Pubblicato per la prima volta il 1 luglio 2016
L’egemonia che la destra ha avuto sul dibattito attorno alla Brexit obbliga ancora una volta a chiedersi quale possa essere il ruolo storico della sinistra nel Vecchio Continente. Le difficoltà elettorali e identitarie del Labour britannico non bastano infatti a spiegare la quasi totale estraneità di una narrazione di sinistra rispetto ai pro e i contro di rimanere in Europa. Se forse è esagerato affermare che il referendum sia stato semplicemente il prodotto di una bega interna al partito conservatore, appare evidente come le destre abbiano completamente monopolizzato la discussione politica riducendola a due posizioni alternative chiare e semplici(stiche): da una parte chi, come Cameron, vuole un Regno Unito in Europa per i vantaggi che ne derivano dalla libertà di movimento di merci e capitali e dall’integrazione dei mercati finanziari, e dall’altra chi, come Boris Johnson e Farage, rivendica un Regno Unito indipendente da scelte eterodirette e in grado di esercitare in pieno la propria sovranità.
Poco si è parlato invece dell’articolata serie di posizioni assunte dai vari movimenti sindacali e partitici di sinistra della Gran Bretagna. Tanto le argomentazioni della Lexit, l’uscita da sinistra dall’UE, quanto di quelle di un Remain critico, fondate su un’idea di cambiamento dell’Europa dal suo interno, sono rimaste estremamente marginali. Al livello della percezione politica, una prospettiva progressista non è di fatto mai stata al centro del dibattito sulla Brexit.
Il prevalere in campagna elettorale di argomentazioni tutte rivolte alla questione dell’efficienza economica e dell’immigrazione rende l’idea di una sinistra che arranca ed è costretta a confrontarsi sui terreni a lei poco congeniali. A dominare è stato un nazionalismo diffuso: il “siamo più forti con l’Europa” contro “Britain First”, entrambe rivolte al cittadino britannico nella sua indeterminatezza, senza appartenenze politiche e classe sociale. Apparentemente diversissime, in realtà entrambe molto simili nel dare per scontato il sistema capitalista di riferimento e la necessità di misure più dure per prevenire l’immigrazione.
In questa luce si può cogliere la clamorosa disfatta del Labour che sta nella sua incapacità di dare forma a una rappresentazione politica in grado di articolare e rendere più solide le posizioni del Remain. La campagna elettorale, tenuta con un profilo basso per cercare di smarcarsi dalla retorica di Cameron e dalle sue posizioni neoliberiste, si è tramutata in un boomerang senza precedenti. Corbyn è apparso confuso (un “siamo con l’Europa ma contro L’Europa” di veltroniana memoria), debole, poco interessante e passionale, poco convincente. La crisi all’interno del suo partito scoppiata pochi giorni dopo la consultazione referendaria è il risultato della perdita di peso elettorale proprio in quei bastioni della classe lavoratrice tradizionalmente ad appannaggio del Labour.
Indubbiamente buona parte delle classi subalterne britanniche si è espressa lasciandosi trascinare dalla retorica demagogica di Farage e soci, associando l’Unione Europea a un colabrodo incapace di mettere un freno all'”invasione” dei migranti (purtroppo è vero il contrario) e a una esosa e avida macchina di riscossione di imposte. L’elettorato tradizionalmente di sinistra si è orientato in maniera fin troppo chiara verso un nazionalismo becero e populista, contribuendo in maniera significativa al trionfo del fronte del Leave.
Ma non sempre e non necessariamente i sentimenti e le opinioni che hanno mosso i ceti meno abbienti possono essere ridotti al razzismo e alla xenofobia. Appare piuttosto evidente come la rivolta nei confronti di Bruxelles sia l’esito di una serie innumerevole di questioni sociali, economiche e di appartenenza: sarebbe sbagliato, e frutto di una inaccettabile spocchia classista, non considerare anche come l’integrazione europea abbia significato una redistribuzione della ricchezza verso l’alto, una pauperizzazione di ampi strati della società, un peggioramento delle condizioni lavorative e un taglio ai sistemi di welfare. E che questi aspetti siano entrati in gioco nel momento della votazione appare sicuramente plausibile.
Proprio per questo motivo, è risultata disastrosa l’incapacità del Labour di intercettare il voto di quella componente della popolazione lasciata indietro dai processi di globalizzazione, vittima di un marchingegno economico che procede a due velocità, quella della City, centro finanziario di importanza globale che attira investimenti e ricchezze che però vengono scarsamente ridistribuite, e quella delle zone rurali e periferiche sempre più abbandonate al loro destino di progressivo declino.
Come quello di molti altri partiti social-democratici europei, il destino del Labour sembra essere quello di raccogliere i suoi sempre più ridotti voti all’interno di fasce sociali ben diverse. Non stupisce che un contributo significativo in termini elettorali per il Remain sia giunto da una componente istruita e giovane della (piccola e grande) borghesia urbana, sopratutto londinese. Di idee riformiste e radical-liberali, questo gruppo sociale viene spesso individuato come quello di un’ avanguardia culturale tollerante e aperta, informata e open-minded, anche se molto spesso riflette solo i valori di un capitalismo senza frontiere.
Mentre il fronte del Leave ha così cercato di impostare la sua narrazione politica esaltando i valori patriottici e unionisti contro le oligarchie finanziarie e burocratiche, i supporter del Remain hanno posto al centro i valori dell’integrazione e della tolleranza, demonizzando ogni atteggiamento xenofobo e isolazionista. Ma le due narrazioni politiche che si sono spartite l’attenzione mediatica e si sono assicurate un ruolo politico a livello nazionale e sovranazionale sono entrambe di destra. La Brexit è stato lo scontro politico e dialettico fra due visioni sostanzialmente conservatrici: una di matrice neoliberista e una di chiara derivazione nazionalista. La sinistra, a cominciare dal Labour, si è dovuta adattare a una costruzione politica già data, a un struttura pre-assegnata che vede i valori apparentemente contrapposti delle due destre come gli unici elementi in ballo all’interno di un dibattito in cui la sinistra è stata (o si è) del tutto marginalizzata.
Il dramma di questa mancanza di percezione nell’opinione pubblica di una possibilità di sinistra rispetto a questioni fondamentali come il rapporto fra nazione e entità sovranazionale e il futuro dell’Europa stessa e dei suoi cittadini, mette ancora una volta in luce la mancanza di un posto di rilievo nell’agone politico del Vecchio Continente per una prospettiva e per delle idee di sinistra.
Tutto sembra essere schiacciato fra due sole possibilità di agire politico: una che vede nell’integrazione economica e nei trattati di libero scambio il futuro da continuare a perseguire (magari con strumenti ancora più potenti come il TTIP), l’altra che pensa che l’unico rifugio sia lo Stato Nazionale, il ritorno a un capitalismo sovranista che abbia dei confini forti. Tertium non datur.
L’elezione di Corbyn a Segretario del Labour poteva rappresentare l’opportunità di costruire in Gran Bretagna una visione politica più radicale e anche meno ambigua: nettamente differenziata dal centrismo blairiano, brutta copia del neoliberismo di destra. Ma questa diversa narrazione politica stenta a decollare, e la massa di voti delle classi meno abbienti per la destra nazionalista rende chiaramente l’idea di una prospettiva di sinistra che ha poco spazio in un orizzonte politico ristretto a due sole alternative, entrambe conservatrici.
Perse nel magma dei voti europeisti e nazionalisti, le posizioni critiche di sinistra di entrambi gli schieramenti non hanno potuto lasciare alcun segno: i voti labouristi si sono confusi con quelli di Cameron, quelli del Socialist Workers Paty con quelli di Assage e Johnson. “O con me o Contro di me” diceva Napoleone. Le istituzioni europee sembrano dire la stessa cosa. E un sistema ideologico e mediatico accetta e riproduce questa falsa dicotomia conservatrice. Nella quasi totalità dell’Europa lo scontro politico si riduce fra i promotori di un capitalismo a base nazionale e i sostenitori di una Unione Europea che si vorrebbe forse un po’ diversa ma sempre dalla parte delle imprese, degli investimenti, della concorrenza.
Si tratta in realtà di un simulacro di confronto politico, una farsa di agire comunicativo perché entrambi gli schieramenti in realtà condividono i medesimi postulati capitalisti di partenza. Si tratta solo di posizioni simili modulate in maniera diversa. Questioni politiche di fondamentale importanza che rimandano al tipo di società e al tipo di struttura del potere che vogliamo vengano dibattute dall’opinione pubblica mondiale nella convinzione che esistano solo due alternative, entrambe di destra. La Brexit è un’ulteriore prova di come ormai l’orizzonte delle possibilità sia ristretto a una scelta dicotomica fra due alternative conservatrici (il che contribuisce alla confusione che porta a pensare che non esistano più destra e sinistra) mentre la sinistra incontra difficoltà crescenti a ritagliarsi uno spazio anche solo come possibile contendente nell’agone politico.
Immagine Number 10 (dettaglio) da flickr.com
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.