Pubblicato per la prima volta il 13 aprile 2015
In uno Stato in cui le sopravvivenze di stampo feudale sono diffuse e radicate, non stupisce che qualsiasi generico appello alla “meritocrazia” venga salutato come moderno e rivoluzionario. In effetti, ogni aspetto della società sembra essere sempre più colonizzato da una cultura civica povera che fa del nepotismo, della cooptazione e della raccomandazione gli strumenti e le credenziali più utili per le opportunità di carriera. La politica più populista e il sistema mediatico più sensazionalistico ci mettono poi del loro nel semplificare il quadro complessivo resuscitando in tutta la loro incompletezza termini come quelli fortunatissimi di “casta” o di “baronato”.
Eppure dietro a tanta confusione c’è effettivamente un problema di fondo che riguarda non solo l’Italia ma tutto il mondo occidentale e che ha a che fare con la permanenza diffusa di una serie di pratiche culturali volte a privilegiare l’individuo per come è dalla nascita piuttosto per quello che diventa tramite l’acquisizione di conoscenze e capacità. Tale situazione ovviamente permette di generare un ampio consenso politico nei confronti di una concezione meritocratica, volta a sradicare la permanenza del criterio dello status ascritto su quello acquisito.
Recentemente, il ritorno in grande stile del merito nella sfera pubblica e nella narrazione politica si deve a Renzi, che ha fatto di questo concetto la questione politica fondamentale dietro la quale si muove il suo intento riformistico. Influenzato dal Blairismo più centrista, il Presidente del Consiglio italiano ha posto il concetto di meritocrazia come fondamento del suo programma politico e centro del suo piano di riforme.
Come detto, l’affermazione del merito individuale (anche se occorre capire cosa si intenda esattamente con questo concetto) è una concezione condivisibile da chiunque rifiuti l’oscurantismo feudale e le logiche dell’ancien régime. Il problema sorge quando all’ascesa nel discorso politico di una concezione meritocratica, già presente nell’illuminismo e nel liberismo e dunque sottoscrivibile anche da forze politiche di destra, corrisponde il parallelo declino dell’interesse nel perseguire la giustizia sociale, che dovrebbe invece essere la bandiera della sinistra, nell’ottica che il merito venga inteso come un meccanismo di allocazione di posizioni sociali valido solo se tutti possono partire dallo stesso punto di partenza.
La crisi politica delle forze progressiste è anche dovuta all’incapacità di comprendere, o a non voler proprio più comprendere, che le possibilità di acquisizione del merito, sotto forma di titoli di studio, certificati, attestati, non sono equamente diffuse nella società, ma sono sempre gli strati sociali più benestanti, grazie alle loro risorse economiche superiori, ad avere molte più possibilità di ottenere credenziali meritocratiche. Colui che viene da un contesto sociale o economico svantaggiato deve essere messo nelle stesse condizioni di poter accedere alle risorse educative e formative di chi è più benestante, altrimenti il ricco sarà sempre quello che, potendo investire di più, avrà titoli migliori e risulterà quindi il più meritevole. Lasciare in un angolo la giustizia sociale significa allora rinunciare a livellare quelle differenze che si hanno fin dalla nascita; e dunque implica riprodurre la logica feudale e reazionaria secondo cui è sempre chi parte da condizioni privilegiate dalla nascita a poter aspirare a posizioni sociali e lavorative più rilevanti e altolocate.
Ecco che allora una domanda sorge spontanea. Può la sinistra, anche al netto delle sue esigenze di rinnovamento, ritenere soddisfacente il limitarsi a rimuoverne gli ostacoli formali senza però andare ad incidere sulle condizioni di disuguaglianza che si hanno a monte e che condizionano profondamente le possibilità di accesso alle conoscenze e alle competenze?
Il celebre sociologo francese Pierre Bourdieu è uno dei più grandi studiosi delle dinamiche di classe e delle modalità di riproduzione delle disuguaglianze fra i vari strati sociali. Il suo celebre studio sul sistema educativo, La Riproduzione (La Reproduction, 1970), scritto a quattro mani con J. C. Passeron, può essere esemplificativo di cosa significa vivere in un regime politico meritocratico che non è anche attento alla questione della giustizia sociale.
Bourdieu nel suo studio parte da alcuni dati statistici e in particolare dalla tendenza tipica di ogni società occidentale per la quale, a qualsiasi livello, studenti provenienti da classi sociali più abbienti hanno risultati scolastici decisamente migliori dei loro colleghi più indigenti. Questo aspetto, a meno che non si voglia ricorrere a spiegazioni reazionarie e razziste secondo cui i ricchi sarebbero geneticamente più intelligenti e diligenti, mostra tutte le difficoltà che chi proviene da classi sociali più sfavorite incontra nel mondo educativo: non si tratta solo della più scarsa possibilità di pagare la retta di scuole più rinomate, ma implica, fra le altre cose, elementi linguistici (il ragazzino di genitori operai entrerà nella scuola primaria con categorie linguistiche molto meno ricercate e con un vocabolario molto meno ricco di chi viene da classi borghesi, con genitori acculturati e in ambienti in cui la lettura e la cultura sono incentivate), situazioni familiari più problematiche e un minor tempo da poter dedicare allo studio.
In un sistema già altamente meritocratico come la scuola, dove lo studente è valutato in base alle conoscenze acquisite, chi proviene da una famiglia benestante avrà molte più possibilità di ottenere buoni voti e, grazie anche al capitale economico di base, di essere ammesso a scuole prestigiose che permettano poi una allocazione in posizioni lavorative più remunerate e socialmente più considerate. Il sistema scolastico moderno, dunque, dietro il suo ruolo educativo, nasconde la sua funzione di riproduzione delle disuguaglianze: è il terreno ideale per il ricco per mostrare tutto il suo valore e per il più povero per mettere in mostra tutte le sue lacune.
Il pensiero di Bourdieu ci ricorda che una sinistra che si dica tale deve proporre soluzioni politiche che abbiano come principio ispiratore quello della giustizia sociale, volte cioè a livellare le differenze e a incentivare le possibilità di apprendimento e di crescita professionale e sociale di ognuno. Una buona scuola, come una buona pubblica amministrazione o una buona sanità, deve partire dal diritto allo studio e dalla democratizzazione dell’accesso alla cultura e non da una competizione fra curriculum.
Nel disastro generalizzato di una umiliazione dei valori della sinistra, la manovra politica di Renzi è politicamente furba e strategicamente perfetta: chi a sinistra prova a criticare la meritocrazia può essere tacciato di conservatorismo, di voler rimaner attaccato alla tradizione dei privilegi di stampo feudale, mentre il suo piano, liberale per definizione, in quanto agisce sulle libertà formali piuttosto che su quelle sostanziali, può essere messo in campo in tutta la sua forza, incontrando resistenze sempre più blande e frammentarie.
Si tratta di quella che Bourdieu definisce “violenza simbolica”: far credere che il motivo della subalternità sia da ricercare nei demeriti individuali piuttosto che in un sistema che tende a riprodurre le disuguaglianze.
La meritocrazia, evocata come sistema paritario, in realtà è funzionale al mantenimento dello status quo: come il sistema feudale fondava la legittimazione delle sue disuguaglianze sulla volontà di Dio, quello meritocratico lo fonda su titoli e competenze che sono molto più facilmente ottenibili da chi ha vaste risorse economiche da investirci.
Dietro la sua pretesa di modernizzazione, la meritocrazia, se non è accompagnata da un serio programma di riduzione delle disuguaglianze sociali, è solo un modo per mantenerle tramite un più sofisticato criterio di legittimazione. Spetta a una sinistra di classe opporsi alla violenza simbolica del renzismo e smascherare i reali intenti di un programma che fa dell’uguaglianza formale uno specchietto per le allodole dietro il quale si nasconde un reale piano di conservazione delle disuguaglianze.
Immagine da Public Domain Review
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.