Nel corso dei dieci decenni che abbiamo alle spalle quanto è stata “vicina” la Cina? Storicamente e a livello di immaginario il suo partito comunista non ha svolto in Europa un ruolo simile a quello sovietico e, ancora oggi, le formazioni di stampo marxista del vecchio continente danno letture molto diverse di un paese spesso considerato parte di una sfera “altra” del globo.
Sotto la guida di Xi Jinping ecco cadere l’anniversario dei 100 anni dalla nascita del PCC, celebrati il 1° luglio di questo anno ricordando il primo congresso di questa organizzazione, che aveva tra i suoi delegati Mao Zedong, diventato in seguito anche un’icona pop. La pandemia Covid-19 ha sicuramente avuto un ruolo importante nell’aggiornare l’opinione pubblica internazionale sui governi di Pechino, in parte modificando i termini del dibattito su una delle ultime “dittature comuniste” del mondo: specialmente nelle argomentazioni di chi parla di una inevitabile multipolarità globale di fronte a un’ipotesi di decadenza della potenza statunitense, a fronte dell’ascesa “orientale”. Di questo parliamo nella nostra rubrica a più mani di questa settimana.
Piergiorgio Desantis
“How has China’s Communist Party survived for 100 years?” titola così l’Economist per l’anniversario della fondazione del PCC. È un titolo evocativo che dimostra lo spaseamento, l’incomprensione della storia (e che storia millenaria!), di un popolo e di uno stato che, semplicemente, ha ripreso il posto che già ha occupato in altre frasi della storia. La Cina, aldilà di posizioni faziose, ha dimostrato e dimostra che il marxismo non è morto, tutt’altro, è vivo e lotta con caratteristiche cinesi. Il clima da neoguerra fredda, purtroppo, non lascia spazio ad alcuna riflessione, eppure la fuoriuscita dalla povertà di oltre 800 milioni di persone sono risultati che resteranno indelebili nella storia, aldilà dei giudizi personali. Nonostante tutte le contraddizioni (e chi non vive immerso in esse?), nonostante tutte le accuse (ce n’è per tutti i gusti), sarebbe il caso di procedere allo studio e alla conoscenza di mondo che è davvero difforme e tutt’altro che monolitico (come viene descritto nei media), senza avere alcuna pretesa di superiorità. Al netto di atteggiamenti supponenti e occidentalcentrici (che ormai sono fuori dalla storia), meglio sarebbe perseguire (come Italia e come Europa) scambi e relazioni commerciali e non solo con la Cina, in un’ottica di benessere condiviso e armonioso, senza coalizioni antiqualcuno ma sulla base di relazioni internazionali che si fondino sulla multilateralità, che per fortuna, è uno degli aspetti più positivi dei tempi in cui viviamo.
Dmitrij Palagi
Il 1921 del Partito Comunista Cinese ha un peso diverso da quello del 1917, almeno per l’occidente: quello che non c’è più svolge un ruolo evocativo diverso, rispetto a quanto ancora esiste e resiste.Nei commenti che si sono succeduti in questi giorni, sulle principali pagine dei quotidiani e settimanali del campo progressista, colpisce la lettura univoca di una realtà “sopravvissuta” al ‘900, descritta con parole che senza difficoltà si potrebbero riadattare per descrivere la capacità del modello capitalista europeo e statunitense di rinnovarsi, a seconda dei diversi contesti globali.La necessità di nuovi equilibri multipolari è ormai data come certa, mentre all’inizio del nuovo millennio la globalizzazione sembrava parlare di un unico modello di villaggio globale destinato a globalizzare tutte le parti del pianeta.
La Cina non è vicina, continua a essere “altro”, ma rimane una potenza reale, che gestisce concretamente interessi importanti e svolge un ruolo sempre maggiore, guidata da un partito che non rinnega la sua lettura del marxismo, nonostante venga costantemente delegittimata da chi continua a sentirsi superiore rispetto al resto del globo.
Non ci sono modelli da seguire o da esportare; ci sono realtà di cui prendere atto e con cui imparare a dialogare. La storia lo renderà inevitabile. Si tratta di capire quanto si sarà in grado di affrontarlo attivamente e in che direzione andranno i rapporti di forza tra le diverse classi che vivono nei diversi paesi, anche all’ombra del governo di Pechino, segnato dalla pandemia Covid-19 e dalla decisione di togliere il limite dei due mandati alle figure apicali del Paese.
Jacopo Vannucchi
La storia del Partito Comunista Cinese è tutt’altro che lineare. Le contraddizioni furono presenti fin dalla sua nascita: fu fondato con l’apporto determinante di emissari del Comintern, il quale però continuò lungamente a prediligere un rapporto diretto con il Kuomintang. Durante e dopo la destalinizzazione la polemica di Mao contro l’URSS “revisionista” mal si conciliava col fatto che proprio Mao era stato una sorta di Tito dell’Estremo oriente, spina nel fianco asiatico dell’ultimo Stalin. Il fallimento del PCC nel tentativo di porsi a capo di un nuovo polo comunista costrinse la dirigenza ad avvitarsi in una spirale di repressione interna (Rivoluzione culturale) e infine a invertire completamente la rotta accordandosi negli anni Settanta con gli Stati Uniti.Anche la storia dal 1978 in poi, con il prevalere di Deng e l’affermazione del socialismo con caratteristiche cinesi, è fondata su un’enorme contraddizione: la completa demaoizzazione della linea politica ma nella continuità del culto di Mao come padre della nuova Cina. Una condotta politica e ideologica che è esattamente opposta a quella dell’URSS post-staliniana, in cui a una condanna formale di Stalin non corrispose un reale percorso di riforme, tanto che le differenze con lo stalinismo consistettero di fatto in: assenza delle purghe, dilagare della corruzione, assenza della crescita economica.Opposta alla direzione sovietica è stata anche la strada dagli anni Ottanta in poi: l’integrazione nell’economia mondiale di mercato abbinata a un inflessibile autoritarismo interno, laddove la perestrojka indicava semmai la liberalizzazione politica interna e il tentativo di mantenere un assetto economico socialista (o di “riscoprirne” il mitico archetipo).
La vicenda del PCC quindi non resta confinata alla sua dimensione nazionale o alle peculiarità dell’Asia orientale nella politica internazionale. Assume invece un ruolo di paradigma storico per lo sviluppo del socialismo nelle condizioni di vincolo date: la storia culturale nazionale e i rapporti con il sistema capitalista (un tempo si sarebbe detto: l’accerchiamento imperialista).
Se la Cina riuscirà a mantenere le proprie promesse di sviluppo, in un Paese che, come già l’URSS, è attraversato da enormi squilibri, è materia per il futuro. Uno dei nodi che essa sembrava aver parzialmente risolto, ossia il ricambio della classe dirigente, è invece entrato in questi anni in una nuova fase con la ripresa di forme di culto della personalità nei confronti di Xi. La contraddizione fra esercizio efficace del potere decisionale e creazione di una valida linea di successione del gruppo dirigente sarà un altro elemento di preoccupazione della leadership cinese nel futuro prossimo.
Alessandro Zabban
“È semplice: le dichiarazioni cinesi di forza e sovranità – dal “ci siamo alzati” di Mao al “non verremo bullizzati” di Xi – sono intese come “aggressive” solo perché l’Occidente immagina che il ruolo giusto della Cina debba essere quello di docile destinatario del dominio commerciale e spirituale dell’Occidente”.Questo post Facebook del Qiao Collective, gruppo di intellettuali cinesi che combatte le pratiche e le concezioni imperialiste sulla Cina, mette in chiaro molti problemi che riguardano una visione Occidentale del grande paese asiatico e che dunque coinvolge spesso sia le letture di destra che di sinistra.
Per entrambi non è accettabile una Cina forte perché non è depositaria dei valori ai quali siamo stati educati e che derivano dalla tradizionale occidentale. Un’idea alquanto banalizzata di libertà viene portata continuamente ad esempio, come se esistesse una sola concezione di libertà e come se l’idea di libertà che hanno gli altri debba essere necessariamente inferiore alla nostra.
Anche nel campo di molte frange di quel che resta del comunismo occidentale, il tiro al bersaglio contro la Cina sembra essere lo sport prediletto: l’accusa è ovviamente quella di aver tradito i valori socialisti e comunisti. Anche qua la contraddizione è evidente: nella diversità delle esperienza socialiste e comuniste in Asia, Africa, Europa e America Latina nel corso del tempo, solo gli Occidentali posso sentenziare se quello che è in corso sia o non sia un genuino processo socialista. Solo loro possono essere i depositari del vero socialismo e solo loro hanno il diritto di attaccare il bollino di autenticità. Un atteggiamento colonialista che ricalca quello delle destre e della sinistra liberale impedisce a priori uno studio serio e approfondito della Cina che permetta di fornire degli elementi e degli esempi che possano essere utili anche per rinnovare e rigenerare il movimento comunista occidentale.Invece che immaginare l’Occidente come un dispenser di diritti a cui gli altri dovrebbero attingere a piene mani (altrimenti sono cattivi), sarebbe preferibile ricordarci più umilmente che anche noi possiamo imparare dagli altri e che quello che altri popoli realizzano, non sempre è semplice imitazione di modelli consolidati di derivazione occidentale (“la Cina capitalista”). Il Socialismo con Caratteristiche Cinesi guarda al marximo ma deve anche adattarsi alle condizioni sociali, culturali e storiche della Cina, per questo non può essere a immagine e somiglianza dell’idea di società perfetta che noi occidentali abbiamo in mente e per questo non può essere sempre conforme alla nostra “sensibilità”.
Questo ovviamente non significa non poter criticare la Cina e il PCC ma significa che per farlo in maniera costruttiva, prima occorre disfarsi del retaggio colonialista e imperialista che è purtroppo ancora presente in troppi ambienti della sinistra.La lunga e complessa storia del PCC e della Repubblica Popolare non può essere accantonata con una smorfia di disprezzo e superiorità.
Immagine da wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.