Da una prima sbozzata impressione delle elezioni amministrative in Gran Bretagna si può ricavare, come ha evidenziato la vice-leader laburista Angela Rayner[1], che gli elettori hanno premiato i governi in carica. In Scozia il Partito nazionalista manca di poco la maggioranza assoluta del Parlamento, che comunque otterrà grazie all’alleanza con i Verdi, essi pure indipendentisti. In Galles i laburisti, al governo fin dalla creazione dell’autonomia nel 1999, si confermano per la sesta legislatura consecutiva. In Inghilterra, infine, i dati dei consiglieri locali mostrano un chiaro rafforzamento dei conservatori.[2]
Inghilterra e Galles esemplificano l’evidente ruolo del (superamento del)la crisi pandemica nell’orientare il consenso popolare: tanto il governo di Cardiff quanto quello di Londra sembravano dover subire l’assalto di forze di opposizione – rispettivamente il Plaid Cymru e il Labour – pronte a raccogliere una decisa richiesta di cambiamento. I successi della campagna vaccinale e le riaperture delle attività produttive e, in Galles, una gestione della crisi improntata ad empatia, aiuti sociali e prossimità, hanno invece sortito l’effetto opposto.
La sconfitta del Labour però c’è, e non soltanto per il freddo dato numerico, ma per l’eloquente distribuzione di questo dato nella geografia sociale del Regno.
Il simbolo della disfatta è senza dubbio l’elezione suppletiva per la Camera dei Comuni nel collegio di Hartlepool, molo industriale sul Mare del Nord e già seggio di Peter Mandelson, Ministro dell’Industria agli albori del governo Blair ora da tempo elevato alla Camera dei Lord. Laburista dal 1964, il collegio è stato terra di conquista prima per lo UKIP e poi per il Brexit Party, che a dicembre 2019 vi aveva raccolto il suo terzo miglior risultato nazionale.[3] Solitamente quando una suppletiva produce un cambio di partito è perché l’opposizione strappa il seggio al governo. A Hartlepool è accaduto il contrario: nella storia britannica è la seconda volta dal 1982 e la terza dal 1960. L’altra occorrenza recente è stata il caso molto simile di Copeland nel 2017: porto minerario sul Mare d’Irlanda vinto dai laburisti già nel 1910 e tenuto ininterrottamente dal ’35.
Le buone notizie per il Labour, di per sé, non sono mancate. Il partito di Starmer ha strappato ai Tories la guida delle aree metropolitane di Cambridgeshire-Peterborough (nella precedente tornata era stato escluso persino dal ballottaggio, a favore dei liberaldemocratici) e dell’Inghilterra Occidentale, dove ha raddoppiato i propri voti; Andy Burnham è stato rieletto sindaco a Manchester aumentando sia in voti sia in percentuale (67% contro il 19% conservatore); Sadiq Khan è stato confermato a Londra cedendo soltanto 1,5 punti al combattivo avversario Shaun Bailey.
Ma proprio questi risultati non fanno che confermare lo spostamento del partito dalle tradizionali cittadelle portuali e minerarie ai grandi centri metropolitani, e da una classe operaia (in parte ormai in pensione) di inglesi etnici a una nuova coalizione fra giovani e minoranze. Il trade-off non è favorevole: le zone laburiste nell’Inghilterra del Sud aumentano, ma troppo lentamente per compensare la rovinosa frana della ex Muraglia Rossa nel Nord.
Nel 1978 una campagna del Partito Conservatore allora all’opposizione proclamava: «Labour isn’t working» (“il Labour non funziona”, ma anche “la forza lavoro non lavora”, con riferimento alla crescita della disoccupazione). L’impressione odierna è assai simile. Nelle parole dello stesso Starmer, «il Labour ha perso la fiducia dei lavoratori».[4] Il partito ha ormai collezionato quattro sconfitte consecutive per la Camera dei Comuni (come nell’era Thatcher-Major) ed è all’opposizione dal 2010. Quest’ultimo dato non è insolito nella storia britannica, se si considera che prima di allora il Labour aveva avuto il suo più lungo periodo di governo (tredici anni) e che, da quando ha scalzato i liberali come secondo partito nel 1922, ci sono stati 66 anni di governi conservatori[5] e 33 laburisti.
Tuttavia, la storia degli ultimi anni evidenzia non soltanto la consistenza minoritaria del consenso laburista, ma il radicale cambiamento della sua stessa composizione. Vale quindi la pena ripercorrere il decennio trascorso per giungere alla comprensione della situazione attuale.
2010-2015: ritorno all’opposizione e riforme interne
Dopo la sconfitta elettorale e le dimissioni di Gordon Brown nel 2010 il favorito per la leadership sembrava il Ministro degli Esteri uscente David Miliband, in continuità con la fisionomia del New Labour. All’epoca la procedura di selezione prevedeva tre elettorati separati, ciascuno dei quali contava per un terzo nel determinare il risultato ultimo: i deputati alla Camera dei Comuni e al Parlamento Europeo; gli iscritti al Partito; gli “affiliati” al Partito, ovvero gli iscritti a enti affiliati: società e soprattutto sindacati.
Nella sfida finale con il fratello Ed, David Miliband ottenne il 53% fra i deputati, il 54% fra gli iscritti, ma soltanto il 40% fra gli affiliati, fermandosi quindi al 49% generale. Nella vittoria di Ed Miliband fu determinante il peso delle grandi centrali sindacali: Unite (trasporti, edilizia, industria), Unison (servizi pubblici), GMB (commercio, industria, servizi pubblici).
La politica di Ed Miliband sembrò dispiegarsi su due direttrici: la cosiddetta soft left, intermedia tra il New Labour e il Socialist Campaign Group, e l’intenzione di ristrutturare il partito per adeguarlo alle nuove forze sociali emergenti. Fra i suoi sostenitori nella corsa alla leadership avevano figurato il browniano Hilary Benn; il veterano Frank Field, voce della classe operaia tradizionalista; Lisa Nandy, che nel 2020 si sarebbe candidata leader su posizioni vicine al Blue Labour; Owen Smith, che avrebbe sfidato Corbyn nel 2016.
Nonostante il determinante appoggio sindacale, tuttavia, Miliband decise, anche sull’onda di alcuni scandali interni al partito, di compiere la trasformazione definitiva del Labour da braccio politico dei sindacati a partito di iscritti.[6] Questo obiettivo fu perseguito tramite tre riforme interne: l’abolizione degli elettorati separati e la loro sostituzione con il principio “una testa, un voto”; la necessità di un consenso esplicito da parte degli iscritti ai sindacati per essere considerati affiliati al (e finanziatori del) partito laburista; la limitazione ai soli iscritti al partito del diritto di voto nella selezione delle candidature locali.
Le caratteristiche dell’elettorato laburista alle elezioni di maggio 2015[7] mostravano già alcuni segnali di ristrutturazione. La variabile maggiormente indicativa del voto al Labour risultava l’età, in un netto contrasto con le precedenti consultazioni. Nel 2010 il consenso al partito era stato sostanzialmente omogeneo in tutte le fasce anagrafiche[8], mentre nel 2015 decresceva dal 43% fra gli under 25 al 23% degli ultrasessantacinquenni. Questo smottamento premiava solo in minoranza il Partito Conservatore; la gran parte del voto in uscita andava infatti allo UKIP di Nigel Farage, che raggiungeva i suoi picchi fra gli uomini anziani delle classi deboli, in particolare se inquilini di case popolari (la condizione abitativa è uno dei più forti indicatori di status sociale in Gran Bretagna).
Tuttavia, la disaggregazione del voto per la sola classe sociale mostrava una tenuta dei laburisti, se non addirittura un recupero tra gli operai qualificati, mentre nella media e medio-alta borghesia si osservava una marcata ripresa dei Tories a spese dei liberaldemocratici. Per questa ragione l’insuccesso elettorale del Labour fu attribuito all’epoca a un’immagine eccessivamente sbilanciata a sinistra, incapace di attrarre quei lavoratori desiderosi di elevare il proprio status sociale – questa fu la lettura, ad esempio, di Alan Johnson, deputato per un collegio della Muraglia Rossa, già importante leader sindacale e poi Ministro del Lavoro con Blair.[9]
La strada scelta dai sindacati andava invece nella direzione opposta. Len McCluskey, il potente capo di Unite già grande elettore di Ed Miliband, essendosi scontrato con questi sulla rottura del legame tra sindacati e partito aveva minacciato, in caso di sconfitta elettorale, di disaffiliare Unite dal Labour e fondare un nuovo partito dei lavoratori. Nonostante non avesse poi dato corso a questo proposito, McCluskey coltivò un rapporto stretto con i nazionalisti scozzesi, elogiandone la carica anti-austerity[10] a suo parere superiore a quella laburista, e sostenne con decisione la candidatura di Jeremy Corbyn fino a sconfessare apertamente il sostegno di alcuni dirigenti sindacali al rivale Burnham[11], che ereditava in buona parte il sostegno dei gruppi pro-Miliband (significativamente, però, il tradizionalista Field si schierò per Corbyn).
2015-2019: Corbyn «con vece assidua / cadde, risorse e giacque»
La scelta del nuovo leader fu la prima con le nuove regole varate da Miliband, che sul modello del PD italiano prevedevano anche la possibilità di voto da parte di non-iscritti registratisi dietro contributo di 3 sterline. Corbyn si fermò di poco sotto il 50% fra gli iscritti al partito, ma ottenne il 58% fra gli affiliati e l’84% fra i registrati.
Il periodo di Corbyn alla guida del Labour è stato caratterizzato da livelli molto aspri di scontro interno, che sono esplosi pubblicamente nella forma più acuta dopo la vittoria del Leave al referendum di giugno 2016. Sfiduciato di fatto dal governo ombra e di diritto dal gruppo parlamentare, Corbyn si ricandidò e vinse la nuova sfida contro l’avversario Owen Smith. In aggregato il suo risultato fu prossimo a quello del 2015 (62% rispetto al precedente 59%), ma presentava una netta crescita fra gli iscritti (59%) e un ancor più pronunciato calo fra gli elettori registrati (70%), segnale che almeno una parte degli oppositori di Corbyn si era spostata al di fuori del partito.
Le elezioni 2017, iniziate con un vantaggio conservatore di ventidue punti e chiuse dal Labour a -2, furono salutate come un successo per la radicale agenda di giustizia sociale perorata dai corbynisti. La realtà sarebbe forse riuscita a questi commentatori un po’ più sgradita.[12]
Il Labour ottenne il massimo storico fra dirigenti, professionisti e impiegati, mentre i Conservatori raggiungevano lo stesso primato tra lavoratori manuali e disoccupati; polarizzazione che si abbinava a quella nel livello d’istruzione, con i laburisti che vincevano tra i laureati perdendo per analogo margine nel resto della popolazione. Infine, l’età mostrò un ulteriore rafforzamento delle tendenze del 2015: il vantaggio del Labour sui Tories crebbe da +16 a +35 punti fra gli under 25, ma scese da -24 a -36 nel gruppo più anziano.[13]
Se si combina questa configurazione dell’elettorato con quella di due anni addietro, ne risulta che tra il 2010 e il 2017 una fetta rilevante degli ultracinquantenni della classe operaia si era spostata da sinistra a destra; perdita che veniva rimpolpata dall’afflusso di giovani neo-elettori appartenenti ai ceti medi e superiori.
In altri termini, l’elettorato tradizionale del partito stava sparendo proprio sotto la leadership di chi lo rivendicava come base naturale per la vittoria.
Tutte queste tendenze si sono soltanto rafforzate alle elezioni di dicembre 2019. Per quanto riguarda le classi sociali il calo del Labour è stato omogeneo nei vari gruppi, ma, poiché i conservatori hanno ulteriormente recuperato negli strati inferiori e continuato a perdere verso i liberaldemocratici nei ceti alti, il riequilibrio si è pressoché interamente compiuto. Ad oggi in Gran Bretagna la classe sociale non può più essere definita un predittore del voto politico. Opposto, invece, il panorama per le fasce di età: il differenziale Labour/Tories è aumentato ancora da +35 a +43 fra i giovanissimi e sceso da -36 a -47 fra i più anziani. Quanto al titolo di studio, per i laburisti vi è stata una doppia sofferenza: hanno ulteriormente ceduto alla destra fra i meno istruiti, ma hanno anche perso laureati in direzione dei liberaldemocratici. Uno dei principali fattori nella grave sconfitta del Labour, in effetti, sembra essere stata l’incapacità del fronte europeista di rispondere al consolidamento del fronte anti-UE. Non solo la fuga dei leavers laburisti è stata superiore all’esodo dei remainers conservatori, ma mentre i primi hanno votato soprattutto per il diretto avversario, dirigendosi solo in minoranza sul Brexit Party, i secondi hanno converso in prevalenza sui Lib-Dems, per giunta destinatari, come visto, anche di un’emorragia dal Labour.
Una difficile ricostruzione
Questa disfatta ha portato il Labour al gruppo parlamentare più ristretto dal 1935, con alcune vere e proprie umiliazioni: la perdita dopo centouno anni del collegio di Rother Valley, teatro della battaglia di Orgreave durante lo sciopero minerario del 1984-85, o la sconfitta dopo quarantanove anni di Dennis Skinner, entrato in miniera nel 1949, nel collegio di Bolsover.
Nell’analisi corbyniana della sconfitta la sinistra avrebbe in realtà vinto la battaglia delle idee: gli elettori sarebbero, su temi come la sanità e la giustizia sociale, schierati a maggioranza per il programma del Labour. Avrebbero tuttavia votato a destra perché il tema della Brexit ha monopolizzato la consultazione.[14] Certamente la Brexit ha posto il Labour sulla difensiva, sia perché il campo del Remain faceva riferimento non ad uno solo, ma ad una pluralità di partiti, sia perché l’elettorato laburista in particolare era il più spaccato sulla questione. Proprio per questo, però, risulta insufficiente un’analisi che non valuti criticamente prima l’opposizione di Corbyn a un governo di coalizione del Remain, se non guidato da lui, e poi la concessione a Johnson dello scioglimento della Camera. Inoltre, le perdite nell’elettorato tradizionale sono state dovute non soltanto alla Brexit, ma anche alla diffidenza verso le politiche economiche socialiste[15] e l’internazionalismo in politica estera.[16]
Dopo la sconfitta i sindacati si sono presentati divisi per l’elezione del successore: McCluskey ha confermato l’indicazione per la corbyniana Rebecca Long-Bailey, mentre Unison ha sostenuto Starmer e la GMB, che già nel 2016 si era schierata con Smith, ha appoggiato Lisa Nandy.
Starmer ha prevalso senza difficoltà, ottenendo il 56% (con una punta del 77% fra gli elettori registrati) anche grazie all’accordo de facto con la soft left sull’elezione della vice-leader Angela Rayner.
A giugno 2020, complici le traversie politiche e personali di Boris Johnson in tema di Covid-19, Starmer risultava il leader dell’opposizione più apprezzato dai tempi di Blair nel 1994.[17] A distanza di meno di un anno, i giudizi negativi sono meno della metà di quelli positivi.[18] Su questo calo pesano il poco carisma personale, la percezione di un Labour sempre più londinese (sia l’attuale leader sia Corbyn sono deputati per collegi della capitale), ma, soprattutto, l’incapacità di fornire un’immagine affidabile del partito. Il fatto che molti elettori di zone disagiate e periferiche considerino establishment l’opposizione e anti-establishment un partito al potere da undici anni e guidato da un deputato londinese diplomato a Eton, laureato a Oxford e che si vantava di conoscere il prezzo dello champagne ma non quello del pane[19] si spiega in prevalenza con la costrizione dei laburisti sulla difensiva strategica.
La soluzione per risollevare le sorti del Labour sembra, nelle intenzioni di Starmer, quella di decentralizzare i luoghi decisionali del partito e di conferire maggiore potere alle periferie. «Towns», le ex città industriali, erano state il focus della campagna di Lisa Nandy, deputata per Wigan, che grazie anche all’indagine di George Orwell (1937) «La strada di Wigan Pier» (il “pontile di Wigan”, sul canale tra Leeds e Liverpool) è assurta a simbolo delle zone operaie disagiate. La decentralizzazione è stata inoltre fin dall’inizio uno dei temi del Blue Labour, l’associazione che dal 2009 propone un socialismo «sia radicale sia conservatore […] una sfida al consensus liberale dell’ordine capitalista, ma [che] non appartiene alla sinistra rivoluzionaria, bensì è erede della tradizione del lavoro».[20]
Se possa essere Starmer a rappresentare questo radicalismo dal volto moderato la cui necessità sembra essere condivisa dalle diverse ali del partito (ad eccezione dei corbynisti duri) è però motivo di dubbio. Se il linguaggio adoperato richiama uno dei migliori slogan dello Smith del 2016 – «il programma più radicale dal 1945», cioè una politica sia socialista sia radicata nella tradizione nazionale della classe operaia britannica – il portabandiera più appropriato sembra invece oggi proprio il sindaco di Manchester, Burnham. Dopo l’elezione di Corbyn nel 2015 lui, ex sfidante, servì nel governo ombra come titolare degli Interni e non partecipò al putsch del 2016. Spostatosi ad amministrare Manchester, si è guadagnato la reputazione di popolare uomo di governo. Nelle prime considerazioni rilasciate dopo la recente tornata amministrativa che lo ha visto trionfalmente rieletto ha dichiarato di restare convinto che, se avesse battuto Corbyn nel 2015, la Muraglia Rossa non sarebbe caduta e il Labour sarebbe stato molto più efficace nel contrastare il governo.[21] Un messaggio evidentemente rivolto a Starmer e forse la risposta a un amo lanciato da Angela Rayner, vice-leader che immediatamente dopo la sconfitta è stata sollevata, per mano dello stesso Starmer, dalle responsabilità propagandistiche e di campagna elettorale.
In un commento pubblicato sul Guardian la Rayner aveva infatti invitato il partito a riprendere più decisamente un’identità di vicinanza alla classe lavoratrice, indicando due esempi positivi delle elezioni locali: le riconferme, in Galles, del governo di Mark Drakeford, che «ha implementato politiche che trasformeranno la vita delle persone – un aumento salariale per gli operatori sanitari e una garanzia di lavoro, istruzione o formazione per tutti gli under 25», e, a Manchester, di Burnham, che «ha mostrato la differenza del Labour al governo: ha creato un rapporto con la gente e ha mostrato di essere al loro fianco».[22]
Un ultimo tema che certamente non ha facilitato il Labour né nel 2019 né nel 2021 è la disunione del partito. Dalle aperte, dure critiche a Corbyn durante tutto il suo mandato fino al recente scontro sull’antisemitismo che è costato all’ex leader la sospensione dal gruppo parlamentare, i laburisti hanno dato l’impressione (ahinoi veritiera) di essere avvitati in lotte intestine di cui non si intravede la fine. Poiché il risultato di Drakeford è stato elogiato anche da Corbyn, di cui il leader gallese condivide lo schieramento apertamente socialista, la sua menzione in accostamento con Burnham non è forse stata meramente formale.
https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/may/10/voters-labour-angela-rayner ↑
https://www.bbc.com/news/topics/c481drqqzv7t/england-local-elections-2021 ↑
Considerando tali anche i governi del 1931-35 guidati dal Partito Laburista Nazionale in alleanza con i Conservatori, con il Labour all’opposizione. ↑
J. Vannucchi, «Labour Party e trade unions», in Il Becco, anno 2 n. 6, 25 giugno 2015. ↑
https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/how-britain-voted-2015 ↑
https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/how-britain-voted-2010 ↑
https://www.theguardian.com/politics/2015/may/09/alan-johnson-labour-aspirational-voters-tony-blair ↑
https://www.theguardian.com/politics/2015/apr/27/len-mccluskey-says-prime-minister-ed-miliband-would-work-with-snp ↑
https://www.theguardian.com/politics/2015/aug/20/unite-boss-reiterates-support-for-corbyn-after-union-officials-back-burnham ↑
https://archivio.ilbecco.it/politica/sinistre/item/4525-il-partito-democratico-e-la-sinistra-italiana-una-lettura-di-fase.html ↑
https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/how-britain-voted-2017-election ↑
https://www.mirror.co.uk/news/politics/jeremy-corbyn-sorry-election-disaster-21099506 ↑
https://yougov.co.uk/topics/politics/articles-reports/2019/12/23/their-own-words-why-voters-abandoned-labour ↑
https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/starmer-achieves-best-satisfaction-ratings-leader-opposition-blair ↑
https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/starmers-ratings-fall-just-one-five-britons-favourable-towards-labour-leader ↑
https://www.theguardian.com/politics/2021/may/15/andy-burnham-labours-red-wall-seats-would-have-been-safer-under-me ↑
https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/may/10/voters-labour-angela-rayner ↑
Immagine da www.flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.