Sul reddito di cittadinanza (dopo le elezioni)
La vittoria del M5S al Sud ha fatto grande scalpore, essendo riuscito a sbaragliare tutte le alternative.
La maggioranza dei commentatori ha attribuito la capacità di attirare consensi alla promessa di un reddito di cittadinanza. Questa promessa in un territorio dalla disoccupazione altissima e in cui si è tornati all’emigrazione di massa, secondo molti, è risultata determinante per la vittoria.
In realtà ci sono anche altri fattori come lo scarsissimo radicamento della Lega, che al Nord è riuscita a riciclarsi come alternativa politica pur avendo governato per anni.
Inoltre, il voto ad un partito non viene mai dato unicamente sulla base di un tema, anche se particolarmente gradito. Si tratta di una semplificazione che pare distorcere le reali motivazioni del voto.
Non capire le ragioni di un voto di massa di queste proporzioni dato dalla parte più povera e abbandonata dallo Stato rischia di tagliare fuori definitivamente le sparute forze comuniste dalla capacità di fare politica.
Invece di trincerarsi dietro a solide certezze, coltivando i luoghi comuni, occorrerebbe seminare dubbi e sforzarsi di capire cosa ha realmente mosso le masse meridionali a votare una forza politica che non ha mai governato il Paese.
Cosa ha spinto il Sud a dare tanta fiducia al M5S? L’assenza dello Stato e le ripetute chiamate di Di Maio a una Terza Repubblica hanno spinto il Sud ad avviare un processo non ancora maturo al Nord, oppure come pensano i troppi che credono di aver capito tutto è stato solo opportunismo?
Prima di tutto, quando si parla di “reddito di cittadinanza” (nel gergo tecnico “universal basic income”, UBI), bisogna ribadire che la proposta del M5S allo stato attuale paradossalmente NON è un reddito di cittadinanza, di cui in sostanza usurpa il nome, ma poco più che un sussidio di disoccupazione-inoccupazione “plus”. La proposta grillina infatti prevede che il sussidio sia condizionale alla ricerca di lavoro e che si perda rifiutando la terza proposta di lavoro o trovando autonomamente un impiego; il “reddito di cittadinanza” filtrato dalla macchina partitica del Movimento 5 Stelle perde quindi del tutto il suo carattere universalistico, e finisce per unire i peggiori difetti del vecchio welfare (la logica della presa in carico del soggetto da parte dello Stato, la tumefazione burocratica, la disciplinazione lavoristica) e i peggiori difetti degli UBI (le incertezze in quanto a bontà dell’investimento legate all’elargizione di una lump sum monetaria, lo sdoganamento della naturalezza della sottoccupazione).
Gli UBI veri e propri hanno in difetto di generare passioni e polarizzazioni scarsamente giustificabili. Andrebbero invece analizzati spassionatamente, nella loro storia e nei loro possibili effetti. Da scettico ma possibilista, non ho qui lo spazio per perdermi in una disamina delle forme di sostegno monetario universale teorizzare e sperimentate; mi limiterò quindi a qualche osservazione non esaustiva in ordine sparso.
Forme di reddito di cittadinanza vengono spesso evocate come soluzione alla presunta carenza strutturale di posti di lavoro che l’automazione sarebbe destinata a creare. Una posizione che sicuramente ha il merito di pensare ad un futuro in cui il lavoro umano in quello che una volta si chiamava settore secondario, e che ad oggi assorbe a livello mondiale una quantità di forza lavoro che nessun altro settore può assorbire, cesserà di essere fondamentale, eliminando una lunga lista di posizioni lavorative inerentemente pericolose, malsane, abbruttenti. Soffre però del gravissimo difetto, comune a moltissimi ragionamenti contemporanei, di considerare i posti di lavoro come una sorta di risorsa naturale scarsa, una posizione che riporta l’economia indietro di decenni, a prima di Keynes. La piena occupazione si può raggiungere a prescindere dall’assetto tecnologico della società, con le giuste politiche di investimento pubblico.
Un secondo elemento di perplessità spesso negletto riguarda la delimitazione degli aventi diritto. Nell’Occidente odierno, infatti, in cui (fortunatamente) l’eguaglianza tra abitante di un territorio e cittadino del rispettivo Stato-nazione e le nozioni stesse di cittadinanza e di Stato-nazione vengono messe in crisi e necessitano di una revisione progressiva, una misura come il reddito di cittadinanza rischia secondo me da un lato di generare un’ampia platea di esclusi privati di qualunque sostegno pubblico, e d’altro canto di esasperare le attitudini riguardo alla naturalizzazione degli immigrati.
Ci sarebbero ulteriori linee di ricerca critiche da seguire per immaginare l’impatto di un vero UBI, come ad esempio i presumibili effetti di cattura e sottomissione del “sociale” e dell’individuo-donatario da parte dello Stato-donatore; o ancora l’impatto di una elargizione monetaria a titolo individuale in quella che Galbraith chiamava “società opulenta”, in cui il consumo privato domina l’orizzonte mentale a scapito del benessere collettivo; ma ognuna di queste richiederebbe studi specifici che ovviamente non è possibile creare dal nulla.
Basti dire che, come qualunque misura che si confronti con il campo del socioeconomico, che è in gran parte indipendente dalla volizione umana, il reddito di cittadinanza unisce sicuramente molti pregi (di cui non ho parlato in quanto è facilmente reperibile una quantità di materiale divulgativo, anche su Internet) a risvolti inquietanti, che andrebbero indagati razionalmente e non usati come bandierine da campagna elettorale.
In questa settimana post-elettorale l’ironia, questa sì abbastanza razzista, sul Sud assistenzialista e scansafatiche si è sprecata.
Il presunto voto di scambio dato al M5S per ottenere il Reddito di Cittadinanza è in realtà lo specchio di un Paese poco serio che non fa i conti con le sue ataviche debolezze.
Il Sud è sempre stato, anche negli anni del boom economico, un territorio in difficoltà in cui la crescita economica non è mai diventata sviluppo economico a causa di un disinteresse totale negli investimenti sul territorio e delle speculazioni che hanno lasciato totalmente allo sbando diverse aree.
I dati sociali sono disastrosi da sempre, ma non è mia intenzione ripercorrere la storia d’Italia in queste poche righe. Ciò che più mi preme è evidenziare come nell’età storica in cui la robotica e la meccatronica hanno portato al più alto tasso di disoccupazione tecnologica, sia necessario un paracadute sociale per tutti quelli che si ritrovano ad aver dedicato una vita a un lavoro spazzato via dalla velocità dell’innovazione. La «sussunzione del lavoro al capitale» è diventato un processo sempre più veloce a causa dell’avanzamento del progresso. La possibilità di produrre sempre più merci con sempre meno operai, non significa aver incrementato l’occupazione con altre mansioni.
La contraddizione capitalistica che Henry Ford aveva risolto con la produzione di merci che potevano essere acquistate dall’operaio che le produceva oggi è esplosa con la produzione di merci senza la forza lavoro umana. Le merci vanno comunque vendute su un mercato fatto di esseri umani, infatti un robot saldatore non comprerà una lavatrice.
A chi venderemo le lavatrici una volta massimizzati i profitti se avremo esseri umani senza reddito?
Difficile credere a una diffusione del lavoro immateriale tale da poter ottenere lo stesso volume di occupazione degli anni passati.
Forse solo qualche ingenuo liberista e Toni Negri e compari possono credere a fandonie simili, in ogni caso persino Toni Negri sa che la precarietà del lavoratore immateriale non gli consentirà di avere un reddito dignitoso.
Ecco perché ritengo sia necessario sviluppare nuove politiche sociali, soprattutto oggi che dopo i vari governi tecnici sono state totalmente smantellate le vecchie.
Piena occupazione o reddito di cittadinanza?
Il dibattito lacera le sinistre, spostando spesso sul piano dei principi la natura pratica di un provvedimento di governo.
Certo i movimenti di classe che si pongono il superamento dello stato di cose presenti, laddove vogliano influire sulla realtà, devono avere la capacità di sapersi opporre a provvedimenti iniqui, favorendo determinate battaglie. Lo statuto dei lavoratori non fu una “conquista” del PCI in senso stretto, ma oggi ritorna come simbolo della migliore lotta del secondo dopoguerra italiano (o di una delle migliori lotte).
Il diritto ad avere un reddito lascia perplessa una minoranza di persone, a cui credo di potermi ascrivere, perché rafforza quel piano dell’elaborazione secondo il quale ognuno deve essere capace di cavarsela per proprio conto, mettendosi a disposizione del mercato del lavoro (nell’immaginario comune la polemica più aspra è tra chi teme un esercito di fannulloni stipendiati dello stato – gli stessi a cui i migranti ruberebbero il lavoro – e chi ci desidera vincolati a una radicale riforma dei discreditati centri per l’impiego).
Manca una discussione sui nuovi lavori, laddove sarebbe possibile immaginarsi nuove figure professionali dedicate alla relazionalità tra esseri umani, alla cura del territorio (sia esso urbano o non) e a nuove frontiere da conquistare per la persona, sempre più sfruttata o isolata, come nei più inquietanti esperimenti distopici.
Non convince chi si oppone al reddito di cittadinanza con approcci troppo astratti e sulla piena occupazione sono troppo poche le menti impegnate ad elaborare (fa eccezione Giovanni Mazzetti, si veda qui).
Certo è che l’atteggiamento di derisione per le fantomatiche code al CAF è profondamente ipocrita. Lo dice una persona che lavora anche all’assistenza fiscale e che ha potuto scoprire come anche nei cuori più rivoluzionari possa albergare la speranza di un’agevolazione…
Il paese reale siamo noi, quando dismettiamo i panni degli opinionisti e ci ritroviamo sfortunatamente nelle condizioni di cui parliamo (anche se solitamente giornalisti e aspiranti politici si concentrano su ciò che non li riguarda negli articoli e nei dibattiti).
Nella Costituzione italiana scarsissimi sono gli appigli a tutela del reddito in quanto tale. Al massimo, l’articolo 31 parla di misure economiche a sostegno della formazione e del mantenimento della famiglia. Vi sono invece tre articoli molto chiari riguardo il lavoro e le retribuzioni.
Articolo 1, comma 1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Articolo 36, comma 1: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Articolo 38, comma 1: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
La Costituzione identifica quindi il lavoro non soltanto come il fondamento di ogni rapporto sociale, economico, politico (lo stesso articolo 3 parla di partecipazione dei lavoratori, e non dei cittadini, all’organizzazione del Paese), ma anche come l’unico orizzonte entro cui maturare il proprio auto-mantenimento. Da tale orizzonte restano esclusi solo gli inabili e quanti si trovano attualmente sprovvisti di mezzi. Da notare che, seguendo il dettato costituzionale, un abile al lavoro non dovrebbe essere sprovvisto di mezzi vito che l’articolo 36 riconosce una retribuzione dignitosa.
È evidente che il solo modo per far collimare abilità al lavoro e possesso dei mezzi – così come, in generale, per rendere concrete le fondamenta sociali della Repubblica – è il raggiungimento della piena occupazione.
Per cogliere questo obiettivo Renzi aveva lanciato, a febbraio 2017, la proposta del lavoro di cittadinanza: un modo, tra l’altro, per spostare a sinistra la Costituzione materiale una volta fallita tale operazione nella Costituzione formale. Questa idea si è poi arenata nell’assunzione, da parte dell’esecutivo Gentiloni, di un modus operandi che nel binomio “antagonista e riformatore” tendeva a depotenziare il primo corno. Esecutivo che ha comunque varato il Reddito di inclusione (REI) come misura di contrasto alla povertà, a carattere universale dal 1° luglio 2018 (sic!).
Alcuni benpensanti di sinistra hanno detto che le ironie sui cittadini messisi in coda ai CAF dal 5 marzo per chiedere lumi sul reddito di cittadinanza sono crudelmente classiste in quanto insistono su situazioni di indigenza.
Non è, evidentemente, così: i cittadini indigenti si sono certamente già attivati per verificare le condizioni di spettanza del REI.
Viste le percentuali raccolte dal M5S nelle zone di camorra e di mafia (Casal di Principe 53%, Scampia 65%, Secondigliano 61%, Corleone 57%, Castelvetrano 56%) è più facile supporre che il 4 marzo sia stato raccolto il richiamo di una nuova prebenda per i “protetti” dalla criminalità organizzata.
«I bidelli sono tutti della camorra e non vogliono far niente», scriveva circa trent’anni fa uno dei bambini di Io speriamo che me la cavo. Se il reddito di cittadinanza diventerà realtà, potranno smettere di fare i bidelli.
Il reddito di cittadinanza suscita grandi dibattiti a sinistra.
Non solo favorevoli o contrari, ma anche una nutrita schiera di opinioni intermedie e sfumate dovute anche al fatto che esso si presenta in modalità e forme differenti a seconda del contesto.
Neppure chi scrive ha un’opinione netta a riguardo: ogni proposta sul reddito di cittadinanza andrebbe valutata nel merito ed è dunque abbastanza difficile esprimersi sulla promessa elettorale del Movimento 5 Stelle prima che l’iniziativa diventi concretamente un disegno di legge (se mai ciò avverrà).
Detto questo, credo che ogni discussione sul reddito di cittadinanza debba quantomeno tenere presente che esso viene evocato in maniera inequivocabile innanzitutto in contesti non esattamente legati al mondo della sinistra: gli economisti neoliberisti e ordoliberisti già nel dopoguerra ipotizzavano il reddito di cittadinanza. Il motivo è semplice: per creare una società in cui l’individuo si comporta come un impresa individuale che massimizza il calcolo costi/benefici nella realtà/mercato, per fare in modo che tutti possano partecipare al gioco della concorrenza, c’è bisogno che nessuno venga completamente espulso dalle logiche di mercato (starne ai margini va bene ma esserne estromessi sarebbe disfunzionale per l’ordine economico).
Il reddito di cittadinanza così immaginato, serve a proporre un modello di welfare perfettamente compatibile e funzionale alla società neoliberista: con la privatizzazione di ogni servizio pubblico come la sanità o l’istruzione per incrementarne l’efficienza, i soggetti più deboli, in questo modello ideale, verrebbero sostenuti dallo stato solo con l’elargizione periodica di una somma in denaro, in modo che possano permettersi di ritornare sul mercato e tornare a chiedersi come allocare le proprie risorse (scarse): affittare un appartamento meno miserabile o comprare un assicurazione sanitaria? Investire sull’istruzione dei figli o comprare una macchina? Ecco come l’individuo/impresa torna su un mercato le cui logiche hanno ormai parassitato quasi ogni aspetto dell’esistenza.
Credo che la situazione attuale, che vede lo smantellamento del Welfare tradizionale in favore di un crescente interesse per il reddito di cittadinanza, vada proprio in questa direzione, molto pericolosa, di un modello assistenziale che invece che andare a colpire realmente le disuguaglianze permette solo all’individuo di poter stare a galla nella spietata lotta concorrenziale del mercato. Così ogni concezione di bene comune viene annichilita in favore di una visione di ogni aspetto dell’esistenza come valutabile secondo un calcolo costi/benefici.
Solo un reddito di cittadinanza che si accompagna a una riqualificazione dei beni e dei servizi pubblici può essere considerata una proposta accettabile.
Ma non possiamo accettare l’idea di un welfare ridotto alla pura elargizione monetaria: oltre a essere una grave sconfitta culturale, rappresenterebbe anche l’ennesimo passo indietro in termini di giustizia sociale (che è ben diversa dalla mera assenza di povertà assoluta).
Credo che ancora oggi la chiave di un Welfare migliore risieda nel lavoro. Per far fronte alla perdita di posti di lavoro dovuti alle trasformazioni del modello produttivo (automazione, economia digitale, ecc.) si fa sempre più necessario diminuire l’orario di lavoro a parità di salario, ridurre l’età pensionabile e rimettere al centro lo Stato come elargitore di servizi di qualità, che richiedono, nella sanità, nell’istruzione, nell’amministrazione, nel trasporto pubblico, certo una migliore gestione delle risorse, ma anche più personale.
Perché se servono mesi di attesa per una visita all’ospedale o anni per chiudere un processo il problema non può non riguardare anche la mancanza di personale.
Un reddito di cittadinanza nel mondo privatistico che molti liberisti vorrebbero non basterebbe nemmeno a comprare un assicurazione sanitaria e un’istruzione decente, servizi che finora sono accessibili virtualmente a tutti.
Il reddito di cittadinanza ha dunque senso solo se esiste un lavoro e dei servizi pubblici universali e di qualità.
Immagine di copertina liberamente ripresa da c.pxhere.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.