Negli Stati Uniti si commenta il disimpegno dall’Afghanistan paragonandolo alla fuga dal Vietnam. Se non è impossibile trovare delle analogie tra i due conflitti, molto diversi sono i soggetti che fronteggiano l’invasore statunitense, e, di conseguenza, diversi saranno, con buona probabilità, gli esiti per la popolazione.
Leonardo Croatto
Ci sono sicuramente analogie tra quanto accade in Afghanistan in questi giorni e la sconfitta USA in Vietnam, ma guardano tutte al lato statunitense della questione. Quella in Afghanistan è stata una guerra di occupazione organizzata e gestita dando per scontata la schiacciante superiorità tecnologica, strategica, culturale e pure morale dell’occidente e caratterizzata – ancora in analogia con il Vietnam – da obiettivi poco chiari non solo a breve termine (se si esclude la decapitazione di Al-Qaeda) ma sopratutto a lungo termine.
Come in Vietnam, lo “scontro di civiltà” tra un occidente che si rappresenta democratico e civilizzato e che legge il proprio avversario come culturalmente arretrato e barbaro nei costumi ha prodotto nella narrazione una giustificazione morale della guerra d’aggressione e sul campo una gravissima sottovalutazione delle qualità dell’avversario.
Delle popolazioni Afghane si è data una rappresentazione tipica del colonialismo, si è cioè immaginato che gli abitanti di quel paese si sarebbero facilmente lasciati conquistare dalla cultura e dalla civiltà occidentale isolando i soggetti refrattari, e che avrebbero costruito dal nulla una democrazia ad immagine e somiglianza delle nostre.
Come in Vietnam, tutte le fantasie dei conquistatori occidentali si sono realizzate in una piccolissima finestra di tempo e spazio: qualche anno di governo stabile nella capitale e nelle città più grandi. Mentre in casa nostra ci raccontavamo dei grandi progressi democratici e culturali dell’Afghanistan occupato, nelle aree non urbanizzate del paese – rimaste impermeabili a qualsiasi contaminazione straniera – la resistenza interna attendeva che gli occidentali si stancassero di una occupazione improduttiva e costosissima.
Come in Vietnam, nel momento in cui la pressione in casa ha costretto gli statunitensi alla ritirata ogni simulacro vuoto di organizzazione statale occidentale si è sgretolato e i Talebani si sono ripresi il paese senza alcuno sforzo con, in più, in regalo quanto lasciato sul terreno dagli occupanti.
A differenza del Vietnam, però, il paese non finirà in mano ad un partito comunista che lo porterà fuori dalla miseria della guerra guardando verso il futuro, ma verrà consegnato al fondamentalismo religioso e oscurantista dell’estremismo islamico.
Dmitrij Palagi
La scelta dell’11 settembre come data simbolica del ritiro a stelle e strisce dall’Afghanistan, per porre fine a una lunga guerra, dice molto di cosa è successo in questi venti anni.Nei paesi occidentali il movimento per la pace, in un passaggio indicata come seconda potenza mondiale dal New York Times, ha perso la sua forza ed è venuto meno il suo ruolo di pressione sui governi europei.
La morte di Gino Strada ha influito sulle reazioni dell’opinione pubblica italiana alle immagini che arrivano dal paese invaso da Bush jr., in cui non sono mancate vittime delle nostre forze armate.Rispetto al Vietnam c’è un contesto internazionale completamente diverso: nell’immaginario quella guerra è un punto di riferimento che torna a ogni sconfitta militare della Casa Bianca, ma davvero non ha senso banalizzare gli eventi.
Anche perché quello che appare eclatante è il confermarsi di quel sentimento di superiorità proprio del cosiddetto occidente: leggiamo il ruolo di Iran, Russia e Cina come diverso da quello della NATO, mentre quasi ci consola pensare che ora la popolazione afgana abbia come massima aspirazione quella di raggiungere i nostri paesi.
Di multipolarismo si parla spesso, ma raramente la politica dei vari paesi spiega come intende la convivenza tra quel che rimane degli stati nazionali, nel nostro pianeta, negli ultimi anni del primo quarto di secolo.
Jacopo Vannucchi
L’amministrazione Biden ha indubbiamente sbagliato la strategia comunicativa. Si ha buon gioco a ripubblicare il video del Presidente che l’8 luglio respingeva il parallelo col Vietnam del 1975 con le parole «in nessun caso vedrete gente evacuata dal tetto dell’ambasciata», ossia proprio ciò che è appena successo a Kabul.
Ma di infortunio puramente comunicativo, appunto, si è trattato. Le ammissioni di alti funzionari USA di aver «mal calcolato» i tempi del collasso afghano non sono né credibili né rispettabili. Non credibili perché persino la stampa quotidiana rivolta al grande pubblico ha messo in luce tutte le falle delle forze regolari afghane, in primis la non autosufficienza logistica e quindi l’incapacità di autorifornirsi di munizioni e di viveri; fatti che, se sono noti ai giornalisti, si presume siano noti anche alle fonti e quindi anche agli analisti governativi statunitensi.
Ma soprattutto, oltre che non credibili, non sono nemmeno rispettabili, perché, come riporta la CNN (non proprio una rete antiamericana), il piano Biden prevedeva che «potessero volerci mesi perché il governo di Kabul cadesse, consentendo un lasso di tempo dopo la partenza delle truppe americane prima che venissero a nudo tutte le conseguenze del loro ritiro» (leggi qui).
La caduta dell’Afghanistan sotto l’oppressione del regime talebano non appare quindi l’esito di un esperimento mal riuscito, bensì la logica realizzazione di una strategia, coerente non solo con la presa d’atto bideniana (comune a Trump e a Obama) del declino della leadership statunitense nel mondo, ma anche con l’esplicitazione da parte di Biden della Cina come avversario numero uno nel XXI secolo. Dall’Afghanistan il contagio islamista potrebbe estendersi al confinante Xinjiang, in cui lo sforzo di ingegneria sociale del governo cinese per prevenire la radicalizzazione islamista viene chiamato dagli occidentali “genocidio culturale”. Inoltre l’ondata di profughi, con i conseguenti tumulti xenofobi, potrebbe essere usata per ricondurre all’obbedienza gli europei riottosi alla gabbia NATO, a partire da Macron.
Convergenze oggettive tra Stati Uniti e forze islamiste non sono una novità: oltre all’Afghanistan si sono avuti i casi del comune schieramento antiserbo in Bosnia e nel Kosovo e, più indirettamente, della guerriglia antirussa in Cecenia. Più di recente le scelte USA hanno destabilizzato alcuni teatri strategici (il Medio Oriente, il Nordafrica) e favorito in quelle aree l’avvento o la ripresa di forze islamiste di varia sfumatura (Daesh, al-Qaeda, i Fratelli Musulmani…). Ciò che è più interessante è che stavolta anche altri potrebbero aver imparato a giocare: l’Iran sciita e persino la Russia potrebbero sostenere in vario grado il nuovo regime di Kabul, nel tentativo sia di ridurre l’influenza sunnita del Pakistan sia di neutralizzare potenziali trappole USA.
Alessandro Zabban
La presa di Kabul da parte dei talebani imprime una ferita storica e indelebile per l’occidente. I paragoni con Saigon permettono di cogliere solo in parte la portata di questa sconfitta epocale che segna la fine di un’era segnata dall’interventismo “umanitario” e dall’esportazione della “democrazia”. Tutti valori portati col sangue che il governo americano ha alla fine ritenuto sacrificabili rispetto alle esigenze di bilancio federali. Come da copione dell’ipocrisia occidentale infatti, chi ha voluto questo ritiro continuerà a proclamandosi paladino dei diritti delle donne, mentre per un calcolo strategico ed economico le abbandona ad un futuro drammatico nella mani degli Studenti Coranici.
Sono bastate due settimane ai talebani per ridicolizzare la follia delle crociate liberali, modello sostenuto o a cui hanno ammiccato quasi tutti i Paesi della NATO, e per sgretolare la fiducia in una colonizzazione culturale di stampo occidentale, ritenuta, spesso anche a sinistra, positiva.
L’Afghanistan resta un paese diviso, ma la straordinaria velocità con cui i Talebani si sono ripresi il paese lascia pochi dubbi sul fallimento nel forgiare un Afghanistan su misura delle aspettative occidentali. Al di là del consenso popolare talebano, probabilmente sottovalutato, è risultato evidente il pressoché inesistente attaccamento degli afghani al loro governo, emanazione di quelle che i talebani definiscono non del tutto a torto “le forze di occupazione straniere”.
La cinica strategia del caos americana lascia la patata bollente nelle mani dei vicini dell’Afghanistan, come Cina, Iran, Pakistan e Russia. In particolare la Cina è chiamata a giocare un ruolo decisivo. Se i talebani si dimostrano, pur nel loro radicalismo, dei realisti nel gestire le relazioni internazionali, potrebbe nascere un’area centroasiatica emergente ed integrata nel solco segnato dalla Via della Seta. Se invece l’Afghanistan tornerà a essere il quartier generale del jihadismo internazionale, la Cina, preoccupata per un possibile riattivarsi di cellule terroristiche nello Xinjiang, sarà costretta a sporcarsi le mani nel peggiore dei gineprai.
Immagine da commons.wikimedia.org
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