimentica le parole, “inchiostro e pennino devono aver ordito una congiura contro di lui e mio malgrado”, scrive la Giacobbe, “il suo nome è tra i condannati”. Tenendo in mano il suo ultimo componimento, però, Maria dismette i panni del giudice severo e spesso inflessibile e viene presa da dubbi, tanta è la grazia e l’inconscia liricità di quel componimento, nella sua spontanea efficacia nel tessere una metafora che dipinge con apparente leggerezza il duro realismo dell’assolata e bruciata Sardegna. Don Coco coglie perfettamente i mali della terra in cui è nato e cresciuto, il male della siccità, vera piaga di questa terra, della sventura dei figli, della fatica del vivere del contadino o del pastore ustionati dal sole perenne e morsi dalla stanchezza, per i quali i rapporti sociali sono un peso e non una compagnia.
Il contadino, o il pastore, che sfidano caparbi quel sole cocente e spietato, con le armi dell’infinita pazienza, della determinata solerzia fino a che non fa sera, fino a che non appare la luna a raccogliere i loro piccoli sogni e a concedergli un po’ di pace, un po’ di silenzio. Luna che richiama quasi quella di leopardi, quella luna amica pronta a farsi riflesso dei desideri impossibili, delle brevi proiezioni fantastiche che si spengono alle prime luci del giorno, quando il sole torna di nuovo a bruciare impietoso. Così si legge nell’ultimo tema di Don Coco: “Il sole va ruotando con i suoi capelli di fuoco. Il sole è cattivo […] brucia la terra, l’era, tutto. Il contadino lavora con i buoi. La luna invece è povera, allegra, se ne va sola nel cielo e senza vestiti. Ma lei se ne importa e non ha bambini”, richiamando con quest’ultima frase all’assenza di stelle nel cielo notturno, riflettendo probabilmente la consapevolezza, da parte di Don Coco, che i bambini sono spesso, per i poveri, causa di infelicità o che ai bambini poveri stessi non è concessa troppa felicità per la vita che fanno.
Le parole di Don Coco esprimono la sua anima più vera e profonda, i suoi pensieri più genuini e intimi, sebbene celati da metafore semi-inconsce tratte da un mondo che lui conosce bene, il mondo dei campi, del sole, della dura vita nei campi, della vita povera e difficile: “Che importa se ci sono tante macchie sul foglio, e se la scrittura è grossolana? Don Coco ha imparato ad esprimere la parte più vera e originale di sé, questo mondo nel quale tutto ha un’anima di cui egli intende il linguaggio, senza che il pennino e l’inchiostro lo paralizzino. Don Coco ha vinto la sua battaglia col pensiero scritto. Don Coco non merita di essere bocciato. Afferro una gomma: Piras Giovanni di Francesco rimandato. Piras Giovanni di Francesco, approvato”.
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.