Secondo molti osservatori ed esperti, la Cina sta imprimendo una svolta a sinistra nella sua politica economica. Il precario equilibrio fra pianificazione e mercato pare iniziare a rompersi in favore di un maggiore controllo statale sull’economia.
La serie crescente di imposizioni e vincoli posti contro le grandi società hi-tech, della logistica e dell’e-commerce sembra indicare una nuova traiettoria negli sviluppi del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Il Partito Comunista ha del resto indicato la strada già all’inizio di quest’anno ponendo il principio della “prosperità comune” come cardine del nuovo piano quinquennale e quindi delle sue scelte di politica economica. Appare ormai evidente che la messa in pratica di questo motto implichi un impegno concreto nel correggere le storture dei meccanismi di mercato e nel ridistribuire più equamente la ricchezza accumulata, molta della quale è concentrata nelle mani di pochi grandi magnati.
Se non si può ovviamente parlare di un ritorno al maoismo tout-court, siamo però anche ormai molto lontani dall’invito ad arricchirsi che Deng Xiaoping promuoveva negli anni Ottanta nell’ambito di un compromesso fra dottrina comunista e apertura al capitalismo internazionale. Si trattava però di una fase storica estremamente diversa, nella quale risultavano essenziali l’attrazione di capitali esteri e la concorrenza di mercato al fine di sviluppare le forze produttive ed acquisire il know-how tecnico scientifico necessario a modernizzare il Paese. Un scelta praticamente obbligata che però nella concezione di Deng doveva essere solo una fase transitoria. Per l’ex Presidente della Repubblica Popolare infatti, se era inevitabile, e in un certo senso auspicabile, che qualcuno si arricchisse prima degli altri, era altrettanto necessario che successivamente queste persone condividessero e dividessero i loro guadagni coi meno fortunati.
Questa idea di una prosperità condivisa è ora al centro della politica di Xi Jinping, in uno sforzo titanico di contenere le forze capitalistiche liberate nei decenni precedenti. Tutto ciò indica una nuova direzione politica che al contempo si situa però all’interno di un coerente progetto di lunghissimo respiro che i successori di Mao avevano già teorizzato e iniziato a mettere in pratica. Progetto all’interno del quale il capitalismo rappresentava una fase necessaria ma non l’obiettivo finale.
Questo nuovo riavvicinamento agli ideali e alle concezioni socialiste è un processo graduale che però ha accelerato vistosamente in corrispondenza di certe congiunture. Già con la crisi finanziaria del 2008, si è verificato un primo, significativo mutamento di prospettiva. Con il crollo del commercio internazionale, la Cina, da Paese unicamente orientato all’export di prodotti a basso valore aggiunto, ha dovuto reinventarsi e lo ha fatto iniziando a puntare sul mercato interno e su una politica di indipendenza tecnologica.
Questo primo scossone, che ha permesso alla Cina di trasformarsi da un Paese che “copia” a uno che innova, è stato possibile grazie a un nuovo interventismo pubblico nell’economia che non ha però fermato il processo di concentrazione di capitale nelle mani di sempre meno imprenditori, con un conseguente aumento delle disuguaglianze sociali, inaspritesi con la pandemia da Covid-19.
Ma è proprio la pandemia a segnare un secondo punto di svolta. Xi Jinping e il Partito Comunista, nonostante gli enormi progressi sociali ed economici della Cina negli ultimi anni, hanno capito che per rilanciare lo sviluppo cinese nel mondo post-pandemico sarebbe stato necessario un ruolo ancora più attivo dello Stato nel regolamentare la vita economica. Dopo una lunga fase in cui i comunisti cinesi hanno dovuto dedicare più tempo alla lettura di Adam Smith piuttosto che a quella di Marx, la concezione di una prosperità comune riporta in auge i principi di uguaglianza e giustizia sociale che sembravano essersi almeno parzialmente persi per strada nel rapidissimo sviluppo economico che ha comunque permesso di portare centinaia di milioni di cinesi fuori dalla povertà.
Ci sono anche motivazioni più pratiche e contingenti legate a questa svolta. Le autorità di Pechino sono in allarme per il possibile scoppio delle bolle createsi nel mondo finanziario lasciato troppo libero di crescere senza vincoli. Come dimostra il crack del gigante dell’immobiliare Evergrande, lo sviluppo cinese è avvento anche ricorrendo a indebitamenti e pratiche speculative spregiudicate che ora le autorità di Pechino necessitano di mettere sotto controllo.
Non bisogna poi sottovalutare l’aspetto di urgenza strettamente politica della svolta. Innanzitutto è interesse del partito rinnovare il patto sociale coi propri cittadini e assicurare una maggiore coesione sociale garantendo più opportunità e più servizi per i meno abbienti. C’è poi il problema (leninista) del controllo del potere politico. I grandi magnati, finora relativamente liberi di crescere ed espandersi, hanno accumulato uno straordinario potere economico. Il rischio è che questi, se messi nelle condizioni di crescere ancora, inizino anche a erodere potere politico al Partito Comunista cercando di incidere sulle vita politica nazionale e di orientare, come avviene nel mondo occidentale, le scelte politiche a loro vantaggio. Così, per Xi Jinping, mettere un freno alle imprese più grandi è parte di una strategia volta a preservare gli interessi del popolo cinese contro i tentativi di dominazione e di controllo politico della borghesia.
Le azioni messe in atto da Xi negli ultimi mesi non lasciano spazio a troppi dubbi. Un primo fortissimo segnale in tal senso è arrivato quando i regolatori cinesi hanno deciso di bloccare quella che sarebbe potuta essere l’IPO più grande della storia, quella dell’Ant Group, il colosso guidato dal celebre imprenditore Jack Ma. Il “sabotaggio” di Ant Group, che gestisce il più grande sistema di pagamento mobile della Cina (Alipay) e che offre un servizio di prestiti a oltre ottanta milioni di piccole imprese, rappresenta la volontà del partito di arginare in tutti i modi le tendenze oligopolistiche dell’economia cinese, di limitare le azioni speculative e di ridimensionare le bolle finanziarie tramite un controllo scrupoloso del sistema creditizio, impedendo a nuovi attori spregiudicati di aggirare le istituzioni finanziarie tradizionali, maggiormente sottoposte al controllo pubblico.
Con la nuova legge antitrust, entrata in vigore non a caso pochi giorni prima del lancio poi abortito dell’IPO dell’Ant Group, sono stati messi sotto attento scrutinio anche tanti altri giganti dell’industria tech e molti sono stati pesantemente multati per non aver rivelato fusioni, per aver firmato contratti esclusivi, per tattiche di marketing fuorvianti e per tutta una serie di altre pratiche non più permesse sotto la nuova legislazione.
Altro tassello fondamentale nella strategia di Pechino per colpire gli interessi delle compagnie tecnologiche è stato quello di aver loro proibito di acquisire i dati degli utenti dei loro servizi. Una stretta sulla privacy che impedisce alle piattaforme private di poter ottenere ed elaborare i big data e che limita dunque la loro influenza politica.
In attesa di capire come si muoverà il governo nella gestione del fallimento di Evergrande, sembra essere finita anche la tolleranza nei confronti dei proprietari e dirigenti delle grandi compagnie in bancarotta per aver accumulato debiti vertiginosi. Il caso più eclatante è l’arresto del presidente e dell’amministratore delegato del gruppo HNA, un conglomerato attivo nella logistica e nei trasporti e finito sotto una montagna di debiti, che mostra le reali intenzioni delle autorità di Pechino, sempre meno inclini a compromessi.
Ma oltre a un controllo pubblico sulle pratiche economiche e finanziarie dei grandi gruppi industriali, la nuova politica economica cinese si è mossa anche in altre direzioni. Un tassello fondamentale nella strategia di Pechino riguarda il lancio dello yuan digitale, che ha il duplice obiettivo di offrire uno strumento che possa in prospettiva aggiungersi alle transazioni commerciali internazionali per scalfire l’egemonia del dollaro ma anche quello di mettere un freno alla crescita incontrollata delle criptovalute. Le autorità di Pechino, per completare il puzzle, proprio qualche giorno fa, hanno dichiarato illegali tutte le transazioni effettuate con criptovalute.
Intanto, si registrano anche i primi interventi nel settore dell’istruzione. Il Governo ha deciso di procedere a un ridimensionamento dell’istruzione privata visto che molte famiglie sono incorse in spese ingenti per garantire una migliore preparazione ai propri figli che si accingono a sostenere l’esame di Stato (che a seconda del punteggio ottenuto permette di accedere alle migliori università). Non solo le aziende del settore dovranno trasformarsi in organizzazioni non-profit, ma il Governo ha anche annunciato che verrà finanziato in maniera considerevole il sostegno scolastico pubblico, per garantire a tutti un maggior livello educativo e per alleviare i costi che le famiglie si devono sobbarcare.
Tutta questa mole di iniziative statali, intraprese negli ultimi mesi, che ha portato ad un crescente controllo e limitazione del potere dei grandi gruppi industriali e delle grandi ricchezze private, mostra un disegno più ampio in cui l’obiettivo è la redistribuzione della ricchezza in funzione della realizzazione di una società più equa.
Contrariamente a quanto si legge sulla maggior parte degli organi di stampa occidentali, che denunciano un “giro di vite” o un “crackdown” autoritario sulla libertà d’impresa, il Partito Comunista è impegnato in una lotta per limitare lo strapotere oligopolistico delle grandi imprese, e soprattutto dei grandi giganti dell’hi-tech e per domare un capitalismo che in Occidente sta erodendo sempre più tutte le istituzioni che promuovono l’interesse pubblico sul profitto privato.
Immagine World Economic Forum (dettaglio) da flickr.com
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.