La causa che più di ogni altra ha tolto potere ai lavoratori e alle loro organizzazioni, direttamente ai sindacati e indirettamente alle formazioni politiche che dichiarano quanto meno di essere dalla loro parte, è stata la precarizzazione del lavoro. È un lungo processo che, iniziato nella seconda metà degli anni ‘70 con il decentramento e la delocalizzazione, si è accelerato e aggravato non appena è entrato nel campo d’azione delle forze politiche e delle decisioni dei governi, si è protratto senza soluzione di continuità fino ad oggi e non ha, questa la sua più tremenda caratteristica, un punto annunciato di arresto. Nella sua avanzata ha prima indebolito la forza contrattuale dei lavoratori nei luoghi di lavoro e nella dimensione nazionale di categoria, ha conseguentemente fatto venir meno il potere politico delle confederazioni sindacali e, in ultimo, ha compromesso il senso di identità collettiva del mondo del lavoro. Non a caso nessuna forza politica di una qualche consistenza assume oggi i problemi del lavoro, nella loro varia configurazione, come una questione di particolare rilievo e quando li affronta lo fa, nel migliore dei casi, prendendoli sul versante generico dell’equità e dei diritti sociali. La dimensione del fenomeno è così ampia da rendere di fatto quasi del tutto ininfluente ad ogni livello il sindacato quale soggetto autonomo di rappresentanza, non solo perché il numero dei precari riconoscibili come tali è divenuto esorbitante, ma perché l’essere precario è oramai la condizione generalizzata del lavoro. La soppressione dell’articolo 18 e la minaccia permanente di licenziamento ha infatti squilibrato in maniera risolutiva un duplice rapporto, quello fra singolo lavoratore e datore di lavoro da un lato e quello fra lavoratori e impresa dall’altro, già strutturalmente impari.
Se non si parte da questa constatazione non ha molto senso parlare di cambiamento sociale, di emergenza ambientale, di diritti eguali, e così via. Perché nessuno di questi obiettivi, per non dire dell’emancipazione del lavoro, può essere minimamente avvicinato senza che il mondo del lavoro ne sia tra i protagonisti. Per la stessa ragione non ha senso immaginare una nuova o rinnovata formazione politica che si proponga quegli stessi obiettivi senza aver scelto come assoluta priorità quella della lotta senza quartiere alla precarizzazione del lavoro e senza aver individuato un percorso credibile per portarla al successo. E se è vero che si sono affacciati nuovi e forse più sconvolgenti cambiamenti prodotti dall’uso spregiudicato che le grandi multinazionali fanno dell’innovazione tecnologica e dei suoi strumenti, se non si rovescia qui e ora la condizione del lavoro non ci sarà domani alcuna possibilità di far fronte ad una offensiva padronale ancora più radicale.
Ciò che è palesemente evidente sul piano del potere sindacale non lo è di meno sul piano politico. Il decadimento che la politica ha subito negli ultimi decenni e che attraversa tutte le formazioni politiche, in forme neppure troppo dissimili, non è dovuto alla sconfitta del movimento operaio iniziata con la ristrutturazione capitalistica della seconda parte degli anni’70. Questo potrebbe spiegare, non certo giustificare, lo smarrimento della sinistra, ma non spiegherebbe perché un uguale degrado ha investito il fronte dei vincitori. Da lungo tempo non si confrontano più progetti di società e programmi politici credibilmente alternativi, la politica è ridotta al quotidiano, al carpire e assecondare gli umori considerati più utili alla propria causa, con la caduta inevitabile in ogni sorta di opportunismo e di trasformismo e con le comparsate televisive che hanno preso il posto della battaglia delle idee. Fino all’incredibile paradosso che il liberismo ha vinto professando il dio mercato ma, come si è visto dopo la crisi del 2008 e quella della pandemia, viene tenuto in vita dagli Stati e dalla mano pubblica in gran parte con i soldi dei lavoratori che di quel mercato sono già stati le vittime sacrificali. Il disastro che abbiamo oggi sotto gli occhi, proprio quello che induce gli individui a preoccuparsi esclusivamente di sé fino al punto di vedere nell’altro un potenziale nemico, è solo l’inevitabile conseguenza dell’uscita dalla scena sociale e politica di uno dei due antagonisti fondamentali, il movimento dei lavoratori. E questa uscita di scena è riconducibile anche ad errori e ritardi dei gruppi dirigenti, ma ha nella frammentazione e nella precarizzazione del lavoro la sua causa più profonda e decisiva.
O sindacato e sinistra ripartono da qui in piena consapevolezza, o continueranno a destreggiarsi in vani tentativi di evitare il peggio, senza rendersi conto che la direzione che le cose hanno preso ha una tale forza da irridere i giochi di prestigio di chiunque non dimostri di voler organizzare una forza contraria almeno altrettanto potente. Sul fatto che il tempo a disposizione sia sempre più breve non vi dovrebbero essere dubbi. Le cosiddette riforme di struttura che l’UE ha già iniziato a chiedere all’Italia e sulle quali non ha intenzione di fare sconti sono quelle che conosciamo bene: nel mirino sono, come sempre, il lavoro e il welfare.
Se si conviene con l’assoluta priorità di questa esigenza, la questione su cui interrogarci è cosa fare e come provare a farlo. Al sindacato spetta il compito più importante. Il cosa fare e il come farlo sono inseparabili, nel senso che un obiettivo così alto e di per sé dirimente può essere proposto solo se la costruzione della piattaforma che lo deve sostanziare ed il suo perseguimento avvengono dentro un grande processo partecipativo ed una straordinaria mobilitazione. Il primo passo è convincere i lavoratori che non si può andare avanti così, che non si può più continuare a tamponare gli effetti di questo lungo arretramento, che il futuro che le classi dominanti prospettano al mondo del lavoro è ancora più buio, che è arrivato il momento di provare a invertire la rotta. Per riuscirci occorre aprire un dibattito di massa, come si usava fare negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, in condizioni enormemente più difficili perché non ci sono più le grandi fabbriche, perché è venuto meno il senso di comunità che univa i lavoratori, perché la parcellizzazione ha aperto le porte all’individualismo fino a farne una chiave interpretativa dello stesso mondo del lavoro. Ma chiamare tutti a raccolta e dire a tutti le stesse parole, anche quando la moltitudine arriva a piccoli gruppi e da strade diverse, è ancora possibile. Si dovrà avere il coraggio dell’autocritica e l’umiltà di accettare le dure reprimende dei lavoratori, ma si potranno superare la sfiducia e i dubbi che il passato ha seminato se la scommessa sul futuro sarà persuasiva.
Perché lo possa essere non bastano i buoni propositi, soprattutto quando si viene da stagioni poco felici. Occorre individuare ed indicare obiettivi che parlino a tutti e a ciascuno, alla collettività dei lavoratori e al singolo lavoratore, non tanto nella sua individualità ma riconoscendosi quale membro di quella collettività. E occorre che gli obiettivi siano pochi e chiari, così da evitare che sia la controparte a scegliere cosa dare e cosa negare, come accade inevitabilmente quando si accumulano le richieste. Tanto più perché in questa fase il fine non è il socialismo, ma mettere uno stop ben solido alla discesa verso il precipizio e riprendere una complicatissima ascesa.
Seguendo il filo di queste considerazioni, mi limito ad enumerare tre obiettivi. Il primo è il ripristino e l’estensione dell’Articolo 18. Finché penderà sulla testa di ogni lavoratore la minaccia del licenziamento a discrezione del datore di lavoro, in realtà di un qualunque capetto cui per un qualsiasi motivo non si resta simpatici, non potrà esserci autonomia di comportamento dei lavoratori nei confronti dell’impresa da cui dipendono. In altre parole si sarà, come di fatto si è, in una condizione di semi-servitù. Se la parola può sembrare eccessiva, è bene pensare a quante e quali autolimitazioni il lavoratore deve assoggettarsi nel timore che una sua parola o una sua azione possano far scattare la ritorsione del licenziamento. Il secondo obiettivo è il reddito di cittadinanza. La discussione su questo tema è aperta e favorevoli e contrari hanno messo in campo ben fondati argomenti. Ma se si vuole far uscire i lavoratori e coloro che aspirano a diventarlo dal ricatto della precarietà presentata come condizione necessaria per entrare e per restare nel mondo del lavoro, il reddito di cittadinanza con una adeguata consistenza è una strada senza alternative. Il terzo obiettivo è quello della formazione permanente e generalizzata, non solo per accompagnare i processi di mobilità che dovranno comunque essere contrattati e finalizzati, ma come strumento per mantenere ad un livello elevato la qualificazione professionale dei lavoratori e, più in generale, la loro cultura del lavoro e della sicurezza nel lavoro. Reddito di cittadinanza e formazione interessano l’universo del mondo del lavoro, di quello reale e di quello potenziale. L’articolo 18 riguarda il lavoro dipendente di oggi e del futuro. Pochi obiettivi, ma in grado di raccogliere interessi e aspettative dell’intera comunità del lavoro.
Quanto alla sinistra politica, senza riconoscere la centralità del lavoro e dare ad esso rappresentanza non potrà mai aspirare ad un progetto di trasformazione della società. Per chi abbia ancora in testa questa strana idea, riconoscere la precarizzazione del lavoro ed il suo rovesciamento come priorità assoluta sarebbe un buon inizio.
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Dirigente della CGIL, Segretario Generale della FIOM Toscana, Segretario della CGIL Toscana, Segretario Generale della FP Toscana, Presidente di IRES Toscana.