Dal crollo economico del 2009 alla ristrutturazione oligarchica del 2020
Sarebbe errato, tuttavia, ritenere che questo riorientamento dei ceti subalterni sia dipeso unicamente dal venir meno di un’offerta politica esclusa dal Parlamento nel 2008. Anzitutto perché, come evidenziato in precedenza, quell’offerta aveva già in sé il principio del proprio disfacimento e, inoltre, l’ordine causa-effetto corretto è: non si è in grado di rappresentare adeguatamente consistenti interessi sociali, perciò si resta sotto la soglia di sbarramento.
E poi perché anche dopo il 2008 diversi eventi economici e politici hanno pesantemente scosso il sistema Italia. Anzitutto sul piano economico. Il livello del PIL pro capite reale, rimasto sostanzialmente stagnante nel primo lustro del millennio, aveva appena iniziato la risalita quando il biennio di recessione 2008-09 lo tagliò del 7,2%[1] riportandolo ai livelli del 1999, bruciando cioè dieci anni di crescita per giunta già largamente erosa dall’aumento dei prezzi, concomitante all’introduzione dell’euro e frutto di una mancata sorveglianza da parte di un governo (il Berlusconi II) chiaramente favorito da esercenti, autonomi e commercianti.
Sul momento le famiglie italiane mostrarono di riuscire ad attutire il colpo, probabilmente perché la quota di risparmio privato, nonché la maggior presenza di pensioni retributive, consentiva ancora di far fronte alle necessità economiche. Tuttavia l’esplosione covava sotto la cenere: negli anni 2009-2011 la riduzione degli occupati veniva bilanciata dall’aumento delle persone in cerca di occupazione, mentre, al di fuori delle forze di lavoro, crescevano gli inattivi (vedi Grafico 1).[2] Il PIL pro capite reale cresceva ancora molto lentamente: sceso al livello del 1999 nel 2009, nel 2011 non aveva ancora toccato il livello del 2000.
Fu negli anni 2012-2014 che il morso sociale della crisi affondò più in profondità. Alla fine del triennio il PIL pro capite reale era sceso del 12% rispetto al 2007, assestandosi sui livelli del 1997. L’inattività lavorativa non poteva più essere una scelta: sempre operando il confronto 2007-2014, gli occupati erano scesi del 3% (625.000 unità) e gli inattivi del 2% (292.000), mentre le persone in cerca di occupazione erano aumentate del 115% (1.718.000). Lo stesso calo occupazionale mascherava tre realtà diverse: una situazione gravosa dei lavoratori autonomi, calati dell’8% (491.000), una riduzione dei dipendenti permanenti (-1%, 177.000) e un aumento dei dipendenti a termine (+2%, 43.000).
Si stava cioè verificando la produzione di due nuovi segmenti sociali a rischio, entrambi provenienti dalla frana della classe media. Da un lato, la chiusura di piccole attività creava un gruppo di neo-proletari privi di alta istruzione e destinati a uno smottamento non solo di reddito ma anche di autopercepito status sociale.[3] Dall’altro lato, i contratti a termine sembravano il ricettacolo destinato ad accogliere chi riusciva a non farsi espellere dal mercato del lavoro. Precarietà, disoccupazione o anche sottoccupazione sembravano il destino della ex classe media istruita.
La forza politica che si trovò a gestire la situazione fu il Partito Democratico sotto la guida di Matteo Renzi, eletto l’8 dicembre 2013 segretario nazionale e insediatosi il 22 febbraio 2014 come Presidente del Consiglio. Il precedente governo Letta, pur essendosi assicurato una maggioranza parlamentare più coesa grazie alla scissione, nell’autunno 2013, del moderato Nuovo Centrodestra di Alfano dall’allora PdL berlusconiano populista e anti-euro, non riuscì a mettere a frutto tale rinnovata posizione di vantaggio. L’Italia restava nella morsa dell’immobilismo e priva di una seria presenza negoziale in Unione Europea – situazione paradossale per un Presidente del Consiglio, Letta appunto, che a 25 anni era stato Presidente dei Giovani del PPE, a 27 Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri, a 30 segretario generale del Comitato Euro del Tesoro, a 32 ministro per le Politiche comunitarie.
Questo immobilismo era stato rappresentato al massimo a gennaio 2014 dall’incapacità di nominare un nuovo Ministro dell’Agricoltura dopo le dimissioni di Nunzia De Girolamo e, peggio, dall’aumento dell’IVA dal 21 al 22% per la mancata sterilizzazione delle clausole di salvaguardia.
La musica con Renzi cambiò: contro l’avviso del Ministro dell’Economia Padoan – peraltro impostogli dal Quirinale in sostituzione, pare, di Delrio[4] – che intendeva partire con tagli fiscali alle imprese, il nuovo capo del governo pose come obiettivo anticiclico la concessione di liquidità alle famiglie (gli 80 euro).[5] In sede europea i due invece collaborarono alla politica della via stretta: rispettare il parametro del deficit al 3% pur sottolineandone l’obsolescenza e usare «un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale» per spingere al massimo il pedale della spesa espansiva.[6] In cambio di una maggiore flessibilità di bilancio, che elevava dal 2,2 al 2,9% il rapporto deficit/PIL per la legge di bilancio 2015, il governo Renzi varò una riforma parziale del mercato di lavoro che accanto a un aumento della flessibilizzazione in uscita – richiesto a più riprese dalla Commissione Europea – iniziava il riconoscimento di tutele sociali ad apprendistati e contratti atipici che, un tempo residuali, stavano diventando le principali modalità di ingresso nel lavoro.
Accanto a questa politica sociale Renzi mise in campo una nuova proposta di alleanza: nel solco dell’unità antifascista di Togliatti e del compromesso storico di Berlinguer il “patto del Nazareno” formava un asse privilegiato con il centrodestra liberale proprio mentre questo si disarticolava dall’emergente destra sovranista. L’obiettivo era quello di stringere un cordone sanitario attorno alla minaccia antidemocratica. Massimo coronamento di questa strategia sarebbe stata la riforma costituzionale, volta a conferire maggiore efficacia alla democrazia rappresentativa e, di fatto, a spostare a sinistra l’equilibrio della Carta.[7]
È interessante ripetere l’analisi di correlazione relativamente al campo del Sì o del No del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (Tabella 10). Ciò consente di illuminare la composizione politica, e quindi per approssimazione quella sociale, delle due coalizioni.
La coalizione del Sì si componeva di due tronconi: quello maggioritario del PD (del resto in via di spostamento verso il centro, cfr. Tabelle 4-5-6 nella puntata precedente) e quello, più piccolo, del centro e centro-destra cattolici. Il No risultava invece una “coalizione” fra M5S, Lega e sinistra radicale.
Tali composizioni risultano ancora più evidenti dall’esposizione delle maggiori correlazioni positive e negative per le consultazioni precedenti e successive al referendum costituzionale 2016 (Tabella 11).
In altri termini, la riproposizione da parte di Renzi della linea berlingueriana del compromesso storico si era arenata perché, pur avendo stabilito legami con alcuni settori moderati, il PD non aveva trattenuto il voto antisistema un tempo rappresentato dalla sinistra radicale. Come lo scrivente evidenziò dopo il referendum costituzionale del 2020, il 4 dicembre 2016 si manifestarono «da un lato, per il Sì, il proletariato più cosciente e la borghesia progressista; dall’altro, per il No, la plebe, il sottoproletariato e i ceti aristocratici. Non sfugge che queste alleanze siano tipiche della situazione verificatasi storicamente durante la Rivoluzione francese».[8]
La situazione al referendum costituzionale 2020 è stata molto diversa. Il Sì al taglio dei parlamentari era una coalizione eterogenea ma con un forte tratto distintivo: tutte le forze che la componevano – PD (specialmente il troncone ex DS), M5S, Lega, sinistra antisistema – erano forze con elettorato decisamente popolare. Viceversa, tutte le forze del No – Forza Italia, radicali, sinistra borghese, laici – erano forze a elettorato tendenzialmente benestante o comunque borghese (vedi Tabella 12).
Lo slittamento avvenuto fra 2016 e 2020 è ancora più evidente se si visualizzano assieme le correlazioni con i rispettivi «Sì» delle liste presentate alle elezioni politiche del 2018.
Come si vede, si evidenziano quattro gruppi:
1.I No 2016-Sì 2020, composti da partiti che si presentano come antisistema e il cui consenso è maggiore nelle classi sociali più basse;
2. I Sì 2016-Sì 2020, composti dal solo PD (curiosamente anche la lista trockista ricade in questo quadrante, pur se più prossima al gruppo precedente);
3. I Sì 2016-No 2020, composti in maggioranza dai partiti centristi o comunque cattolici (la lista ulivista Italia Europa Insieme presenta una correlazione sorprendente con i Democratici del 1999, che a loro volta condividevano l’insediamento sociale dei partiti post-DC) con l’aggiunta di Più Europa, che evidenzia un’altissima correlazione col No 2020;
4. I No 2016-No 2020, composti dai partiti a maggiore insediamento sociale borghese.
Il diverso posizionamento delle varie liste può essere riassunto così: nel 2016 il passaggio dal Sì al No corrispondeva a quello dal gruppo percepito come di potere alle forze populiste-antisistema (non male, per un Sì accusato di populismo da commentatori pigri o forse al contrario troppo furbi); nel 2020 votano Sì i partiti popolari e No quelli borghesi, con in ambo i gruppi una maggiore tendenza al No da parte dei partiti di sinistra.
Le ragioni dell’insuccesso del Patto del Nazareno
Perché il patto del Nazareno, il nuovo compromesso storico renziano, non è stato in grado di mantenere un presidio a sinistra? Questa mancanza sembra un paradosso se si guardano i dati del lavoro. Su questo fronte il Governo Renzi registrò:
1. Un consistente aumento tanto degli occupati quanto delle forze di lavoro (vedi Grafico 3), segno di un’economia in crescita che aggiungeva costantemente opportunità di impiego;
2. Un forte aumento sia dei lavoratori dipendenti sia dei dipendenti a tempo indeterminato (vedi Grafico 4), segno che la crescita economica si fondava su basi solide e che il Governo riusciva ad evitare che la precarietà fosse la condizione di ingresso nel mercato del lavoro.
Non è possibile dunque attribuire lo smottamento di consensi del PD da sinistra verso il M5S e in parte la Lega alla politica sociale del governo Renzi. Questo smottamento è iniziato negli anni fra il 2010 e il 2015, assieme a movimenti che hanno interessato anche altre aree politiche, come evidente dai diversi schieramenti in campo alle elezioni regionali: nel 2010 il PD in un’alleanza di centrosinistra tradizionale comprendente anche Rifondazione, nel 2015 sostanzialmente da solo; nel 2010 PdL e Lega uniti con il primo a fare ancora la parte del leone, nel 2015 liberali e sovranisti divisi con questi ultimi maggioritari; nel 2015 presenza di due nuove liste, M5S e Toscana a Sinistra, che raccoglievano rispettivamente l’ala antisistema e quella borghese della ex sinistra radicale.
L’aggravarsi della condizione economica delle famiglie nel periodo soprattutto dei governi Monti e Letta ha infatti prodotto l’esplosione del sistema politico. Il tentativo di Renzi di imbrigliare il pericolo antidemocratico del M5S ha avuto un successo iniziale, per poi franare a causa dell’insufficiente collaborazione degli altri partiti borghesi: Forza Italia, rimasta sempre in mezzo al guado (con suo grande danno), e alcune forze della sinistra radicale.
Il formarsi della coalizione sanfedista vittoriosa nel 2016 replicò fedelmente il programma messo in atto già novantacinque anni prima nella nascita del fascismo. Così è stato per l’attrazione delle fasce più immature delle classi deboli verso un movimento brutalmente padronale – «Io ti conosco, fascista […] Sei nato nell’ampia palude del Ferrarese che confina col Polesine ove crescono i canneti e vivono le rane. Sei figlio di lavoratori della terra anche tu. […] Tu non eri contento di queste povere conquiste [sindacali] […], eri per la perenne protesta, la voce sobillante nelle assemblee e nei comizi che […] reclamava l’azione diretta e la rivoluzione immediata».[9] Così è stato per la volgare battaglia antipartitica che si nutre in Italia dei filoni liberale, nazionalista, corporativo.[10]
Il venir meno del consenso al PD renziano fra 2014 e 2016, se non dovuto a motivi di carattere sociale, sembra quindi la conseguenza non solo di una vasta offensiva anti-europea di cui gli storici si occuperanno nei prossimi decenni – quali sono i legami fra l’ondata sovranista e i fondi speculativi che grazie alla BCE di Draghi non riuscirono a spolpare l’euro? – ma anche di un indebolimento interno del fronte che Renzi cercava di comporre.
È stato sempre stupefacente osservare come potesse essere ritenuto un usurpatore della sinistra, un corpo estraneo alle tradizioni del lavoro italiano, il Renzi che ha abolito le co.co.co., introdotto la cassa integrazione per apprendisti e la maternità per le lavoratrici iscritte alla Gestione separata, imposto il pagamento del canone RAI in bolletta, raddoppiato l’assicurazione sociale per l’impiego… Una risposta la si può avere nell’Assemblea nazionale PD del 7 luglio 2018, nella quale Renzi rassegnò ufficialmente le dimissioni da Segretario. Nel suo discorso Renzi invitò non soltanto ad espandere le tutele dei riders, ma anche a favorire il loro accesso all’istruzione universitaria e, in ultimo, concluse additando come modello Alexandria Ocasio-Cortez che aveva appena battuto alle primarie il deputato centrista Joe Crowley (che ambiva alla carica di Speaker dopo Nancy Pelosi). A questi concetti Cuperlo replicò piccato: «Non credo che puoi sostituire “Bandiera rossa” con “Uno su mille ce la fa”, perché non è un inno che porta il popolo a riconoscersi in quella identità», compiendo un doppio errore analitico: quello di leggere l’istruzione delle classi inferiori secondo le lenti dell’individualismo e quello di assuefarsi all’immaturità politica del popolo invece di promuoverla.
Naturalmente l’impreparazione culturale e politica della sedicente sinistra interna al PD è stata un fattore nel rifiuto del progetto renziano. Zingaretti ha celebrato il centenario del Partito comunista d’Italia ammettendo candidamente di essersi iscritto al PCI senza aver mai letto né Marx né Lenin né Togliatti[11] (e può stare tranquillo: si vede). Ma il fattore più importante è stato un altro.
Ha scritto un osservatore attento come Filippo Ceccarelli: «il centrosinistra si regolava come un Consiglio d’amministrazione governato da un Patto di sindacato. Tutt’altro che disumana, ma neppure vincente, l’idea di fondo era che nessun leader, a partire da Prodi e D’Alema, fosse mai eliminato per sempre, ma solo per un po’. […] Tutto questo andò strutturandosi nell’arco di tre o quattro anni in un vero e compiuto sistema oligarchico, tanto inflessibile quanto negato dai medesimi oligarchi, i quali facevano anche finta di vergognarsene, a chiacchiere, ma nei fatti non avevano alcun interesse a smontarlo né a rinunciare ai vantaggi che offriva».[12]
L’apice di questa folle involuzione fu raggiunto probabilmente nel secondo governo Prodi, l’ultimo prima della Grande Recessione, quando tutto il centrosinistra proclamava la volontà di cambiare la legge elettorale Calderoli, ma l’accordo trovato da PD e Forza Italia non andò in porto per l’opposizione dei piccoli del centrosinistra, fra i quali lo SDI, che non contava neppure un ministro. È chiaro che questa follia non era senza costi: ma questi venivano fatti pagare alle nuove generazioni, considerate un bacino di voti e di consensi minore (per via della crisi demografica) e meno organizzato. Il circolo vizioso di maggiore precarietà e minore organizzazione politico-sindacale delle nuove generazioni è stato un giocattolo perverso che infine si è rotto, producendo fenomeni come il M5S.
Renzi ha cercato di sanare le ferite sociali provocate dal vecchio centrosinistra, ma per far ciò ha dovuto necessariamente rompere con i vecchi accordi castali e con le corporazioni su cui il vecchio centrosinistra si appoggiava cercando di compensare la propria debolezza: pezzi di stampa, di associazioni di categoria, di sindacati sempre meno rappresentativi della forza lavoro.
Il PD e il governo della società capitalista
Il cliché delle vecchie identità DS/Margherita che avrebbero continuato a prosperare sotto l’apparente unità piddina non fa i conti con il fatto che i gruppi dirigenti di quei due partiti avevano già una sostanziale condivisione di intenti politici: il governo della società capitalista.
Le intenzioni, di per sé, erano nobili: supplire a ciò che era mancato nella grande trasformazione sociale degli anni Sessanta e Settanta, ossia il governo della società italiana.[13] La DC era costretta dalla situazione internazionale a governare, e al tempo stesso a farlo evitando accuratamente qualsiasi ampia riforma sociale; il PCI aveva l’ambizione di fornire questo governo, ma era impossibilitato a farlo. L’Ulivo sembrò realizzare questa virtuosa convergenza e fornì effettivamente un governo della società italiana – un governo che però perse la carica trasformativa e scaricò appunto sulle generazioni più giovani i costi dell’amministrazione tecnocratica.
La scelta di Enrico Letta come nuovo Segretario nazionale del PD è emblematica della strada politica e culturale che il partito sembra imboccare. Niente illumina la psicologia di Letta quanto il motto «Se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme», a cui l’ex Presidente del Consiglio ha dedicato perfino un libro – nel 2015, in aperta polemica con Renzi. Letta – e ne è un indizio la quasi unanimità della sua elezione a Segretario – è il garante del patto di sindacato del centrosinistra che Renzi provò a far saltare. È Letta quel «ceto, che esiste, quelli sempre a galla, quelli che qualsiasi cosa sono sempre a galla» di cui Bersani voleva individuare il rappresentante proprio in Renzi.[14]
Tra i punti fondamentali del mandato di tale patto di sindacato vi era, seguendo Ceccarelli, che nessuno dovesse mai farsi veramente male. I dirigenti devono in ogni caso cadere in piedi. Questo indirizzo fa sospettare che il pervicace servilismo nei confronti del M5S derivi non soltanto dall’impreparazione politica sopra ricordata, ma anche dal costume di non guardare in bocca al caval donato o, in questo caso, al salvagente donato: consci di non essere più in grado di recuperare un rapporto con alcuni ceti sociali, e quindi una certa quota di voti, ci si attacca al M5S con l’idea di esserne rimorchiati – e qui diventa difficile capire se è più il cinismo o l’incompetenza a far mancare di accorgere che se ne viene rimorchiati, sì, ma verso il fondo. Nel corso della segreteria Zingaretti il PD ha sacrificato sul pretenzioso altare del M5S non soltanto la propria autonomia politica, ma perfino il carattere rappresentativo della Costituzione democratica italiana, accodandosi di ottimo grado alla macellazione del Parlamento. Mentre infuriava la crisi capitalistica con il più alto tasso di mortalità dai tempi della Prima Guerra Mondiale, la linea del PD è stata di ridurre gli spazi di rappresentatività democratica e di incoronare capo della coalizione un populista non pentito il cui governo ha visto 57.000 morti durante la seconda ondata.[15]
L’elezione di Letta ha però il pregio della chiarezza. Il PD non è più una succursale del M5S: c’è, con maggiore piglio imprenditoriale, una divisione dei compiti. Il M5S continuerà a rastrellare il voto proletario e ultraproletario, che però non potrà mai rappresentare efficacemente perché il vizio populista gli impedisce di sviluppare le forze produttive[16] – e Conte, dopo la parentesi bideniana a gentile uso del Senato due mesi fa[17], ha ribadito di essere un populista[18] proprio come lo ribadiva durante il suo primo governo. Quanto al PD, o quello che ne resterà, si trasformerebbe nel partito centrista liberale della media borghesia illuminata – o forse semplicemente snob, perché, come ci ha avvisato lo stesso Letta, è finito il tempo in cui dopo il diploma o la laurea si trovava lavoro, anche perché con la pandemia è cambiato tutto (lui, avendo conseguito in nove anni la laurea quadriennale ed essendosi ritrovato ministro quattro anni dopo, fa evidentemente parte di quel vecchio tempo che proclama finito).[19]
Il problema è che è cambiato tutto non nel 2020, ma in tutta l’ultima generazione, con il crescente impoverimento del lavoro italiano, sia in termini personali (salario, occupazione) sia in termini nazionali (crescita economica). E le persone che hanno contribuito a impoverire il lavoro italiano non possono essere le stesse che adesso lo ricostruiscono. Enrico Letta era Ministro dell’Industria nel Governo D’Alema nel 1999, nella Legislatura in cui l’Ulivo dette il via alla precarizzazione del lavoro (del resto il pacchetto Treu fu approvato anche da Rifondazione).
Nel frattempo, poiché la Lega cerca di ridarsi una cadenza se non europeista almeno europea, e poiché grazie alla devozione piddina verso il M5S Forza Italia è inamovibile dal campo avversario, la prospettiva è quella di una coalizione di centro-destra rappresentativa dei ceti più produttivi cui si contrapponga una coalizione populista rappresentativa dei ceti meno produttivi (pensionati per il PD, disoccupati e sottoccupati per il M5S). Se anche, come nel 2018, il centro-destra non riuscisse ad ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento, i partiti liberali di centro dovrebbero decidere se consentire la formazione di un governo giorgettiano o di uno contiano.
Pur avendo quindi il governo occidentale con le maggiori potenzialità programmatiche anticrisi, l’Italia rischia un’involuzione gravissima del proprio sistema politico – già debilitato dal taglio dei parlamentari – risultando molto vicina la transizione a una maggioranza di restaurazione capitalistica cui faccia da pendant l’opposizione-fantoccio dei masaniello di antico regime. L’idea infatti che il secondo governo Conte sia stato «un governo di tregua sociale»[20] ha senso, e può essere conciliata con la realtà dei 57.000 morti, solo nell’ottica di risorse limitate tipica del M5S, secondo cui per il destino umano non c’è speranza e per i ceti subalterni non c’è sviluppo.
In altre parole, ciò contro cui la linea togliattiana di Renzi ha lottato in questi ultimi tre anni e che era finora sempre riuscita a respingere sta di nuovo tornando come concretissima minaccia a causa della linea politica suicida seguita dal PD massimamente proprio durante l’esplodere della pandemia, che denunciava invece la necessità di uno scatto politico per trasformare la società in senso progressivo.
Le stesse proposte lettiane del voto ai sedicenni e dello ius soli, cioè dell’espansione dell’elettorato, coniugate con la riduzione dei seggi in Parlamento producono un ulteriore aumento del rapporto popolazione/collegio e, quindi, del costo delle campagne elettorali. In assenza di un finanziamento pubblico ai partiti, guarda caso abolito per decreto legge proprio dal governo Letta il 28 dicembre 2013, ciò significa lo spudorato dominio di un’oligarchia capitalistica – i “sempre a galla” ricordati da Bersani, o «gli educati male» del capitalismo di relazione attaccati frontalmente dal Presidente Renzi nel discorso alla Borsa di Milano del 4 maggio 2015.[21]
Non è forse peregrino, inoltre, ricordare che l’esponente più lettiano del Partito Democratico – Francesco Boccia – è anche sempre stato il più filo-5 stelle.
Un outlook negativo
Esattamente cinquant’anni fa, nel marzo 1971, commentando a nome del PCI le rivelazioni del Ministro dell’Interno sul tentato golpe Borghese, Giorgio Amendola scriveva: «L’Italia di oggi non è quella del 1922. Vi sono oggi in Italia le forze sufficienti e la capacità politica per assicurare al movimento democratico le condizioni di sicurezza democratica di un suo nuovo e più rapido sviluppo».[22]
Nel 2014, nella prefazione alla seconda edizione italiana del suo lavoro su «Togliatti e il partito di massa», Donald Sassoon rese un quadro impietoso: «Ciò che Togliatti aveva costruito non esiste più […]. Non è rimasto nulla. Il Partito democratico, l’ultimo dei nomi adottati dagli eredi del Partito comunista italiano, non ha alcun legame con quello che Togliatti aveva costruito. […] questo libro fu scritto […] per spiegare la storia che stava dietro a un partito di successo. Oggi, racconta gli antefatti di un interessante fallimento».[23]
Amendola aveva ragione. Il giudizio di Sassoon sul PD risultava invece ingeneroso. In quello stesso anno il PD riuscì a toccare il massimo storico del 41%, mentre i partiti comunisti francese e spagnolo, che avevano rifiutato un’evoluzione dopo il 1989, erano stati presto cannibalizzati dai loro alleati populisti (La France insoumise, Podemos) e i partiti socialdemocratici in Francia, Germania e Regno Unito erano avviati verso i peggiori risultati delle ultime tre o quattro generazioni.
Se la scelta sarà quella della coalizione fra un partito populista da jacquerie e un partito medio-borghese tecnocratico, non solo non potremo più contare sulle condizioni richiamate da Amendola, ma anche la critica di Sassoon si rivelerà esatta.
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Questo dato e i successivi sul medesimo indicatore sono attinti da: https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.PCAP.KN?end=2019&locations=IT&start=1960 ↑
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Questo dato e i successivi relativi al mercato del lavoro italiano sono tratti dalle serie storiche ISTAT (https://www.istat.it/it/files//2021/02/202012_serie-storiche.xls), raggiungibili a: https://www.istat.it/it/archivio/253019 ↑
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Si veda il breve ma eloquente articolo sulla situazione a Bettola, paese natale di Bersani, nei giorni della scissione di Articolo Uno dal PD a febbraio 2017: https://www.repubblica.it/politica/2017/02/21/news/scissione_pd_a_bettola_il_paese_di_bersani_fra_indifferenza_e_disincanto-158822211/ ↑
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https://www.repubblica.it/economia/2014/02/21/news/padoan_sar_il_ministro_dell_economia_prevale_su_delrio_reichlin_e_tabellini-79263678/ ↑
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https://www.huffingtonpost.it/2018/01/07/pier-carlo-padoan-non-esclude-un-nazareno-bis-gli-80-euro-discussi-con-renzi-ma-aveva-ragione-lui_a_23326197/ ↑
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https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-08/la-via-stretta-renzi-crescita-e-debito-081112_PRN.shtml ↑
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Rimando alle mie riflessioni di allora in materia: https://archivio.ilbecco.it/politica/societ%C3%A0/item/3319-riforma-costituzionale-perch%C3%A9-votare-s%C3%AC.html ↑
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https://www.ilbecco.it/referendum-costituzionale-unanalisi-del-voto-attraverso-la-geografia-del-paese/ ↑
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A. Altobelli, Fascista proletario, in «La Terra», 1° maggio 1922, ora in Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra, a cura di R. Zangheri, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 419-20. ↑
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S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005, pp. 39-40; Id., Antipartiti, Donzelli, Roma 2013. ↑
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https://immagina.eu/2021/01/21/immagina-cento-anni-pci-zingaretti-pd/ ↑
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F. Ceccarelli, Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua, Feltrinelli, Milano 2018, p. 803. ↑
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Si veda G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005. ↑
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https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/12/governo-bersani-manovra-di-renzi-tipica-di-un-ceto-che-sta-sempre-a-galla-dopo-conte-ce-solo-conte-o-il-voto/6063269/ ↑
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Dati da https://github.com/CSSEGISandData/COVID-19/blob/master/csse_covid_19_data/csse_covid_19_time_series/time_series_covid19_deaths_global.csv, considerando come estremi della seconda ondata il 17 settembre (quando la media mobile settimanale dei decessi sale stabilmente sopra i 10 decessi giornalieri) e il 12 febbraio (ultimo giorno di permanenza in carica del Governo Conte II). ↑
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Si vedano le mie considerazioni nel paragrafo «M5S e PD di fronte al Governo Draghi» in https://www.ilbecco.it/draghi-europa-quale-via-duscita-dalla-crisi-2-2/ ↑
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https://www.huffingtonpost.it/entry/crisi-di-governo-giuseppe-conte-agenda-biden-e-la-nostra-agenda_it_6005b7e3c5b62c0057bf4402 ↑
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https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/02/28/news/giuseppe_conte_beppe_grillo_movimento_cinque_stelle-289677246/ ↑
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https://www.la7.it/propagandalive/video/enrico-letta-e-finito-il-tempo-in-cui-si-andava-a-scuola-alluniversita-e-poi-si-lavorava-22-01-2021-361106 ↑
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https://ilmanifesto.it/con-il-governo-draghi-non-inizia-ma-finisce-la-tregua-sociale/ ↑
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https://www.agi.it/politica/renzi_debutta_a_piazza_affari_capitalismo_di_relazione_morto_-260441/news/2015-05-04/ ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1971/03/18/issue_full.pdf ↑
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D. Sassoon, Togliatti e il partito di massa. Il Pci dal 1944 al 1964, Lit Edizioni, Roma 2014, p. 14. ↑
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.