«Siamo stati mandati quassù dai nostri rispettivi governi, e tutti i nostri governi sono imperfetti. Per questo la storia è così sanguinosa. Adesso siamo soli; per quanto mi riguarda non ho alcuna intenzione di ripetere gli errori della Terra per paura di allontanarmi dal pensiero convenzionale. Siamo i primi colonizzatori di Marte! Siamo scienziati! È nostro dovere pensare in modo diverso, costruire ogni cosa in modo diverso!»
Andare su Marte. Esplorarlo, colonizzarlo, abitarlo. Marte come eterotopia, luogo sul quale si proiettano speranze, sogni e aspettative. Non però per appagare l’ego dei nuovi esploratori spaziali miliardari, ma per fare tutto in maniera diversa, per realizzare qualcosa di radicalmente alternativo rispetto alle nostre società.
Eterotopia che si trasforma ben presto in utopia reale quando Marte, anno dopo anno, generazione dopo generazione, deve essere non più solo pensato ma anche concretamente abitato, costruito e realizzato come entità politica, sociale, economica, culturale.
Sta proprio qui uno degli aspetti più interessanti della trilogia di Marte: se la storia della fantascienza contemporanea è dominata da visioni distopiche, Kim Stanley Robinson, nella sua monumentale opera letteraria, riscopre la forza dell’utopia, l’urgenza di costruire un orizzonte nuovo di possibilità.
Laddove la distopia si erge a metafora politica delle profonde degenerazioni delle nostre società, ma raramente si pone il problema dell’alternativa, l’utopia di Robinson, iniziata a scrivere subito dopo la fine della Guerra Fredda, evita le profezie sulla fine della storia e prova a far uscire la sua narrazione da quell’alveo culturale di disillusione ( riassumibile nella celebre frase di Mark Fisher: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”) che ancora permea profondamente la nostra percezione collettiva.
Ma l’utopia della colonizzazione di Marte è tutt’altro che ingenua, rifugge ogni descrizione solenne e celebrativa. L’utopia è un percorso pieno di ostacoli, di ripensamenti, di errori, di vicoli ciechi. Così le vicende narrate da Kim Stanley Robinson danno peso al carattere sempre aperto dei processi storici, alle tragedie che lo attraversano, alle trasformazioni mai semplici e mai lineari che lo accompagnano.
I tre romanzi che compongono l’opera dello scrittore statunitense Kim Stanley Robinson sono giustamente considerati altrettanti capolavori nel loro genere e hanno vinto tutto quello che si può vincere nell’ambito della letteratura di fantascienza. Il Rosso di Marte (Red Mars, 1992) si è aggiudicato il premio Nebula e BSFA, Il Verde di Marte (Green Mars, 1993 ) e il Blu di Marte (Blue Mars, 1996) il premio Hugo e Locus. Recentemente, l’intera trilogia, prima parzialmente inedita nel nostro Paese, è stata pubblicata in italiano dalla Fanucci, casa editrice molto attenta agli sviluppi della fantascienza contemporanea.
La narrazione di Kim Stanley Robinson prende le mosse dai primi cento scienziati, per lo più russi e americani, selezionati per far parte della prima missione di colonizzazione del pianeta rosso. La trama si sviluppa secondo i canoni della grande epopea storica, interessando più generazioni e mostrando i passaggi che portano la colonia marziana dall’essere una semplice base scientifica a diventare una società complessa in un rapporto spesso conflittuale con la Terra e soprattutto con le sue multinazionali interessate ai minerali e alle pietre preziose che il sottosuolo marziano contiene in abbondanza.
Le vicende si dipanano seguendo, capitolo dopo capitolo, il punto di vista di un personaggio diverso, dando rilevanza alle diverse prospettive, ambizioni e speranze che animano l’impresa della colonizzazione marziana. Complessivamente, prevale uno stile descrittivo, scientificamente informato ed erudito, che sovente si avventura in lunghe ed interessanti digressioni sulla fisionomia di Marte e sui cambiamenti geologici, biologici, climatici che il processo di terraformazione via via comporta per un pianeta che, come si può intuire dai titoli dei tre volumi, nel tempo diventa sempre meno rosso e sempre più verde e blu.
Oltre a essere un culture delle discipline scientifiche, Robinson è anche inequivocabilmente un uomo di sinistra che vede la narrativa come necessario vettore di idee politiche. Nella trilogia delle tre Californie, per esempio, vengono presentati tre diversi scenari sul futuro dello Stato americano in base alla volontà politica della sua classe dirigente di rispondere al cambiamento climatico e alla scelta di indirizzare lo sviluppo tecnologico verso finalità umane ed ecologiche o verso il profitto e gli armamenti.
Il Marte come tabula rasa su cui costruire qualcosa di radicalmente nuovo diventa allora perfetto espediente letterario per dare forza all’idea che un mondo migliore sia possibile. Senza dimenticare che l’utopia non può essere il punto d’arrivo ma un percorso, un percorso coi suoi alti e bassi, i suoi momenti gloriosi e le sue tragedie. Così la vicenda della colonizzazione di Marte segue fasi alterne, passa per errori, tradimenti, egoismi, lotte fratricide e scontri politici feroci.
Connaturata e imprescindibile da questo processo è dunque proprio la dimensione del conflitto: senza la lotta è impossibile creare qualcosa di migliore. Conflitto che si struttura su molti livelli anche in base all’epoca storica che Marte attraversa. Così, accanto alle linee di conflitto più tradizionali come quelle che riguardano capitale e lavoro o fede e scienza, si sviluppa una dimensione inedita ma fondamentale che ruota attorno al problema della terraformazione: chiedersi quale Marte si vuole significa anche interrogarsi se si preferisca un pianeta completamente rimodellato dall’intervento umano oppure il più possibile simile alle condizioni originali.
Il conflitto può essere risolto con il dialogo quando si tratta di provare a mettere insieme tutte le varie anime che pongono lo spettro della sinistra marziana. E non è certo un’impresa facile: vi sono gli indipendentisti istituzionali, sette scientifico-panteiste che venerano la forza vitale di Marte, le comunità neo-hippie, i “rossi” oppositori alla terraformazione indiscriminata e i gruppi comunisti (fra i quali anche i misteriosi “marxisti di Bologna”).
Ma il dialogo e il confronto non sempre bastano. Quando si tratta di affrontare le multinazionali terrestri, in grado ormai di assorbire interi Stati sotto le proprie dipendenze, o di fermare le ottuse forze anti-immigrazione pronte a scatenare una guerra pur di salvaguardare i propri interessi, la rivoluzione diventa l’unica strada praticabile. Il processo utopico è così un processo che deve necessariamente fare i conti con la rivoluzione per spazzare via lo status quo e fare strada al nuovo. Il messaggio di Kim Stanely Robinson è però che la rivoluzione non è mai unica e definitiva, data una volta per tutte. Le prime rivoluzioni possono anche fallire o produrre degli effetti indesiderati o non essere ancora del tutto soddisfacenti (probabile metafora della Rivoluzione russa) ma possono liberare tutto il loro potenziale emancipavo se seguite da altri momenti rivoluzionari successivi che ampliano la portata, correggono il tiro dei tentativi precedenti e portano a compimento un processo che non mette fine alla Storia ma crea le basi per un mondo più giusto.
La Trilogia di Marte ha profondamente rinnovato l’immaginario fantascientifico degli anni novanta recuperando una dimensione utopica che si presenta comunque sempre come un percorso mai semplice, lineare o definitivo. Kim Stanley Robinson ci ricorda che la storia sarà sempre attraversata da tragedie, miserie ed errori ma ci aiuta non solo a immaginare realtà lontane e diverse ma anche e sopratutto a sognare mondi migliori.
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Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.