“Un milione di euro è il valore di un appartamento come quello in cui tutti noi abbiamo vissuto”.
Commento (infelice per usare un eufemismo) estrapolato dal commento di un noto editorialista de La Stampa (da questo momento “l’Editorialista”, quasi ad assumerlo come archetipo) alla proposta del segretario del Partito Democratico Enrico Letta di tassare i patrimoni ricevuti in eredità che ammontano ad un valore superiore ad un milione di euro.
Una proposizione che, nella sua illuminante semplicità, ci offre diversi spunti di riflessione.
La prima cosa che ci si domanda è dove vive esattamente questa gente. Cioè, si possono aver interiorizzati determinati principi per i quali solo la realizzazione economica rende l’idea del valore di una persona e, quindi, elevarli ad unici elementi di valutazione per muoversi nelle complesse società contemporanee. Ma addirittura arrivare ad una tale rimozione? Non rendersi conto che la propria condizione soggettiva è di fatto una condizione privilegiata (o quanto meno non diffusa) e che quindi la stragrande maggioranza delle persone vive diversamente?
Io credo che siano due i casi. Prima opzione: l’Editorialista vive in una bolla che riesce ad isolarlo dalla realtà, rendendolo completamente avulso anche semplicemente dalla quotidianità della grande città in cui vive (presupponiamo Roma… Si muoverà per andare a lavoro? Per andare al cinema o in qualche studio televisivo?). Non credo, ovviamente, che occorra sottolineare quanto ciò potrebbe, agli occhi dei più, costituire un problema data la professione del soggetto in questione. Il commentare la realtà presuppone il raccontarla o, almeno, riuscire ad astrarne una fotografia. Ma se questa riproduzione è del tutto erronea non si vede come il lavoro di commento del giornalista possa essere preso sul serio.
Seconda opzione. L’editorialista intendeva esattamente ciò che ha detto e noi siamo straniti perché diamo significati diversi alla parola “noi”. Se per me, che scrivo questo commento, è naturale far rientrare in quel “noi” la società nella sua complessità, forse non lo è per l’Editorialista. Forse lui si riferiva ad un “noi” partitivo, nel quale rientra solo chi soddisfa determinati parametri socio-economici. E questo significa, quindi, che per chi la pensa come l’Editorialista nell’esaminare provvedimenti che, in linea teorica, dovrebbero sostenere lo stato sociale nel nostro paese come la proposta di tassazione delle eredità, il “noi” da tenere conto per valutarne pro e contro non è la società nel suo insieme quanto piuttosto il suo “noi partitivo” di riferimento.
La seconda cosa che ci si chiede (o che almeno io mi sono chiesta) è: ma davvero ci riteniamo tutte e tutti così ricchi? Allargando un attimo la visuale abbiamo modo di vedere che il leit motiv riproposto dall’Editorialista è sempre lo stesso, sviluppatosi anche qualche mese fa in occasione di una vaghissima possibilità che si sviluppasse un serio dibattito parlamentare su una timida proposta di patrimoniale (neanche a dirlo, miseramente fallita). La questione non è tanto se sia sbagliata o meno una proposta del genere (a parte il commento di Draghi e compagnia destra cantante, per i quali non si prendono soldi dai cittadini) quanto piuttosto un susseguirsi di commenti su valori catastali medi di case, chi eredità in media cosa, quanto costa una casa ai Parioli e che cruccio sia invece ritrovarsi in eredità la casa in centro a Milano o il casolare nel Chianti.
Dilaga il terrore di essere toccati da queste possibili manovre, anche tra le persone “normali”. Un terrore tale che ci offusca la capacità di valutazione, impedendoci di renderci conto di quanto sia effettivamente un milione di euro (giusto per dirne una) e che sarebbero misure che non avrebbero effetto sulle tasche della maggior parte delle cittadine e dei cittadini, se non di quelli che si collocano nei percentili più ricchi della popolazione. A questo terrore, si accompagna un’ostilità viscerale verso qualsiasi proposta di redistribuzione in senso sociale della ricchezza. Nonostante da mesi, se non da anni, puntualmente sentiamo e leggiamo di rapporti che ci ricordano come sia aumentato il divario tra la parte più ricca della popolazione e quella più povera e come la ricchezza sia distribuita in modo sempre meno omogeneo (i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri), ogni volta che si prova a discutere di redistribuzione della ricchezza si alzano le barricate, come se fossimo tutti convinti di essere (comunque di avvicinarci) a quella porzione della popolazione che dovrebbe mettere parte della propria ricchezza a beneficio della società (cosa che, mi permetto di far notare, prevede anche la stessa Costituzione quando all’articolo 42 parla di “funzione sociale” della proprietà privata).
Terza questione. L’Editorialista si è fermato a ragionare dell’irricevibilità della proposta di Enrico Letta per quanto riguarda la modalità di acquisizione dei fondi (tassa sulle successioni). Non una parola sulla parte che viene dopo: usare i fondi raccolti per creare una dote ai neodiciottenni. La proposta, elaborata dal Forum Disuguaglianze Diversità di Fabrizio Barca, è quella di dare a chi compie diciotto anni 10.000 euro. Per? Ah beh, a questo sinceramente non saprei rispondere di preciso. Mi sembra di capire che la cosa si configuri come una sorta di risarcimento per lo schifo che stiamo lasciando ai giovani. Ma uno esattamente che ci deve fare con diecimila euro? Tutti creatori di start up innovative? Tutte imprenditrici digitali? Tutti artigiani nel centro storico che uniscono all’innovazione il recupero della tradizione? E soprattutto, per chi volesse intraprendere questa strada, basterebbero?
Perché se dobbiamo contare le condizioni minime di partenza (non contemplo i più fortunati, che non avrebbero difficoltà) abbiamo un mercato del lavoro totalmente refrattario, che anche nel caso riesca ad accogliere i giovani li paga pochissimo (sulla base dei contratti collettivi nazionali approvati eh, senza andare a considerare anche le situazioni di lavoro nero o grigio) e un diritto all’abitare che fa sempre più difficoltà a configurarsi come tale, dal momento che oramai è quasi più facile trovare gente che difenda il diritto alla rendita che quello ad avere un tetto sopra la testa. Questi 10.000 euro, che ad esempio a Firenze ti bastano per pagare l’affitto di una piccola casa giusto un anno, rischiano quindi di configurarsi più come un contentino per il non essere riusciti ad assumersi la responsabilità di una modifica radicale del mercato del lavoro in primis.
I giovani di oggi non hanno bisogno di una dote, che una volta esaurita di lascerà del tutto sguarniti di tutele e strumenti, quanto piuttosto di uscire dal giro di schiaffi fatto di tirocini, stage non retribuiti, collaborazioni occasionali o contratti a termini in cui stanziano fino a 35 anni nel migliore dei casi. Hanno bisogno di contratti di lavoro sicuri e ben pagati, perché non è possibile lavorare a tempo pieno e continuare ad essere povero. Sono queste le condizioni che bloccano il loro futuro, che impediscono loro emanciparsi dal nucleo famigliare. Nel mio immaginario la dote è quel patrimonio di cose e denaro che veniva data alla donna ceduta in matrimonio, ad attestare il suo valore e a compenso per il matrimonio stesso. Questo perché la donna non era previsto lavorasse, si doveva limitare alla cura della casa e dei figli, “pesando” così per il proprio sostentamento sul lavoro del marito. Ecco, i giovani non devono avere una dote: hanno tutti gli strumenti per provvedere al proprio sostentamento e crearsi la propria strada. Serve soltanto che vengano create le condizioni perché lo possano fare.
Immagini da www.pixabay.com
“E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa”
Cit.