Benedetta Chesi si laurea in Filosofia e Forme del Sapere con una tesi dal titolo “Domesticità Umwelt e Cultura popolare”. La tesi ha due punti tematici: il primo è il ruolo dell’oggetto come ente utilizzabile che svolge la funzione di ponte relazionale tra il nostro essere-nel-mondo, le altre presenze con cui quotidianamente viviamo e la nostra domesticità; il secondo deriva dalla scelta di svolgere un’etnografia prevalentemente nelle case popolari della Toscana cercando di cogliere come gli oggetti ordinari, anche quelli più comuni e prodotti in massa, abbiano un valore oltre che simbolico anche culturale e sociale, siano quindi elementi distintivi della classe popolare odierna. Ho cercato pertanto di capire di che tipo di oggetti si trattasse e che rapporto avessero con essi le persone che ho intervistato, come venissero concepiti, utilizzati e che valore potessero assumere all’interno delle loro relazioni interpersonali.
Benedetta, il tuo progetto di tesi, se non sbaglio, unisce diverse discipline, trattandosi di una indagine antropologica – quasi da giornalista di inchiesta, fatta sul campo – ma che comprende in sé molti elementi filosofici. Come è nata e come si è sviluppata l’idea di questo progetto?
L’idea della mia tesi è nata dopo una tesina per un esame universitario, volevo indagare come gli studenti Erasmus avessero la necessità di ricreare un Umwelt, un ambiente circostante, che riproducesse tramite l’oggetto materiale l’idea di casa, come passaggio per potersi “appaesare” in posti nuovi, per non sentirsi smarriti. Da qui ho cambiato un po’ prospettiva ed è nata l’idea della mia tesi, quella di fare un’indagine etnografica sul ruolo determinante della cultura materiale, in particolar modo quella della domesticità, per la costruzione di un Umwelt condiviso nella classe popolare contemporanea.
Tornando alla filosofia, che è molto presente nel tuo lavoro, da quanto mi hai detto, mi sembra che il pensiero e la ricerca fenomenologici ti abbiano molto influenzata. Quali sono stati i tuoi autori di riferimento, se ci sono stati, per condurre la tua indagine filosofico- antropologica (passami il termine)?
Ho seguito prevalentemente la linea teorica di Ernesto De Martino e Martin Heidegger per quanto riguarda la creazione del proprio Umwelt attraverso l’oggetto intramondano e della sua capacità di oltrepassare il rischio radicale del crollo della presenza, dell’angoscia del nulla.
Nel caso specifico di questa tesi, che si è rivolta a un ceto popolare, l’oggetto che da una parte racchiude questo sistema valoriale comunitario svela dall’altra l’elemento di distinzione sociale. Oggetti che a mio avviso rappresentano il folklore contemporaneo non sono più prodotti da culture artigiane o contadine, ma da operai, cassaintegrati, disoccupati, pensionati, persone come quelle con cui sono entrata in contatto e che fruiscono e rielaborano un consumo di massa ma che restano forse, secondo il modello che ho usato, ovvero quello di Gramsci, un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le visioni del mondo che si sono succedute nella storia: nonostante non siano più autoprodotti, tali oggetti hanno comunque un ruolo di resistenza nei confronti della classe egemonica.
Il tuo ambito di studi è appunto la filosofia. Come sei riuscita ad approcciarti invece a un campo per certi versi piuttosto diverso, come quello antropologico?
Durante la triennale in Filosofia e successivamente in magistrale ho avuto modo di frequentare i corsi di Antropologica culturale di Fabio Dei; inoltre con il professore, alcuni ricercatori e studenti sono nati vari cicli di seminari interdisciplinari che mi hanno dato modo di sviluppare un diverso approccio a entrambe le discipline.
Entriamo più nel vivo della tua tesi. Innanzitutto come ti sei mossa per realizzare le interviste? Da cosa sei partita: dati, teoria, soggettività?
Sono partita dal lavoro sul campo, avevo delle idee su cosa sviluppare, ma prima di costruire una teoria dovevo comprendere ciò che avevo davanti, altrimenti avrei rischiato di schiacciare una teoria preconfezionata sulla realtà circostante. Ho svolto la mia etnografia in Toscana scegliendo persone provenienti da una cultura popolare nel senso più ampio del termine, anche se ho dato priorità a chi abitava in case popolari. La ricerca si è sviluppata tra le province di Pisa, Livorno e Firenze ed è durata circa un anno e mezzo (tra la raccolta delle storie di vita e la lettura scientifica).
Su quali temi e domande principali si sono concentrate le tue interviste? Cosa miravi a fare emergere?
Le interviste seguivano il modello delle storie di vita, erano lunghe chiacchierate, spesso accompagnate da un caffè o un tè, per entrare in intimità con le persone. L’intervista cominciava quando chiedevo da quanto tempo la persona vivesse lì, come era andata; poi partiva il tour della casa e in ogni stanza chiedevo di mostrarmi gli oggetti, sia quelli esposti, sia quelli nascosti in cassetti, in scatole ben custodite… solitamente lì si trovano i veri tesori, quelli dal valore affettivo maggiore: foto, articoli di giornale, tessere dei partiti, bambole, vestiti smessi, disegni, vecchi quaderni o pupazzetti.
Durante un’intervista la persona ripercorreva varie tappe della propria vita, scavando tra gli oggetti e la narrazione che ottenevo era spesso un racconto collettivo, il quartiere, l’attivismo politico, sportivo, racconti di più vite che si intrecciano, questo mi è stato utile per avere un quadro generale sulla cultura popolare contemporanea, per mettere in luce la sua forza plasmatrice, attiva, critica, anche se non so se si può parlare totalmente di folklore progressivo, sono convinta che almeno in parte di sia una cultura popolare che parte dal basso e rielabora in modo critico i prodotti culturali e ne crea di propri, ovviamente non più come nel Novecento, ma questo è ovvio.
Tu hai analizzato profili/contesti/situazioni/realtà socio-economici differenti. Con quali soggettività è stato più difficile entrare in contatto? È stato difficile, a volte, far “aprire” qualcuna delle persone intervistate, dato che hai toccato alcuni argomenti abbastanza delicati e personali?
Non ho trovato fortunatamente persone reticenti nell’aprirsi. Nella fase iniziale prima di fissare un appuntamento per l’intervista ho cercato figure di mediazione che mi introducessero per quanto riguarda le persone che vivevano in situazioni più difficili, amici di amici, un prete a Firenze che gestiva un centro sociale importante per la comunità, parenti lontani o ex colleghi di lavoro; e questo mi ha permesso di essere presentata come persona affidabile o almeno di essere presentata nel loro mondo.
Mi è capitato un paio di volte che durante la narrazione della propria vita le persone scoppiassero a piangere, si commuovessero, si mettessero a nudo e mi donassero una parte della loro intimità. Ammetto che inizialmente non sapevo come pormi, cosa si fa quando la persona davanti a te inizia a piangere per le domande che le stai ponendo? Cosa si dice a una sconosciuta che ti racconta i dettagli più intimi e difficili della sua vita? Personalmente non ho teso una mano, ma ho cercato di ascoltare in silenzio e chiesto se se la sentissero di continuare. Una signora con cui ho parlato a lungo che vive nel quartiere popolare delle Piagge a Firenze, mi ha segnato molto da questo punto di vista.
Alla fine del tuo lavoro come hai fatto a raccogliere, mettere per iscritto e, immagino, “riassumere” tutte le informazioni ottenute?
Ho sbobinato tutte le interviste, parola per parola, poi ho inserito nella tesi le parti inerenti alla creazione del proprio Umwelt o quelle in cui emergeva un elemento di cultura popolare comune a più casi. In un paio di occasioni mentre trascrivevo mi sono accorta che c’erano elementi da approfondire, quindi ho fatto più incontri con la solita persona in modo tale da fare uscire meglio alcune soggettività.
Quale è lo scopo e quali sono le analisi finali che emergono dal tuo studio e dal percorso pratico e teorico affrontato? Perché ritieni importante il lungo e difficile lavoro che hai svolto e secondo te, dato che si tratta di un lavoro che ha un intento e dei contenuti non solo teorici (antropologici e filosofici), ma anche politico e sociale, quali sono gli ambiti maggiori in cui potrebbe applicarsi e risultare utile e prezioso?
Mi piacerebbe pensare che un lavoro di questo tipo possa avere un riscontro anche fuori dal mero ambito accademico, universitario, ma penso altresì che spesso siano più i piccoli enti o alcune associazioni, persino singole persone (come il prete di cui parlavo prima), o anche qualche partito extra-parlamentare, che spesso agiscono dal basso e si prendono cura della comunità e dei contesti più dimenticati e lasciati a se stessi (si pensi alle periferie dove esistono problemi di precarietà economica, sociale, esistenziale e dove si possono anche creare nicchie di intolleranza) muovendosi in più direzioni e in più ambiti, andando a coprire vuoti politici e istituzionali. Penso comunque che un lavoro e una ricerca antropologici e sociologici, e soprattutto vivi, sul campo, pragmatici, in particolare nei contesti e nelle situazioni più fragili, vulnerabili e marginali, sarebbero necessari da parte della politica, intesa a tutti i livelli, sia quelli più alti che quelli più locali, proprio per non abbandonare e lasciare sole quelle realtà.
Che riscontro ha avuto il tuo lavoro in ambito accademico? Di cosa ti stai occupando adesso?
Nella fase finale della tesi, ho pensato di poter allargare il tema della ricerca facendo uno studio etnografico sulla cultura operaia, partendo da un’analisi sulla cultura materiale. Ne ho parlato con il professore e con un gruppo di ex studenti e ricercatori e abbiamo creato un piccolo gruppo di ricerca, purtroppo il Covid-19 ha bloccato per un anno la parte del lavoro sul campo, spero che sia possibile riprendere il prima possibile. Inoltre dall’inizio della pandemia, tramite il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, abbiamo dato inizio a una serie di Seminari, “Contagio e Socialità sospesa”, con l’intenzione di porre uno sguardo critico alla contemporaneità, sempre in un’ottica interdisciplinare.
Immagine: Oreste Carpi, Natura Morta (dettaglio) via Archivio Oreste Carpi/Wikimedia Commons
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.