di Niccolò Bassanello e Silvia D’Amato Avanzi
Si può parlare di mafia attraverso un film horror? La sfida sembra tanto ambiziosa quanto scivolosa, il peso del tema moltiplica il rischio di precipitare nella superficialità; eppure proprio le ampie maglie del genere permetterebbero forse di riuscire con strumenti che risulterebbero inopportuni in altri approcci, la macchietta, la morbosità, il pastiche.
A classic horror story (soggetto e regia di Roberto De Feo e Paolo Strippoli), da luglio su Netflix, aggira la domanda nel momento stesso in cui la pone, preferendo chiedersi: si può parlare di come parliamo di mafia attraverso un film horror? Anzi, si può parlare del nostro rapporto con la cronaca e lo spettacolo attraverso un film horror?
Inizia un racconto horror effettivamente classico. Cinque sconosciuti si trovano a condividere, in carpooling, un viaggio in camper in un Sud Italia ovviamente esotizzato: l’aspirante cineasta Fabrizio (Francesco Russo), le cui riprese fungono da incisi “found footage”; Elisa (Matilda Lutz), giovane donna tormentata dai dubbi sulla propria gravidanza e la prospettiva di interromperla; Sophia (Yuliia Sobol) e Mark (Will Merrick), giovane e entusiasta coppia di turisti stranieri; e Riccardo (Peppino Mazzotta), taciturno medico in prematura crisi di mezza età. Non mancano attriti e incomprensioni, uno scontro culturale felicemente sintetizzato in uno scambio di battute sui titoli di giornale; finché, a seguito di un incidente, il gruppo perde la strada tra i boschi, finendo all’inquietante porta di quella che sembra essere una setta dedita a rituali sanguinari in un macabro culto di Osso, Mastrosso e Carcagnosso (i mitologici fondatori di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta).
Un racconto (timidamente) slasher godibile proprio nella sua classicità, nei richiami ai capostipiti dei filoni tornati più in voga nell’ultimo decennio (Non aprite quella porta, Wrong Turn, The Wicker Man) astutamente attualizzati e in una bella confezione, una cura quasi affettata della fotografia e del montaggio; perfino il prevedibile punto debole della recitazione italiana “da fiction”, vittima del malinteso che mangiarsi le parole infonda emotività o genuinità al dialogo, finisce per contribuire al “classicismo”. Un risultato non banale se si pensa a un altro film italiano per certi versi simile a questo, Il legame (de Feudis, 2020), ben più pretenzioso nei mezzi e nella confezione, che però si trasforma in un polpettone indigeribile di dialoghi al limite del discernibile e jump scares telefonate dopo i primi minuti.
Poi il film diventa “serio”, perdendo completamente una qualunque direzione di sviluppo della trama, che si sfarina in una galleria di citazioni che va da Hostel a Le colline hanno gli occhi all’immancabile quanto insopportabile Midsommar. Operazione citazionistica voluta (lo farebbe pensare la goffa cinefilia di Fabrizio, ennesimo elemento meta) o meno, il risultato non è dei migliori.
Una matrioska di quarte pareti si sfondano una dietro l’altra, un parossismo in cui ogni piano di lettura è un po’ meno promettente del precedente; si perde la leggerezza implicata nel patto tra lo spettatore e il film horror – senza guadagnare nulla o quasi in termini di significati trasmessi. Senza l’ironia scanzonata di Quella casa nel bosco (The cabin in the woods di Drew Goddard e Joss Whedon, 2011, con cui il paragone è inevitabile quanto inevitabilmente impietoso) e, non si può far a meno di sospettare, senza spunti particolarmente originali da offrire.
Si può parlare di come parliamo di mafia attraverso un film horror? Anzi, si può parlare del nostro rapporto con la cronaca e lo spettacolo attraverso un film horror? Anzi, si può parlare del nostro rapporto con i film horror attraverso un film horror? Anzi, si può parlare del cinema horror attraverso un film horror?… Il timore è che sempre più spesso l’arte finisca per parlare solo di se stessa, o quasi, non per un necessario sguardo critico sui propri linguaggi, quanto perché sa parlare solo di se stessa; e non per questo trovi molto da dire. L’ansia di ricapitalizzazione simbolica del prodotto visivo non compensa, anzi contrasta e finisce per far risaltare, la timidezza dei messaggi.
Ci stiamo forse dimenticando che dall’horror, dai film “di genere” non è sbagliato pretendere poco; che anzi le modeste pretese hanno sempre permesso di dire qualcosa di più, di dirlo più liberamente – o di non essere costretti a dire ad ogni costo qualcosa di “serio”.
Senza scadere nel populismo cinematografico, si ha l’impressione che il cinema italiano dell’ultimo decennio, nel suo complesso, genere o meno, si gioverebbe di storie con meno passati tormentati, meno borghesi sushi e spumante, meno vinti con problemi di pronuncia, meno periferie e critica sociale un tanto al chilo, o anche solo di opere meno autocompiaciute e cervellotiche – e fatte meglio.
Immagine Netflix/Colorado Film
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