I tempi in cui viviamo, almeno in occidente, sono caratterizzati da una forte perdita di senso: alle grandi narrazioni si sono sostituite le comunicazioni frammentate sui social, con un consumo delle storie che toglie spazio alla complessità.
Secondo Donatella Di Cesare (Il complotto del potere, Einaudi, 2021) la ricerca di trame nascoste è una scorciatoia che risponde a un’esigenza diffusa, condivisa: stigmatizzare il dubbio non aiuta a comprendere le ragioni di fondo di chi scorge macchinazioni tra le “verità ufficiali”. Il complotto è un «problema politico. Non riguarda tanto la verità, quanto il potere», scrive l’autrice. Comprendere questo non vuol dire mostrarsi disponibili ad accettare teorie cospirazioniste, piuttosto può portare a leggere alcuni fenomeni come parte di un processo opposto alla democrazia. Il complotto come maschera di potere.
Incertezze, opacità (mancanza di trasparenza), luoghi della rappresentanza simili a vuoti simulacri, angoscia per un futuro associato a prospettive catastrofiche (ambientali, sanitarie, sociali), assenza di strumenti interpretativi del presente (come un Teseo privato del filo donato da Arianna): tutto concorre a svuotare la storia di ogni possibile significato.
Il complotto è una cosa diversa dalla congiura (fondata sul giuramento) e dalla cospirazione (basata su un “afflato comune”, da cui può scaturire una rivolta): si tratta di un «groviglio oscuro», indistinto, da cui «indovinare a stento la filigrana di una trama». Impossibile da definire, deve essere letto nella concretezza del suo sviluppo sui territori: diventa un dispositivo per chi è interessato al mantenimento dello stato di cose presenti, una risposta a un’esigenza umana arcaica, per cui si preferisce una spiegazione semplice ed immediata rispetto all’effettivo funzionamento dell’ordinamento (istituzionale, economico e di ogni altro genere). La casualità è bandita dalla quotidianità e lo spazio pubblico in cui il popolo dovrebbe esercitare la sua sovranità viene abbandonato, rinunciando ad attuare una pratica del governo dove si tiene aperta la dimensione della relazionalità e l’identità della società. Il rapporto con l’alterità e il perturbante fanno parte di qualsiasi teoria del complotto, che risponde a pulsioni associate al sentimento della paura, rifiutando l’esistenza di zone d’ombra nelle nostre vite.
Il mito serve alle persone, per definire griglie interpretative usate ogni giorno: il richiamo di Di Cesare allo sciopero generale e al significato di questa pratica è facile da individuare nella mobilitazione della GKN. Il significato attribuito dal Collettivo di Fabbrica a una simile mobilitazione ha le sue radici nella tradizione del movimento operaio, in un terreno che si fa però più arido per l’immaginario delle società atomizzate del XXI secolo. Sempre questa esperienza torna alla memoria in una pagina utile a riflettere sul ruolo di questa vertenza. «Non vale la pena, dunque, occupare la fabbrica per difendere i salari, perché responsabile non è il capitale produttivo, ma quello predatorio della finanza»: è una posizione presa da tempo da chi ci governa, non una falsa notizia scritta su qualche blog sensazionalistico.
Siamo di fronte a un’apparenza narrativa, da cui scaturisce una «gravità mortifera» da cui la vita democratica finisce per essere minacciata. Si tratta di «un diversivo che impedisce la realtà», scavalcando il confine della coscienza di una condizione di sfruttamento e rinchiudendosi nell’inevitabilità di essere vittime di un potere inarrivabile: la domanda si fa risposta, non spinge a trovare soluzioni. Rileggendo le pagine che l’autrice ha dedicato alla rivolta, si potrebbe azzardare a dire che il complotto neutralizza il momento della ribellione e di espressione della rabbia. La richiesta di riconoscimento perde di significato fuori dall’immediatezza del singolo momento, di fronte a una verità già nota e immutabile.
Il risentimento e la disillusione portano ad abdicare ogni pretesa di giustizia. Quando Monicelli parlava della speranza come di “una trappola inventata dai padroni”, faceva riferimento alle promesse generiche di chi chiede passività e accettazione. Il complotto passa dal rifiuto della speranza ma porta allo stesso esito.
L’attuale governo italiano attesta l’autocancellazione della politica e arriva a seguito di esecutivi in cui la “tecnica” e i “contratti” hanno sostituito quanto nato all’ombra della Costituzione repubblicana: a questo processo è funzionale ogni lettura che disconosca la complessità e individui il potere in un luogo inarrivabile.
La fine del tempo non è più proiettata nel futuro, anche imminente, ma è vissuta nel presente, vanificando ogni prospettiva capace di dare forza ai conflitti. Prendendo esplicitamente le distanze da Umberto Eco, Di Cesare sostiene la necessità di abbandonare le “maniere” dell’anticomplottismo e riacquistare un rapporto con il bisogno di assoluto che appartiene a ogni persona: ricostruire comunità interpretative del reale vuol dire far fronte alla disgregazione politica in cui siamo immerse e immersi.
Costruire una misura del sospetto, con cui rifiutare la neutralità della verità ed evitare l’assolutizzazione del dubbio (come affermazione di una verità altra, altrettanto assoluta), è una processualità da rinnovare costantemente: occorre praticare il sospetto senza reificarlo, scrive esplicitamente l’autrice.
Comprendere non è sinonimo di giustificare. Definisce bensì un modo per evitare di giudicare e commentare la realtà, aprendo la strada alla possibilità di agire per cambiarla.
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Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.