L’offensiva turca contro Afrin
Una bella illustrazione di Zerocalcare spiega meglio di mille parole il disinteresse generalizzato che avvolge l’operazione militare turca nel distretto di Afrin.
Se l’eroica resistenza di Kobane contro l’ISIS era stata celebrata ovunque, un silenzio glaciale avvolge la carneficina annunciata di Afrin, contea del Rojava molto vicina al confine turco e oggetto degli interessi strategici di Erdogan, intenzionato a colpire e reprimere con ogni mezzo qualsiasi forma di autoaffermazione del popolo curdo.
Ankara teme infatti molto la crescente autonomia del Rojava e non esita a definire le milizie dell’YPG come dei terroristi in combutta con il PKK che a sua volta guida la lotta di liberazione curda proprio nella Turchia orientale.
Così Erdogan può giustificare la violazione della sovranità territoriale siriana come un’azione di difesa della propria sicurezza nazionale.
Il silenzio assordante della comunità internazionale sull’operazione Ramoscello d’ulivo, iniziata il 20 gennaio, getta un’ombra molto scura sul futuro di Afrin che si trova nelle grinfie di un esercito che, al contrario delle milizie jihadiste, risulterebbe troppo ben equipaggiato e potente per essere fermato dalle milizie curde.
Siamo probabilmente di fronte a una nuova, inquietante svolta nell’interminabile conflitto siriano.
Costruire legami internazionali, paradossalmente, è sempre stato problematico per i partiti della sinistra. Tramontata l’epoca delle Internazionali – organi disfunzionali o con molti bassi e pochi alti le prime due e le molte Quarte Internazionali, poco più che l’ombra geopolitica del pugno di ferro di Mosca la Terza – la sinistra non solo non è riuscita a costruire reti internazionali durevoli, ma non è nemmeno riuscita a darsi una progettualità comune di minima a livello europeo (inteso come UE). Il tentativo più ambizioso degli ultimi anni, la fondazione del Partito della Sinistra Europea, è fallito nel non riuscire a forzare una rottura ideologica tra – e all’interno dei – partiti continentali come presupposto di una ricomposizione dotata di una qualche compattezza, mancando così un obiettivo nobile e fondamentale. L’azzoppamento della prospettiva del Partito della Sinistra Europea ha conseguentemente condannato la sinistra radicale ad una irrilevanza in sede europea da cui ad oggi fatica a risollevarsi. Il centrodestra, forte del sostegno di reti di interessi che si sono sempre immaginati come internazionali, ha messo il cappello su qualunque processo uscisse dall’angusto ambito dello Stato-nazione senza alcuna vera concorrenza, occasionalmente trascinandosi dietro utili idioti a sinistra del centro.
Non sorprende quindi l’incapacità – con qualche lodevolissima eccezione personale – del mondo progressista di portare una solidarietà concreta alla causa curda. Le raccolte di fondi e le iniziative si fanno e raccolgono un buon successo, così come le manifestazioni di solidarietà, ma di concreto sul campo resta molto poco. Manca uno scambio di materiale umano e saperi di una qualche consistenza tra Rojava ed Europa, certamente reso difficoltoso dall’infernale stato di conflitto dell’area.
Sullo sfondo, la scomparsa di un vero movimento pacifista radicale nel nostro Paese, in cui il tema della pace è ormai relegato all’apprezzamento astratto e “pacificato” da amministrazione comunale o alle rituali scampagnate clericali tra i colli dell’Umbria. Di riflesso, il proliferare a sinistra di una sorta di campismo kissingeriano a ruoli inversi, che aborrisce ciò che è identificato come “Occidentale” e idolatra l’imperialismo russo o cinese: patologia da irrilevanza e cattive letture.
Rimane obbligatorio fare tutto ciò che si può per difendere la Siria del Nord ed il confederalismo democratico curdo, il dramma è che tutto ciò si debba declinare più come imperativo etico che come necessità politica.
L’operazione Ramoscello d’ulivo lanciata dalla Turchia lo scorso 20 gennaio punta a creare una zona cuscinetto al di fuori dei confini turchi, nel nord della Siria.
Erdogan ha annunciato di voler utilizzare la zona come vera e propria arma di ricatto, chiarendo come non sarà riconsegnata alla Siria finché rimarrà in carica Bashar al Assad. È significativo che l’operazione sia stata portata a termine dall’Esercito Siriano Libero, anziché dai turchi che hanno portato a termine per lo più operazioni di facciata per appropriarsi dell’immagine della sconfitta curda.
Ciò rivela comunque il livello di intromissione di un attore locale di peso come la Turchia in un conflitto interminabile che rischia da un momento all’altro di estendersi. Una simile intromissione equivale, se non supera addirittura, il celebre episodio dell’abbattimento del Su-24 nel novembre 2015.
Tutto questo mentre le potenze mondiali coinvolte nel gorgo siriano mantengono posizioni profondamente divergenti: gli Usa e le potenze occidentali hanno tacitamente acconsentito all’invasione del cantone di Afrin, Russia ed Iran sono invece su posizioni diverse che prevedono la strenua difesa della Repubblica Araba Siriana.
La mossa di Erdogan rischia di rivelarsi come un nuovo e pesante elemento di rottura verso la Russia che sta reggendo alle provocazioni, ma che senz’altro saprà reagire.
La politica internazionale mi ha sempre interessato. Ricordo di aver iniziato a sfogliare Limes già al primo ciclo di scuola secondaria e di aver dedicato la tesina di terza media alla questione palestinese.
La dimensione dei rapporti tra entità politiche misura necessariamente la capacità di agire nella realtà.
Non esistono cause perse fino a che le battaglie vengono combattute. Alla complessa rimozione della categoria del potere tra le sinistre europee del XXI secolo credo si possa ascrivere la sostanziale impotenza di numerose organizzazioni politiche e sociali.
Stancamente si ripetono le polemiche sulla scarsa visibilità data a determinate questioni. La bella immagine di ZeroCalcare raffigura efficacemente la rimozione della caduta di Afrin dalle prime pagine di Repubblica e Corriere della Sera di questo lunedì 19 marzo. Non si risolve però quasi niente con la creazione di una bolla social (magari su Twitter o su Facebook) in cui ci si incita a vicenda all’indignazione.
Si chiede visibilità nei telegiornali nazionali d’Europa per fare pressione sui parlamenti e sui governi. Torna il ruolo delle istituzioni e la loro legittimità nell’agire del contesto internazionale. I movimenti contro la guerra riuscirono ad arginare la barbarie alimentata, dopo l’11 settembre, da Bush jr.? Come si misura l’efficacia di chi si organizza nella società?
Manifestare è fondamentale e anche chi scrive non manca mai di impegnarsi in prima persona nelle pratiche possibili.
Però è tempo di interrogarsi anche su quella sensazione di impotenza diffusa che ci lascia in troppo pochi nelle strade e nelle piazze. Nemmeno Vittorio Arrigoni è riuscito a tenere in piedi una rete più forte di quelle esistenti a sostegno della causa palestinese. L’indignazione ha un tempo di esaurimento abbastanza stretto. La quotidianità reclama rapidamente le vite di ogni persona. La dimensione dell’organizzazione politica e l’importanza della rappresentanza istituzionale si palesano nella loro importanza, di fronte alla caduta di Afrin.
Altrimenti ritorniamo nelle nostre bolle, dove i WuMing finiscono per essere attaccati come atlantisti per aver osato pubblicare una vignetta in cui Putin tiene in mano Erdogan.
Certo, spesso a sinistra cadiamo nelle semplificazioni simboliche. Scambiare il Cremlino del 2018 per quello del 1919 è però poco utile…
In politica internazionale non ci si schiera con una parte o con l’altra, se si vuole agire. Si cerca di orientare i propri organismi di rappresentanza (a partire magari dagli enti locali). Questo è quello che chiedono i “martiri” di cui in molti condividiamo le storie sui nostri canali web.
Il prevalere delle forze governative nella complicata guerra siriana ha evitato, eviterà, al Paese il destino dello smembramento sul modello jugoslavo, magari con alcune aree sotto il controllo di formazioni universalmente riconosciute come terroristiche.
Nel film «I due orfanelli» (1947) Totò, generale di una picaresca battaglia, dopo aver confermato al proprio attendente di poter annunciare con la tromba la fine della guerra, gli comanda: «Suona pure l’inizio del dopoguerra».
Il dopoguerra siriano si preannuncia tutt’altro che semplice ed anzi pieno di incognite per un Paese che, partendo da alti livelli di sviluppo, da sette anni sopporta onerosissimi costi umani (i morti sono il 3% della popolazione, gli sfollati il 45%).
La questione curda è senza dubbio uno dei maggiori punti del contendere. Privi di un proprio Stato, i curdi abitano un territorio transnazionale connotato da consistenti giacimenti petroliferi, a cui appare davvero difficile che gli attori locali possano rinunciare in nome, se non dell’autodeterminazione nazionale, almeno del contributo dato dalle forze curde alla guerra contro i terroristi.
Oggi il regime di Erdoğan, imponendo l’occupazione turca sui territori del Rojava, coglie tre piccioni con una fava: rafforza il proprio consenso interno, ottenendo l’approvazione anche delle opposizioni di estrema destra e kemaliste, entrambe nazionaliste; elimina un importante retroterra per il movimento politico curdo in Turchia; si impadronisce del territorio siriano così da tenere ancora un pugnale nel fianco del governo laico-socialista di Assad dopo aver inutilmente cercato di spodestarlo. Ciliegina sulla torta, il lavoro sporco viene fatto dal cosiddetto Esercito Libero Siriano, i famosissimi «ribelli moderati» tanto cari agli Stati Uniti – e più dei curdi, a quanto pare.
Il vero perdente di questa operazione sembra, più che la martoriata Siria che ancora resiste e combatte, il gigante russo. Riavvicinatasi alla Turchia dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, la Russia ha nel governo di Ankara, membro chiave della Nato, un partner essenziale per non rischiare l’accerchiamento anche in Medio Oriente. Al momento Putin ha scelto di garantire l’avanzata dell’ELS nello spazio aereo russo. Resta da vedere quanto le capacità di mediazione di Mosca potranno contenere l’antagonismo turco-siriano.
Nello scenario siriano avere un alleato forte è fondamentale.
Assad ha la Russia, i curdi gli Stati Uniti. Ma la Turchia ha di fatto sia la Russia che gli Stati Uniti.
Le due grandi potenze in questione sarebbero le uniche in grado di spaventare la Turchia e costringerla a tornare sui suoi passi, ma se Mosca si è riappacificata da poco con Ankara e non è intenzionata a rischiare una nuova escalation (soprattutto in un contesto di crescente tensione con l’Occidente), neanche gli Stati Uniti sembrano avere intenzione di scontentare troppo i turchi, fondamentali alleati NATO e secondo esercito dell’Alleanza Atlantica per numero di mezzi e truppe.
Così, il loro supporto ai Curdi, resta solo formale, lasciando aperta la strada all’offensiva del macellaio Erdogan che non aspettava altro che un’esitazione della comunità internazionale per procedere all’annichilimento del progetto autonomista del Rojava e stroncare così nuovamente i sogni di un Kurdistan indipendente.
Sembrerebbe che i curdi siano di nuovo sacrificabili sull’altare della realpolitik un po’ per tutti.
Le possibilità di salvare Afrin si restringono di ora in ora e già si pensa al dopo, ovvero se Ankara avrà il coraggio di proseguire l’avanzata anche su Mambij come ha già da tempo annunciato, dove è presente una base militare americana che ospita circa 2000 marines col compito di addestrare le milizie curde.
Ancora una volta lo scacchiere siriano dimostra tutta la sua mutevole complessità.
Immagine di copertina liberamente ripresa dalla pagina Facebook di (Z)ZeroCalcare – sotto la riportiamo per intero
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.