Le clausure forzate dovute alla pandemia hanno realizzato il più grande esperimento di massa sulla remotizzazione del lavoro. Mentre in Italia il ministro Brunetta spinge per il rientro in ufficio del personale della PA, nel mondo è in corso una riorganizzazione massiva – con in testa le grandi aziende Hi-Tech – dell’organizzazione del lavoro, che spinge per la scomparsa dei “campus” e la fine del modello 9 – 5 in ufficio.
Leonardo Croatto
Già da molti anni le infrastrutture tecnologiche disponibili consentono di muovere dati in quantità e con velocità tale da consentire il trasferimento a distanza di quei lavori che consistono prevalentemente nell’elaborazione di informazioni. Se, cioè, la produzione materiale o lo smistamento di beni materiali, per quella parte di lavoro che richiede ancora l’intervento manuale, ha ancora bisogno della presenza degli operatori, tutti quei lavori che hanno a che fare con il processo di dati e con l’erogazione di servizi immateriali già da tempo hanno cominciato a distanziare il fornitore dal cliente: i call center delocalizzati nei paesi dell’est europa, così come i corsi di lingua on-line, sono due facili esempi.
La pandemia in corso ha però costretto aziende ed enti pubblici ad accelerare un processo prima ancora assai marginale e riservato tendenzialmente solo alle alte professionalità: l’allontanamento dei dipendenti tra di loro, la dispersione nello spazio dei luoghi di lavoro.
Questo fenomeno ha aperto ad una serie di riflessioni sull’utilità dei luoghi fisici in cui si svolge l’attività lavorativa, sulla natura delle relazioni che vi si creano e sull’impatto che l’organizzazione spaziale del lavoro ha sul territorio, dall’organizzazione delle città fino al rapporto tra città ed aree interne e tra diverse aree del paese. Queste riflessioni si sono sviluppate tanto frettolosamente quanto repentinamente si è avuta l’esplosione centrifuga dei luoghi di lavoro, e la loro maturazione è ancora embrionale.
Ad oggi, lavoratori, organizzazioni sindacali, datori di lavoro, accademia, politica e amministrazione vivono, sia al proprio interno sia nel confronto reciproco, situazioni di conflitto dialettico su utilità e fattibilità della smaterializzazione di alcuni processi produttivi. Nella mia esperienza sindacale, in un settore ad alta intensità di professionalità e fortemente immateriale, riscontro, sia nelle parti datoriali sia tra i lavoratori, tanto fortissime spinte alla remotizzazione del lavoro, alla diversificazione degli orari di attività e ad una maggiore autonomia organizzativa dei singoli lavoratori quanto pressioni altrettanto forti verso un ritorno in presenza e a una gestione rigida e verticale dei tempi di lavoro. Non mi pare che ad oggi siano ancora disponibili valutazioni oggettive delle positività e delle negatività del fenomeno: i giudizi che al momento se ne danno sono legati esclusivamente a considerazioni soggettive che, per quanto assolutamente legittime, non forniscono un quadro generale.
E’ però interessante affiancare alla riflessione sulla modifica della relazione tra lavoratore e lavoro un fenomeno di cui si parla da alcuni mesi e che comincia a vedere i primi segnali di interesse anche in ambito scientifico: l’epidemia di dimissioni. Il ritorno a lavoro dopo un lungo periodo di allontanamento ha portato molti lavoratori a rivalutare la qualità della propria vita lavorativa e a darne un giudizio tanto negativo da spingere a cessare il rapporto anche in assenza di opzioni alternative immediate.
Tra quei lavoratori che richiedono, post-pandemia, la possibilità di continuare a lavorare da remoto e quelli che, costretti al rientro, decidono di dimettersi sembra esserci un tratto d’unione nella valutazione (assolutamente negativa) del proprio rapporto col lavoro: forse questo è il momento di riprendere il bellissimo saggio del compianto David Graeber “On the Phenomenon of Bullshit Jobs: A Work Rant” e cominciare a lavorare su un suo aggiornamento.
Piergiorgio Desantis
Neanche Ned Ludd (ammesso che sia storicamente esistito) e i suoi seguaci, che distrussero i telai meccanici per impedire la contrazione del lavoro ad opera delle macchine industriali, si sarebbero oggi volti verso i personal computer per distruggerli indefettibilmente.
Premettendo che, al netto di ogni valutazione apocalittica o etica, la tecnologia ha rappresentato il progresso e il miglioramento delle condizioni dell’umanità e che, come tale, non ha connotazione politica, il tema dello smart working, o meglio del lavoro agile in Italia, rappresenta la naturale evoluzione dello stesso mondo del lavoro nella modernità. Nonostante il ministro della PA Brunetta abbia contabilizzato un aumento del PIL pari al +1% determinato dal ritorno in presenza dei dipendenti pubblici dopo il periodo di lavoro svolto da casa (ci piacerebbe leggere gli studi che lo evidenziano), è abbastanza chiaro che sia la stessa evoluzione dell’economia e delle forme di organizzazione su cui essa si fonda andranno, necessariamente, nella direzione del lavoro da remoto nei casi in cui la prestazione lavorativa lo consenta. Risparmi notevoli in termini di tempo, di inquinamento (nei trasporti ma non solo) e la possibilità di organizzazione della vita hanno determinato un favore quasi plebiscitario dei lavoratori che hanno avuto la possibilità di usufruirne. Purtroppo in Italia, anche a causa di una legislazione antiquata e forse da rivedere, la regolamentazione del lavoro da casa viene lasciata praticamente alle necessità del libero mercato e alla liberalità e all’intelligenza dei datori di lavoro.
Sarebbe necessario codificare invece, anche alla luce della trasformazione del lavoro e dei lavori, una serie di diritti delle lavoratrici e dei lavoratori in questi casi. Dal diritto alla disconnessione al termine del proprio orario di lavoro al rispetto della privacy dei dati personali, fino all’integrazione in busta paga per l’utilizzo degli strumenti informatici e di rete nonché quella per i relativi buoni pasto. Vivendo quindi questo passaggio storico, forse, non è affatto conveniente la mossa della chiusura a riccio. La storia e i grandi pensatori come, ad esempio, lo stesso Gramsci ci hanno insegnato che non basta la chiusura per evitare guardare una realtà che forse vorremmo totalmente diversa; viceversa proprio l’immersione nella realtà così difficile e contraddittoria ci permetterà di far sortire dall’angolo le sorti e l’avvenire dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Jacopo Vannucchi
L’atteggiamento delle grandi aziende nei confronti del telelavoro è cambiato in modo sorprendentemente rapido in conseguenza della Covid-19. Da raro e prezioso benefit si è tramutato in una moderna e indispensabile organizzazione del lavoro.Sulla adozione del telelavoro ha agito ovviamente la stretta necessità di mantenere la continuità operativa delle aziende di fronte a un patogeno di cui non si comprendevano bene modalità e rapidità di contagio. Tuttavia il vasto entusiasmo datoriale per mantenere questa organizzazione si verifica probabilmente pour cause. Anzitutto consente un forte, fortissimo risparmio nelle spese fisse. Pensiamo soltanto agli affitti di vasti immobili, spesso in zone tutt’altro che economiche. Pensiamo a tutte le spese che derivano dall’uso di un immobile: le utenze, la manutenzione, la sicurezza, la pulizia. Questi costi naturalmente non spariscono: vengono soltanto redistribuiti sulle tasche dei lavoratori, che usureranno maggiormente la propria abitazione, consumeranno più energia e più servizi. Lo stesso fenomeno si verifica sovente anche riguardo l’alimentazione, e gravi per chi lavora sono le conseguenze anche in termini di ergonomia dell’equipaggiamento. Questi risparmi probabilmente più che compensano l’inevitabile declino nella produttività. Ma non sono solo questi i vantaggi per chi compra la forza-lavoro, né solo questi gli svantaggi per chi la vende.Per questi ultimi vi è naturalmente una situazione di maggiore sofferenza psicologica e declino produttivo: raramente la loro abitazione sarà stata costruita per servire da sede fissa di telelavoro. Le famiglie, specie se con bambini piccoli, sono soggette a un evidente accrescimento di stress, specialmente se il datore impone strumenti di controllo a distanza (minutaggio di attività del mouse, eccetera). Ma soprattutto l’impressione è che il vantaggio principale delle aziende investa il comportamento organizzativo. Isolati nella propria abitazione i lavoratori sono separati gli uni dagli altri e allontanati dai loro responsabili. Questa organizzazione incentiva il free-riding dei lavoratori meno produttivi e indebolisce la ricompensa dei lavoratori più produttivi; soprattutto, facilita l’opacità nella gestione manageriale dei gruppi di lavoro. Il crescente squilibrio tra lavoratori meno e più produttivi, inoltre, potrebbe in un breve futuro essere usato per introdurre la paga a cottimo per qualsiasi mansione. Lo smartworking stenta ancora un po’ ad affermarsi, ma è solo questione di tempo: abbastanza presto si cercherà di raschiare ancor più il confine tra vita lavorativa e vita privata, trasformando la forza-lavoro in un esercito di monadi per le quali il diritto alla disconnessione sarà stato sostituito dal dovere di connessione (beninteso, ottenuto surrettiziamente e non imposto formalmente). Naturalmente telelavoro e smartworking non sono soltanto questo. Possono essere anche un’occasione di vera conciliazione vita-lavoro per i dipendenti. A questo fine si richiederebbe però un diverso contesto decisionale, che purtroppo forze politiche e sindacali stentano a costruire.
Alessandro Zabban
Lo smart working, a cui la pandemia ha dato una notevole accelerazione, può essere in molti casi uno strumento di liberazione relativa del lavoratore. Pensiamo ad esempio a chi lavora in un ufficio nel centro di una grande città ma è costretto per via di uno stipendio basso a vivere nelle periferie più remote: è evidente che quell’ora (se va bene) all’andata e al ritorno risparmiata nel traffico cittadino incide profondamente sulla qualità della vita del lavoratore. Oltre a questa si potrebbero elencare molte altre situazioni più o meno comuni che permettono risparmi considerevoli in tempi morti e stress.
Sappiamo però anche che molti lavoratori non gradiscono lo smart working, non avendo a casa gli spazi per poterlo fare in comodità, per via dello stress che può comportare mescolare eccessivamente tempi di lavoro e momenti di riposo, o per altri fattori individuali.
Il problema dunque non è se incoraggiare lo smart working o meno, ma chi decide, come, quando e perché si fa lo smart working. Certo, la decisione di Brunetta di mettere fine al lavoro in remoto per i dipendenti pubblici per un punto di PIL tutto guadagnato in inquinamento e congestione dei trasporti, è una scelta assurda, ma il punto è che ogni decisione sullo smart working , anche e soprattutto nel settore privato, è a totale discrezione dei datori di lavoro che possono introdurlo o revocarlo nelle modalità che preferiscono.
In questo modo ovviamente lo smart working perde ogni potenzialità di emancipazione relativa per diventare solo uno strumento nelle mani dei datori di lavoro, a cui i lavoratori si devono giocoforza adattare.
Affinché invece il lavoro in remoto possa essere uno strumento in grado di migliorare la vita di chi lavora, occorre che lo smart working diventi un diritto le cui modalità devono essere frutto di una negoziazione fra le esigenze aziendali e quelle dei lavoratori. In questo potrebbero giocare un ruolo importante i sindacati, nell’offrire un quadro di riferimento entro cui incanalare una negoziazione che possa permettere di aggiustare il più possibile l’utilizzo dello smart working sulle esigenze reali dei lavoratori, che cambiano da contesto a contesto.
Immagine da pixabay.com
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