Nelle scorse settimane due affermazioni hanno agitato la discussione intorno alla politica estera italiana. L’8 aprile il presidente del Consiglio Draghi ha reso in conferenza stampa le note asserzioni intorno al Presidente turco Erdoğan, a seguito dell’affaire de la chaise nel summit euro-turco di Ankara. Il 13 aprile invece è stato divulgato dalla stampa un estrapolato del manifesto della nuova corrente PD costituita da Goffredo Bettini, nel quale si afferma che il secondo governo Conte è caduto «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile».[1]
Trump e Conte: simul stabunt…
Partendo dall’affermazione di Bettini, e limitandoci per la nostra analisi all’aspetto internazionale della questione, non è difficile intravedere nella caduta di Conte ombre di politica estera. L’Avvocato del Popolo (anche nella versione Bis) aveva infatti un lampante, plateale rapporto con l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. I principali tornanti pubblici di tale relazione, visibili quindi al grande pubblico e capaci di orientare consensi e convinzioni politiche della popolazione, sono stati i seguenti:
1. 30 luglio 2018. Giuseppe Conte è in visita ufficiale a Washington e durante la conferenza stampa bilaterale alla Casa Bianca afferma: «Dal 1° giugno c’è un ulteriore elemento che lega e avvicina Stati Uniti e Italia. Il mio governo e l’amministrazione Trump sono entrambi governi del cambiamento, scelti dai cittadini per cambiare lo status quo e apportare un miglioramento alle loro condizioni di vita. [Seguiva concione sul mandato popolare ricevuto.]»[2]
2. 26 settembre 2018. Parlando all’Assemblea Generale dell’ONU a New York, Conte rivendica esplicitamente il carattere sovranista e populista del suo governo, affermando che i termini “sovranità” e “popolo” compaiono nell’articolo 1 della Costituzione italiana.[3]
3. 26 agosto 2019. Nel corso della crisi del primo governo Conte, e delle trattative fra M5S e PD per la formazione del secondo governo, Trump si pronuncia pubblicamente in favore della continuità alla Presidenza del Consiglio italiana.[4]
Siamo, come si vede, al di là di una mera vicinanza particolare di un uomo politico italiano alle istituzioni governative degli Stati Uniti. Qui il legame è genuinamente politico e riguarda non esponenti istituzionali, ma uomini politici, dotati di un’agenda politica e programmatica comune e da essa accomunati.
La vicinanza agli Stati Uniti in quanto tali viene semmai espressa, nel MoVimento 5 Stelle, da Luigi Di Maio. Nonostante il non invidiabile curriculum, il trentenne di belle speranze fu invitato come relatore alla prestigiosa università di Harvard già nel 2017[5] e, postosi alla guida del Ministero degli Esteri nell’era Trump, è riuscito a confermarvisi nell’era Biden. Un M5S che comunque restava assai riconoscente (debitore?) a Trump per le manifeste compatibilità reciproche e i loro fruttuosi riflessi nella politica italiana a partire da novembre 2016 – fatto certo non ignoto al PD, se appena dopo l’ufficialità della vittoria di Biden Zingaretti si affrettò a congratularvisi, nell’intento di diluire l’impronta trumpiana sul governo Conte II.[6]
Appare evidente come l’inappellabile ostracismo ricaduto su Trump a seguito dell’assalto al Campidoglio (6 gennaio) dovesse necessariamente riversarsi sui personaggi che, per opportunismo o per convinzione (ma poi in questo caso sono davvero scindibili?), vi si erano impudicamente associati negli anni del suo potere. La scelta del Partito Democratico di dissanguarsi politicamente per tenere in piedi un governo simile toccò, in mezzo a tante scelte invereconde, una punta di tenerezza nella supplica a Conte di fare atto di adesione all’agenda Biden nella sua replica alla Camera dei Deputati, dopo aver bellamente ignorato il tema durante le comunicazioni.[7]
A distanza di due mesi il PD ha però respinto con risolutezza l’ipotesi che nella caduta di “Giuseppi” abbiano avuto influenza predilezioni internazionali. Una risolutezza assai sbrigativa, forse troppo, visto che in alcuni accenti ha contraddetto la sperticata difesa che il partito ha fatto di Conte durante la crisi governativa.[8]
La diplomazia di Draghi in Europa
Quanto alle affermazioni di Draghi in merito all’incidente della sedia, i media hanno veicolato prevalentemente il giudizio su Erdoğan, collocato nel cesto dei «dittatori, di cui però si ha bisogno» per cooperare nell’interesse del proprio Paese. Le reazioni sono state diverse, dalla discussione sulla correttezza scientifica del termine “dittatore” alla liceità politico-etica degli “interessi” tutelati dal rapporto con la Turchia.
Si è però teso a lasciare in ombra il punto più importante, nella dichiarazione di Draghi, non per le relazioni italo-turche, bensì per noi europei: «mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente della Commissione von der Leyen ha dovuto subire».[9] La frase, formulata in questi termini, più che un attestato di solidarietà è evidentemente un’accusa di pavidità e una testimonianza del carattere imbelle di istituzioni europee tanto prive di vigoria da farsi appunto umiliare e da non poter enucleare quella necessaria «franchezza» che fonda appunto la capacità di cooperare fra diversi nel proprio interesse. Non casualmente, immediatamente dopo aver reso queste considerazioni Draghi ha ricordato di aver posto, nel corso della propria visita in Libia, l’obiettivo del rispetto dei diritti umani e del superamento dei centri di detenzione. La scelta dello scenario libico come teatro di espressione di una forma appropriata di relazioni internazionali aveva un significato non trascurabile, visto che proprio lì vi è una rivalità italo-turca per l’esercizio di un’influenza e proprio nella decennale crisi libica si è manifestata l’impotenza dell’Unione Europea così maliziosamente sferzata da Draghi.
Questo intreccio fra Libia e Turchia è stato difatti colto dal commento del New York Times, il quale ha inoltre rilevato che il vero intento di Draghi è quello di porsi alla guida, tramite l’Italia, dell’Unione Europea stessa.[10]
La visita di Draghi a Tripoli è stata per altro verso interpretata, a sinistra, come il passo compiuto da un governatore coloniale per conto della madrepatria atlantica.[11] Il ruolo dell’Italia in questa lettura sarebbe unicamente quello di contrastare l’influenza russa in Libia, per conto e nell’interesse degli Stati Uniti. La netta affermazione compiuta da Draghi nella presentazione del Governo alle Camere – «questo Governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia»[12] – fu letta in particolare come la liquidazione della politica verso la Cina affermatasi nei due governi Conte su impulso soprattutto di una parte del M5S, un “partito cinese”[13] probabilmente incarnato soprattutto dal gruppo formatosi attorno al deputato Cabras, animatore della scissione parlamentare de «L’alternativa c’è» a seguito del cambio di governo in febbraio.
In realtà la scelta del doppio binario atlantico-europeo, condensabile nella formula “più UE, più NATO”[14], può benissimo essere sostenuta anche da sinistra proprio nell’ottica di un superamento della NATO e della costruzione di un’autonomia strategica europea.
Per comprendere in quale modo, tuttavia, è necessario fare un passo indietro.
L’eredità di Berlinguer in politica internazionale
Chi scrive è sufficientemente maturo da aver militato nei Democratici di Sinistra sostenendo le posizioni della sinistra interna e, poi, seguendo quella piccola minoranza («Dì Sinistra») che nel 2007 scelse di non abbandonare i DS e partecipare al processo di costruzione del PD.
Nella mozione per l’ultimo Congresso DS «A sinistra per il socialismo europeo» erano contenute lucide intuizioni riguardo il futuro ecologico del pianeta, le relazioni internazionali, l’assetto economico e politico della globalizzazione – seppure presentate in una distorsione causata dal dibattito circa l’opportunità o meno di far nascere il PD. Riguardo la parte di politica internazionale qui di interesse si poteva leggere: «L’Italia è in un rapporto di alleanza con gli Stati Uniti. […] L’alleanza non preclude un giudizio chiaro sull’attuale politica dell’amministrazione USA: unilateralismo, negazione del diritto internazionale, la guerra infinita al nemico di volta in volta indicato. […] È indispensabile rilanciare il progetto di una Costituzione europea. L’Europa deve infatti avere istituzioni democratiche, rinnovate ed efficienti […] È questo il passaggio storico che il socialismo europeo ha di fronte, per mantenere, nell’era della globalizzazione, l’impegno di emancipazione e libertà che la sinistra ha svolto nell’epoca in cui l’economia e la finanza potevano essere regolate su base nazionale».[15]
Considerazioni analoghe erano contenute, il 18 luglio 2007, nel documento politico della componente «Dì Sinistra», che individuava nell’Unione Europea l’ambito sovranazionale cui cedere sovranità e applicare pratiche di rappresentanza democratica così da fronteggiare i crescenti e sregolati poteri economico-finanziari multinazionali.[16]
Vale la pena notare che l’epoca di simili considerazioni era ancora precedente alla ristrutturazione globale della Grande Recessione e all’ascesa dei nuovi colossi digitali.
Erano considerazioni che infatti non nascevano dal nulla, bensì affondavano le proprie radici nella peculiare elaborazione di politica internazionale sviluppata dal PCI soprattutto dopo la Conferenza di Helsinki del 1975: sfruttare gli accordi della distensione per affrontare il problema che Berlinguer pose nei seguenti termini a Brežnev nel 1978: «nel momento in cui si acuisce la crisi del capitalismo e cresce il bisogno di socialismo non c’è, purtroppo, una grande forza di attrazione dell’ideale socialista. Questo ci deve preoccupare».[17]
Nella visione di Berlinguer la tesi politica che avrebbe potuto far avanzare la causa rivoluzionaria in Occidente era quanto i giornali dell’epoca definirono «eurocomunismo», ossia una terza via fra la socialdemocrazia occidentale e il marxismo sovietico, ambedue culture che a giudizio del PCI mostravano l’incapacità di rispondere adeguatamente alla crisi capitalistica. Questo giudizio non implicava comunque una perfetta equidistanza, in quanto il PCI si poneva come una forza estranea al campo socialdemocratico – donde anzi potevano ancora provenire, come negli anni Trenta, pericolose fonti di divisione del movimento operaio[18] – e percepiva l’importanza del proprio ruolo anche come stimolo di una riforma dall’alto nei Paesi europei a regime socialista.[19]
Tale concezione, in effetti, appare esattamente speculare a quella di Kissinger, secondo il quale certamente i partiti comunisti occidentali potevano essere realmente autonomi da Mosca, ma ciò non rilevava in alcun caso riguardo la necessità tassativa di escluderli dal governo: la stessa presenza di partiti a ideologia comunista nei governi occidentali avrebbe infatti potuto innescare effetti valanga deleteri per la NATO.[20] Proprio per questo, e per la preoccupazione di una rinnovata pressione coercitiva statunitense sull’Europa capitalista in risposta alla caduta dei regimi fascisti in Portogallo e in Grecia nel 1974, l’elaborazione del PCI si mosse su due linee parallele: «un’Europa né antisovietica né antiamericana», poi aggettivata come «Europa occidentale» per venire incontro alle richieste sovietiche, e la conferma che la prospettiva di superamento della divisione dell’Europa in blocchi, da attuarsi tramite la distensione, era incompatibile con uscite unilaterali dai blocchi da parte di singoli Paesi.[21]
Il riconoscimento da parte del PCI del vincolo atlantico diventava cioè la chiave per poter svolgere a livello internazionale un ruolo di ponte fra Est e Ovest e per poter giungere a responsabilità di governo in Italia. Questa duplice legittimazione avrebbe a sua volta servito a conseguire due successivi obiettivi: la costruzione, in un’Europa occidentale destabilizzata dalla crisi del capitalismo, di un’egemonia (euro)comunista sulla sinistra e sul movimento operaio, e l’attuazione nei Paesi del blocco socialista di riforme della vita economica, sociale, democratica.
L’europeismo (post-)comunista ieri
In una lucidissima analisi dell’agosto 1974 Franco Rodano osservò che l’Europa si trovava davanti a un bivio: ridursi «sempre più a mera marca di frontiera dell’Impero americano» e a campo di battaglia tra due superpotenze, oppure prendere la forma di una terza potenza autonoma. La prima opzione era la più probabile, a giudizio di Rodano, non solo per le correnti opportuniste annidate nel movimento operaio, ma anche perché la tutela della democrazia in Europa occidentale dopo il 1945 era stata dovuta in parte alla «funzione di supplenza» esercitata da una prosperità economica che non era il prodotto di una autonoma capacità europea.[22] Questa rassegna si inquadrava in una prospettiva chiaramente comunista e chiaramente di maggior vicinanza, se non altro in termini di direzione storica, verso l’URSS.
La contraddizione fra la prospettiva terzaforzista europeista e il legame con il blocco sovietico portò, in assenza di una condivisione dell’eurocomunismo nei partiti comunisti occidentali, al duplice isolamento del PCI proprio come esito paradossale della sua politica “pontiera” fra Est e Ovest. Nelle parole del prof. Silvio Pons, «i socialdemocratici tedeschi [occidentali] e svedesi erano interlocutori politici, ma non alleati del PCI, mentre i comunisti francesi erano alleati, ma non interlocutori politici».[23] Nel momento in cui anche il legame con l’URSS scese al minimo storico – dopo l’intervento in Afghanistan e la proclamazione della legge marziale in Polonia, e col riconoscimento da parte del PCI di uno squilibrio missilistico a favore dell’URSS in Europa – i comunisti italiani invocarono una «specifica politica europea» e una «lealtà non incondizionata verso le alleanze di blocco».[24]
Al tempo stesso, tuttavia, questo netto schieramento europeista da parte di una forza comunista sostanzialmente isolata ebbe come conseguenza che «il tema della sovranazionalità assunse per i comunisti italiani la coloritura di un’ideologia»[25], mentre la ricerca del mantenimento dell’identità comunista tramite il rapporto con altre forze “terze” fra i non allineati fece nascere secondo Pons «un antiamericanismo su base morale piuttosto che su base di classe»[26], che «integrava l’appello morale lanciato nella politica interna contribuendo a indicare un sistema di valori piuttosto che un’autentica prospettiva politica».[27]
Un’Europa indipendente e unita, tanto vagheggiata su basi morali e ancora irrealizzata da comportare per il PCI, secondo una recente analisi di Andrea Romano, la «rimozione dell’interesse nazionale dalla discussione pubblica» come «punto qualificante della sua idea d’Europa».[28]
Questi elementi trasformativi nel PCI degli anni Ottanta possono essere sommariamente riconosciuti anche nei partiti che genealogicamente gli sono succeduti. Tuttavia, pure con tutte le problematiche che tali orientamenti hanno suscitato in termini di consenso nazionale e di rispondenza a un criterio di classe nella direzione dello sviluppo storico, essi hanno consentito la sopravvivenza di un principio europeista lontano dagli opportunismi nazionali peraltro sempre più insufficienti a fronteggiare il crescente strapotere del grande capitale.
Un europeismo di sinistra oggi
Il punto è che proprio oggi, con lo shock economico susseguente alla pandemia di Covid-19, si presenta l’occasione per realizzare quell’Europa unita e indipendente che quasi mezzo secolo fa i comunisti italiani già vedevano come la ultima e razionale conseguenza della distensione e della fine della guerra fredda.
I termini in cui il problema si pone sono oggi naturalmente diversi: la potenza sovietica non esiste più, il bipolarismo è stato sostituito prima dalle velleità unilateraliste statunitensi e ora, probabilmente, da un nuovo multi(oligo-?)-lateralismo. Al tempo stesso proprio l’unificazione capitalista dell’Europa ha superato, sia pure sui generis, la divisione del continente in due pezzi.
Due direttrici però non sono mutate: la necessità di una fase di transizione comprendente l’appartenenza all’alleanza atlantica; il superamento delle carenze democratiche del progetto comunitario. Il primo punto avrebbe potuto essere superato da un’energica iniziativa europea nei confronti della Presidenza Trump, iniziativa in parte avanzata dalla Francia ma a cui è colpevolmente mancato il sostegno dei partner. La politica estera di Draghi, intesa non soltanto nel suo esercizio quotidiano ma nei fini ultimi che si propone di realizzare, può ben inserirsi nel solco di origine berlingueriana.
La stessa scelta del Consiglio dei Ministri del ritorno alla zona gialla dal 26 aprile, lungi dall’essere banalmente un cedimento alla Lega o al più una mediazione fra le due ali della maggioranza, costituisce in realtà la presa d’atto che non è possibile contenere la pandemia – a livelli di contenimento, per esempio, di quelli cinesi o vietnamiti – in un Paese a regime capitalista. Farlo provocherebbe infatti, secondo l’analisi di Draghi e Gabrielli, tensioni sociali che renderebbero critica la gestione dell’ordine democratico.
Proprio perché si è costretti a giocare su questo terreno – e probabilmente neppure Enrico Rossi crede alla possibilità di una rivoluzione socialista – diventa centrale la lotta per l’irrobustimento della pianificazione economica europea, sulla quale pare sia intenzione di Draghi concentrarsi a fronte di un indebolimento contingente dei governi francese e tedesco e di una auspicata forte ripresa economica italiana.[29]
Se si leggono i diffusi commenti ufficiali di Mario Draghi – tutti in epoca pre-Covid! – in merito alla necessità di costituire un’unica politica di bilancio europea, nonché di comparatistica fra la risposta degli Stati Uniti e quella dell’Unione Europea alla Grande Recessione, facilmente se ne conclude che il capo del governo italiano concorda con le sempre più diffuse opinioni che l’importo e l’impatto del Recovery Fund siano terribilmente insufficienti alle necessità della ricostruzione industriale e occupazionale. Specialmente se vengono confrontati con le misure invece adottate dagli Stati Uniti.[30]
La sinistra italiana può scegliere di affermare che, trattandosi di una ricostruzione industriale di impronta capitalista, non vi si deve prendere parte – anzi, per buona misura bisogna contrastarla. Oppure può scegliere un’affermazione opposta, quella dell’assuefazione acritica a una costruzione tecnocratica del nuovo ordine.
Sarebbe in realtà preferibile una terza opzione: quella di operare per lo sviluppo di un’organizzazione che, pur restando capitalista nelle sue basi, presenti tratti di programmazione sociale tali da abbattere gli straordinari squilibri generati negli ultimi decenni e che hanno condotto il mondo occidentale a una diffusa pauperizzazione. Proprio aiutati da questo nuovo potere economico gli europei potrebbero quindi costituire quella forza indipendente in cui l’obiettivo del «nuovo socialismo»[31] richiesto dalla Sinistra DS quindici anni fa possa diventare una strada praticabile e non una pittoresca espressione da convegno.
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https://www.ilfoglio.it/politica/2021/04/13/news/conte-per-bettini-e-stato-vittima-di-un-golpe-e-caduto-per-interessi-internazionali–2186530/ ↑
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https://www.thetrumparchive.com/?dates=%5B%222019-08-26%22%2C%222019-08-28%22%5D&results=1&searchbox=%22Giuseppi%22 ↑
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https://www.repubblica.it/politica/2017/05/03/news/di_maio_5stelle_candidato_premier-164541913/ ↑
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https://www.repubblica.it/politica/2020/11/07/news/biden_presidente_usa_la_mossa_di_zingaretti_per_battere_la_prudenza_grillina_sul_nuovo_leader_statunitense-273530360/ ↑
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https://www.ilfoglio.it/politica/2021/01/18/news/cosi-il-pd-ha-ottenuto-che-conte-correggesse-il-tiro-su-biden-1700395/ ↑
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https://formiche.net/2021/02/politica-estera-draghi-governo-europeista-atlantista/ ↑
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https://www.corriere.it/politica/21_febbraio_08/draghi-grazie-ci-rivedremo-parlamento-premier-incaricato-non-parla-ministri-bc66991e-6a5a-11eb-924b-61776b6fba88.shtml ↑
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Mozione congressuale n. 2, pubblicata in allegato a «l’Unità» dell’11 febbraio 2007, https://archivio.unita.news/assets/derived/2007/02/11/issue_full.pdf ↑
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Fondazione Istituto Gramsci, Archivio del Partito Comunista Italiano, Direzione, Allegati, 19 ottobre 1978, mf 7812, 67-72, citato in Silvio Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006, p. 137. ↑
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S. Pons, Op. cit., p. 198. ↑
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Ivi, p. 58. ↑
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Ivi, p. 46. ↑
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Ivi, p. 43. ↑
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Ivi, p. 134. ↑
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Andrea Romano, Il partito della nazione. Cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano, Paesi Edizioni, Roma 2020, p. 78. ↑
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Immagine Lunar and Planetary Institute (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.