Articolo pubblicato per la prima volta il 25 marzo 2014
Il 19 marzo le elezioni amministrative olandesi hanno visto un arretramento dei partiti di governo (il liberale Vvd e il laburista Pvda) e la crescita, invece, delle forze di opposizione e delle liste locali (queste ultime, che nel 2010 già superavano ogni altro partito raccogliendo complessivamente il 25%, hanno ottenuto un terzo dei voti).
Tra i partiti nazionali sono premiate le ali radicali (il Socialistische Partij e l’estrema destra del Pvv), ma, ancor di più, la formazione laica di centrosinistra Democratici ’66, divenuta il primo partito in 12 delle 20 amministrazioni maggiori, fra le quali Amsterdam, L’Aia e Utrecht (a Rotterdam prevale invece una formazione locale di destra populista). Proprio nel caso di Amsterdam è possibile leggere l’altro dato di queste elezioni: il declino del Pvda, assai più penalizzato dei partners liberali, che per la prima volta dal 1946 non risulta il primo partito nella città capitale.
Il declino dei partiti socialdemocratici è ormai cosa nota: le ultime due elezioni federali hanno visto i due peggiori risultati della Spd nel dopoguerra, e persino in Svezia nel 2010 i socialdemocratici hanno toccato il punto minimo dal 1920 (alle prossime elezioni, in settembre, sembrano potersi assestare anch’essi sul secondo peggior risultato). Casi analoghi in Danimarca, in Finlandia, in Norvegia, in Austria; pure in un quadro più mosso, segnali di crisi dei socialdemocratici sono giunti negli ultimi anni anche da Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.
L’elementare domanda “perché succede questo?” ha una risposta anch’essa elementare, a voler prendere sul serio il marxismo: i socialdemocratici non sono più in grado di rappresentare le esigenze di vivibilità (soprattutto nelle città: alle ultime elezioni svedesi, infatti, a Stoccolma hanno vinto i Verdi, ma la Sap ha continuato senza problemi a fare il pieno di voti in Lapponia!). In modo solo apparentemente paradossale, i socialdemocratici ancor più della destra sono stati spiazzati dalla crisi economica: la destra, infatti, come ha un principio settoriale di direzione del capitalismo (quello della massimizzazione del profitto), così ha anche linee settoriali di azione politica e può permettersi di giocare, di volta in volta, il volto buono della crescita della Borsa o quello truce dell’odio etnico.
La socialdemocrazia, invece, fonda la propria legittimazione sulle capacità di governo complessivo del capitalismo, di bilanciare cioè con perfetto equilibrio l’intrapresa privata, l’intervento pubblico, il peso della fiscalità, la crescita economica, i servizi sociali.
I socialdemocratici hanno quindi sofferto, da un lato, l’erosione della base operaia a causa della crisi economica; dall’altro lato, l’incapacità di attrarre i nuovi entrati nella platea elettorale – quelli, cioè, più distanti dal sistema morente e attori, invece, di uno sviluppo tecnologico “democratizzato” (si pensi all’esplosione dei social networks). Mirando alla restaurazione (ovviamente in tinte schröderiane più che bushiane) del modello definitivamente saltato nel 2008, i socialdemocratici non possono oggi essere il soggetto rivoluzionario europeo in grado di compiere il salto richiesto nel modo di produzione. Sono stati bravi amministratori e miglioratori dell’esistente, forse; ma non riescono oggi a produrre innovazione; motivo che si riscontra anche nella maggiore esigenza di prossimità fra eletti ed elettori, frustrata dall’inerzia tipica delle organizzazioni pesanti e di massa. Tra gli esponenti di destra è più frequente trovare larghi introiti indipendenti dall’attività politica; la sinistra, invece, proprio perché rappresenta i lavoratori ha formato un personale politico che non ha altre fonti di reddito disponibili. Ma non è solo questo il motivo per cui la sinistra, oltre che dalla crisi economica, è maggiormente investita anche dalla crisi politica. La forma organizzativa burocratica e standardizzata, infatti, è un altro ostacolo alla possibilità di rendersi di conto di cosa accade in società (società che oggi non è più riducibile alla vertenza di fabbrica gestita dal sindacato di massa, né più interpretabile solo a partire da essa).
Il maggiore ruolo rivoluzionario è invece ricoperto, in Europa, da partiti generalmente definibili come liberali o social-liberali. Sulla loro crescita influisce certamente un criterio di scelta per esclusione da parte degli elettori (“i conservatori non hanno funzionato, i socialdemocratici nemmeno, proviamo i liberali”): lo si è visto in Olanda dove nel 2010 il Vvd ha vinto le elezioni per la prima volta dopo il 1905. Ma c’è anche un altro dato, ed è quello politicamente più significativo: i partiti liberali sono l’espressione dei ceti sociali protagonisti oggi del processo di cambiamento produttivo, ovvero di quella che Richard Florida ha chiamato la “classe creativa”, volendo indicare quei lavoratori il cui contributo è soprattutto di conoscenza intellettuale. Molti di essi, come accennato, rientrano nelle fasce di età più giovani.
Per contro, l’elettorato socialdemocratico vede una sovra-rappresentazione di dipendenti pubblici e pensionati, come rilevato anche da Renzi a proposito del Pd durante la sua lunga campagna per le primarie. Queste categorie sono non soltanto quelle più legate al vecchio sistema, ma anche quelle che, per condizione sociale e professionale, sono mentalmente meno disposte al cambiamento.
D’altro canto è facile obiettare che essere buoni interpreti delle nuove esigenze sociali non significa, di per sé, ricoprire un ruolo rivoluzionario. Per definire più nettamente questo punto dobbiamo considerare il tema dell’austerità.
Per molti anni l’Occidente ha continuato a vivere al di sopra delle proprie possibilità. In Italia possiamo osservare come la diminuzione del Pil del 5% nel 2009 non abbia provocato proteste di piazza, mentre fatti molto più gravi si sono verificati nel 2012 e 2013. Perché? Una risposta plausibile è che nel primo caso la popolazione italiana abbia continuato a mantenere sostanzialmente invariato il proprio livello di consumo, affidandosi al risparmio accumulato o all’evasione fiscale. Quando i rubinetti dell’uno e dell’altra si sono chiusi (grosso modo nei primi mesi del governo Monti), non solo i consumi hanno dovuto ridursi di colpo, non solo è stato impossibile procurarsi altro credito, ma è divenuto anche necessario rimborsare i debiti già contratti (in particolare quelli derivati dall’evasione). Se il movimento dei forconi è stato, come giustamente messo in rilievo, la rivolta della piccola borghesia che non si rassegna alla proletarizzazione, analoghe spinte eversive sono provenute da settori popolari interessati da un duplice movimento, di proletarizzazione economica e di imborghesimento culturale. A titolo di esempi concreti si possono brevemente elencare: 1) l’esaurimento di Gta V nel primo giorno di vendita, al costo di sessantacinque euro; 2) la fila di persone comuni che nel centro di Firenze si dipanava fuori da una gioielleria sotto il Natale 2012; 3) il giovane operaio di Lumezzane (ricordate la puntata di Berlusconi da Santoro?) che inveiva contro i politici, lamentava di “stare di merda”, ma spendeva copiosamente in piercings e tatuaggi.
Dopo l’esplosione di un perverso meccanismo di accumulazione drogata dal debito, uno dei più impellenti temi umani e sociali è costituito dalla liberazione dai bisogni artificiosi. In questa liberazione si situa il senso più efficace dell’austerità – per citare l’ex ministro Balduzzi: se ridurre i consumi significa giungere a stili di vita più sobri, non è un cattivo risultato.
I socialdemocratici, però, hanno inteso l’austerità solo come rigorosa gestione della finanza pubblica, e – di nuovo! – hanno cercato di proporsi come i migliori amministratori economici, contro gli eccessi del rigorismo e della spesa irresponsabile. Così facendo si sono resi incapaci di parlare sia agli operai (casi celebri: Rotterdam, lo Yorkshire, le Marche), infastiditi da un equilibrio che sa di connivenza con la Casta, sia alla classe creativa (casi celebri: Milano, Amsterdam, Stoccolma, Berlino), distante dall’industrialismo di massa; senza per questo poter riguadagnare consensi a destra, poiché comunque contrari al rigorismo e fedeli all’ideologia socialdemocratica. A ciò si aggiunga anche l’incapacità di comunicare con settori forse minoritari ma certamente rumorosi: quelli abituati da lungo tempo a vivere di sussidi (casi celebri: Grecia, Sicilia).
Certo il quadro europeo non è univoco; si riconoscono almeno due blocchi, corrispondenti all’Europa centrale e settentrionale e all’Europa mediterranea. Il primo è quello in cui più genuinamente si manifesta il ruolo rivoluzionario dei partiti liberali e ambientalisti (i Democratici in Olanda, i Radicali in Danimarca, i Verdi in Svezia); nel secondo, invece, sono molto più forti i movimenti populisti e fascisti, poiché l’esigenza di far ripartire l’accumulazione drogata prevale sull’esigenza di un nuovo modello di sviluppo. Possono essere classificati in questo blocco l’Italia e la Grecia; la Francia, l’Austria, e anche la Spagna sembrano invece trovarsi in una posizione intermedia.
È illuminante, ai fini del nostro ragionamento complessivo, concentrarsi sui casi estremi.
Il partito socialdemocratico in peggior stato di salute è quello greco, e ciò non soltanto per i provvedimenti rigoristi adottati dal governo Papandreou, ma anche perché il Pasok aveva fondato la propria legittimazione politica sul principio esattamente opposto: una larga spesa pubblica, per giunta scarsamente produttiva, in termini di assunzioni dirette o di trasferimenti alle famiglie. Significativamente, i voti in uscita sono andati a una formazione di sinistra il cui programma è “vogliamo restare nell’euro, ma non vogliamo pagare il bailout”.
Viceversa, i partiti socialdemocratici più in forma sono quello portoghese e il Labour Party britannico; nelle loro vicende si legge la diversità regionale prima richiamata. Il Labour, infatti, ha recuperato consensi dopo il suicidio politico dei Lib-Dem, ai quali fin allora aveva regalato molti elettori; inoltre, è anche la formazione del Pse che più di ogni altra enfatizza, almeno nella simbologia, la contrapposizione al modello economico saltato nel 2008. Il Ps portoghese, invece, beneficia probabilmente dell’impopolarità del governo di destra, e assai più oscure appaiono le sue sorti nel caso in cui, come il Pasok, dovesse essere costretto a misure di rigore. Il Portogallo è del resto al terzo posto nella Ue (dopo Grecia e Italia) nel tasso di contratti di telefonia mobile, una decisa spia della presenza oppressiva di bisogni artificiosi.
Certo nel voto ai partiti verdi o dell’Alde concorrono anche altre istanze, delle quali quelle per una sostenibilità post-industriale della vita e/o espressione della “classe creativa” non sono che la parte più dinamica. Lo stesso concetto di classe creativa richiede, in quanto verticale, di essere integrato con un’analisi delle fratture orizzontali (così come nella “classe agraria” rientrerebbero sia il principe Colonna sia l’ultimo dei braccianti a chiamata). E se sono liberali e verdi a fare oggi una politica rivoluzionaria, la sfida è esattamente pensare a come le organizzazioni storiche dei lavoratori possano re-inserirsi nel processo e possibilmente guidarlo.
Più che il Pd ad aderire al Pse, allora, dovrebbe essere semmai il Pse ad aderire al Pd, costruendo un’aggregazione di forze che coinvolga i Verdi, l’Alde, le formazioni Pirata, e che si rivolga anche a singole forze o personalità afferenti al Ppe o alla Sinistra europea (pensiamo a deputati italiani come Mario Sberna o Adriano Zaccagnini). Di fronte a questa sfida, l’inserimento di “and Democrats” nel nome del Pse è il parto del topolino, e segnala di fatto un grave immobilismo nel corso di quest’ultima legislatura europea.
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.