A trent’anni dalla più grande tragedia della marineria italiana, in cui 140 persone persero la vita, asfissiate e bruciate, nel rogo del traghetto Moby Prince a poche miglia dal porto di Livorno, anche Sergio Mattarella ha fatto sentire la sua voce: “Sulle responsabilità dell’incidente e sulle circostanze che l’hanno determinato è inderogabile ogni impegno diretto a far intera luce – sottolinea il capo dello Stato – e l’impegno che negli anni ha distinto le associazioni dei familiari rappresenta un valore civico e concorre a perseguire un bene comune”.
Ma come arrivare alla verità, e alla giustizia, in questo mistero italiano?
Era la notte fra il 10 e 1’11 aprile 1991 quando il traghetto della Navarma diretto a Olbia entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada fuori dal porto. L’incendio fu causato dal petrolio che si riversò sul traghetto dopo l’impatto con la petroliera. Ma le fiamme non avvolsero subito l’intero Moby Prince, tanto che molte delle vittime morirono asfissiate dal fumo, mentre si attendevano soccorsi arrivati, e questa è una certezza, in grande ritardo. Si salvò solo un giovane mozzo, Alessio Bertrand.
Sul fronte giudiziario, la prima indagine si chiuse con processi dagli esiti deludenti. Alle perizie medico-legali secondo cui i passeggeri del Moby erano morti nel giro di mezz’ora, si aggiunsero interrogatori troppo sbrigativi e testimonianze non prese in considerazione. Così in primo grado i quattro imputati di omicidio colposo plurimo – un ufficiale dell’Agip Abruzzo, il comandante in seconda della Capitaneria di porto, un ufficiale di guardia e un marinaio di leva – furono tutti assolti con formula piena. Mentre nella sentenza d’appello, validata in Cassazione alla fine degli anni ’90, si stabilì l’intervenuta prescrizione del reato, segnalando comunque “l’inchiesta sommaria” della Capitaneria di porto.
Da allora nessun processo, solo una seconda inchiesta della procura labronica archiviata dieci anni fa, e una terza indagine avviata tre anni fa e ferma alla fase preliminare. A farla partire sono stati i risultati di una commissione parlamentare di inchiesta che fino al 2018 ha lavorato sul caso, arrivando ad alcune conclusioni diverse da quelle della magistratura ordinaria.
La commissione ha stabilito che la collisione non è stata dovuta alla presenza della nebbia, perché quella notte il cielo sopra Livorno era sereno, la visibilità ottima e il mare calmo. Né c’è stata una condotta colposa del comandante del traghetto, Angelo Chessa. Invece i soccorsi, sia pure lenti, si diressero verso la petroliera e non verso la nave passeggeri. Di qui l’accusa di incapacità della Capitaneria di porto di coordinare le operazioni di soccorso, con la conseguente morte di alcuni passeggeri molte ore dopo la collisione, e la censura sulle indagini, carenti, della procura labronica.
Eppure la causa promossa dai familiari delle 140 vittime contro lo Stato, ritenuto responsabile, attraverso le sue articolazioni periferiche, della morte a bordo del traghetto, è finita con un nulla di fatto. Pochi mesi fa il tribunale civile di Firenze non ha riconosciuto il diritto al risarcimento. Per il giudice Massimo Donnarumma, la commissione parlamentare “non ha disvelato verità e certezze nuove” ma è “un atto politico che non supera quanto è stato già accertato a livello penale”.
Ora sta per partire una seconda commissione parlamentare, per continuare il lavoro della prima. I familiari delle vittime ci sperano, anche per approfondire un punto rimasto oscuro: “In soli due mesi – è scritto infatti nella relazione finale – gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità, non approfondendo eventuali condizioni operative o motivazioni dell’incidente attribuibili ad uno dei due natanti”.
La nuova commissione cercherà poi di fare luce sulle cause dell’impatto, ancora misteriose. Anche perché i tracciati radar e le foto satellitari del porto livornese nel momento dell’incidente non sono mai esistiti, almeno a quanto ha fatto ufficialmente sapere il governo USA nel 2002. Nonostante che quella sera, alla fonda nella rada di Livorno, vi fossero ben cinque navi cariche di armi di ritorno dalla prima guerra del Golfo.
Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista, purtroppo oggi chiusa. Direttore di numerosi progetti editoriali locali, fra cui Il Becco.