La tragedia della funivia del Mottarone a Stresa è solo l’ultimo degli episodi luttuosi di cui siamo stati testimoni attraverso il racconto di televisioni e giornali. Poco tempo fa i riflettori avevano illuminato la morte di Luana D’Orazio, l’operaia ventiduenne che ha trovato la morte in una fabbrica pratese appena all’inizio di maggio.
Su quest’ultima vicenda sappiamo tutto, o meglio sappiamo tutto ciò che potremmo anche non sapere: ci è stato detto che la ragazza era giovane (appena 22 anni), che aveva un bambino di cinque anni e che lavorava per garantire un futuro al bambino e a sé stessa insieme con il compagno. Ma guarda un po’, lavorava per la sopravvivenza, credevamo lo facesse per passare il tempo!
Il problema non è che lavorasse per soldi, il dramma è che per lavorare sia morta, che sia morta per soldi: infatti andando ad analizzare il fatto al di là del gossip scopriremmo che l’operaia si trovava a svolgere mansioni che non erano quelle per le quali era stata assunta, quindi che non aveva la formazione per fare ciò che le si richiedeva. Ma c’è di più: la macchina alla quale lavorava era stata manomessa, eliminando i dispositivi di sicurezza. Ahimé, è risaputo che il caso di Prato non è il primo episodio di morte bianca che capita in Italia, e malauguratamente non sarà neanche l’ultimo.
Ma, in aggiunta al fatto in sé, quello che è francamente imbarazzante è il modo di trattare la notizia da parte dei mass media: come accennato in precedenza il pubblico è stato messo dinanzi a particolari privati della vita non solo della lavoratrice, ma anche del figlioletto. Roba da far scomparire la Carta di Treviso: anziché lasciare in pace il ragazzino si è scelto di dargli voce e di raccontare ai quattro venti che gli manca la mamma e che prega nella speranza di poterla riabbracciare. Intanto i particolari messi in evidenza sono di una banalità spaventosa – a quale bimbo di cinque anni non mancherebbe una madre che non è più tornata a casa dopo il lavoro? – ma fanno percepire un fatto degno solo di essere giudicato da chi si sta occupando delle indagini come una fiction televisiva, della quale si aspetta con trepidazione la puntata successiva per scoprire chi sia il colpevole e come finirà la vicenda. Ci manca solo che le persone si riuniscano nei bar appena riaperti per fare ipotesi su quale sarà la condanna.
Stessa sorte è toccata alla tragedia del Mottarone: fin dai primi istanti dopo la catastrofe le TV ed i giornali – soprattutto online a causa della maggior tempestività di aggiornamento e fruizione da parte degli utenti – hanno stilato una lista delle vittime: si sa non solo che erano quattordici, ma se ne conosce anche la provenienza geografica e, immancabilmente, l’età: cosa c’è di più succulento per i fanatici dello scoop di avventarsi sulla morte di un’intera famiglia composta anche da dei bambini. E ancora, come non “leccarsi i baffi” al pensiero di poter lanciare nell’Arena dell’informazione (della mala-informazione), la storia dell’unico superstite, un bimbo di appena cinque anni, che dovrà elaborare il lutto di aver perso l’intera famiglia?
Bisogna riconoscere che il modus operandi è lo stesso per tutti gli eventi luttuosi che vengono raccontati dai media di ogni genere: chi non ricorda le storie più o meno strappalacrime all’indomani del crollo del Ponte Morandi? Anche a Stresa c’erano fidanzati che avevano in programma di sposarsi, neo-laureati colti dalla tragedia mentre festeggiavano l’agognato traguardo del titolo universitario. Addirittura una coppia straniera era giunta in Piemonte per sfuggire alla guerra, ma ha trovato la morte su una qualsiasi funivia italiana.
La comunicazione ha ormai l’urgenza di farsi narrazione, di trasformare ogni privata storia nella “Storia da raccontare”: tutti devono sapere cosa stavano facendo le vittime prima di diventare tali, quante persone lasciano a piangerli, quali sogni non potranno mai più realizzare. I morti devono diventarci persone familiari, conosciute, anche se fino a pochissimi minuti prima non sapevamo nulla della loro esistenza. Perché tutto questo? Forse per stimolare nel pubblico la compassione?
Ma siamo sicuri che la gente abbia bisogno di sapere che una ragazza ventenne morta in una qualsiasi circostanza lasci un bimbo, un marito, dei genitori ed un cane? Siamo certi che questi dettagli ci facciano sentire più partecipi al dolore di chi si è trovato suo malgrado protagonista – o co-protagonista nel caso dei familiari – di un fatto terribile come una morte improvvisa? Se così fosse saremmo proprio irrecuperabili: la morte è morte, sia se il defunto era ancora in cerca di sé stesso sia che conducesse una vita del tutto soddisfacente. Certo, si potrebbe dire che almeno nel secondo caso la persona si sia goduta il suo tempo sulla Terra, ma ogni vita ha lo stesso diritto di essere portata avanti il più possibile.
Soprattutto è stucchevole e irrispettoso l’uso sfrenato dell’infotainment: la notizia deve essere qualcosa da comunicare al pubblico per dargli conto di quanto accade nel mondo, ma non può essere ridotta a narrazione come se si trattasse di un romanzo nel quale il lettore si possa immedesimare.
La notizia dunque si fa sempre più strumento per l’intrattenimento del pubblico, ma non solo: diventa anche materia sulla quale dibattere per arrivare a stabilire da che parte stare: ha ragione X o ha ragione Y? Tizio doveva fare in un modo o era preferibile agire in un’altra maniera? Tutto questo è palpabile quando le notizie arrivano sui social network, dove vengono condivise più e più volte, da persone desiderose di esprimersi sui fatti, naturalmente senza avere le competenze per dare il proprio parere. Intanto perché talvolta non c’è alcuna opinione da dare: i fatti sono quelli e non ci si può fare nulla. Inoltre sempre più spesso è la persona comune che si arroga il diritto di chiacchierare intorno ad una notizia, senza avere alcuna conoscenza dell’argomento di cui sta discutendo, senza che quindi le sue parole aggiungano nulla alla delineazione della vicenda, ma anzi contribuiscano ad alimentare l’equivalenza tra informazione ed intrattenimento di cui si è detto.
La tendenza a stimolare il dibattito su una notizia riportata a mezzo social media è da imputare alla volontà di rendere il contenuto condiviso (e la testata cui esso fa capo) quanto più visibile possibile: infatti i contenuti che ricevono più commenti hanno più visibilità di quelli che “passano sotto silenzio”. Tutto ciò spiega perché spesso la narrazione di un fatto su un social network viene fatta usando un modo di raccontare che spinga il lettore ad esporsi, a commentare, e magari a “scontrarsi” con gli altri utenti per generare un flusso il più possibile duraturo di conversazione.
A questo va naturalmente aggiunto un dettaglio, che ad onor del vero non è colpa di chi fa informazione, ma ha il potere di modificare il comportamento di questi ultimi: il lettore medio non legge l’intera notizia, ma si ferma generalmente al titolo, che quindi ha la responsabilità di orientare l’utenza verso una visione dei fatti anziché un’altra. Quindi utilizzare – nel titolo di un articolo o nel testo di accompagnamento alla condivisione di una notizia – una parola anziché un’altra, oppure mettere insieme due parole, hanno il potere di incidere su come verrà digerita – e appunto commentata – una notizia.
Ci si augurerebbe, anche alla luce delle considerazioni fatte – sicuramente note agli “addetti ai lavori” della comunicazione – un deciso cambio di marcia verso un giornalismo che non cerchi di rendersi interessante per attirare lettori, ma si proponga di raccontare o spiegare alle persone “le cose del mondo”, si tratti di una morte sul lavoro, del crollo di una funivia o – come si è visto negli ultimi mesi – delle caratteristiche di un vaccino.
Immagine di Jon S (dettaglio) da flickr.com
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.