Pubblicato per la prima volta il 23 luglio 2018
Lunedì 9 luglio, nell’ambito della festa Settembre Rosso al parco di Serravalle a Empoli, si è tenuto un dibattito di alto livello, dal titolo “Dentro le città neoliberiste: la politica degli spazi urbani”, su una questione di imprescindibile importanza, ovvero quella del territorio, dello spazio urbano e di come questo sia cambiato e stia ulteriormente cambiando in nome di politiche e logiche sempre più improntate alla mercificazione, la “turistificazione” delle aree e all’aziendalizzazione.
A parlarne Guido Cecchini di Potere al Popolo Empolese-Valdelsa, Ilaria Agostini, ricercatrice in urbanistica presso l’Università degli Studi di Bologna e membro del Laboratorio politico “Per un’altra città” di Firenze, Riccardo Chesta e Lorenzo Zamponi, entrambi ricercatori in sociologia alla Scuola Normale di Pisa. Gli ospiti sono stati moderati da Carlotta Caciagli, dottoranda in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di Pisa con un progetto sui movimenti sociali urbani e le loro relazioni con le caratteristiche del tessuto urbano.
È da questo interessante incontro che prende le mosse questo pezzo, per allacciarsi però a un’altra ottima riflessione sulla gestione degli spazi pubblici e sulle politiche sempre più securitarie che trasformano le nostre città in “società disciplinari” e “immunizzate” che Carmen Pisanello ha affrontato nel suo In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie. Il libro è stato presentato dall’autrice lo scorso febbraio alla libreria Marabuk di Firenze grazie a un’iniziativa organizzata da Rifondazione Firenze. Premettendo perciò una non-sistematicità dell’intervento, proverò a integrare elementi emersi dalla discussione tra gli esperti durante la manifestazione Settembre Rosso e alcune delle analisi addotte da Pisanello.
Nella gestione dei territori la politica ha privilegiato in maniera sempre più evidente e invasiva una logica neoliberista, realizzando un modello di città sempre più ad uso e consumo di un turismo mordi e fuggi, una città vetrina che apre le porte ai consumismi sfrenati, all’imperativo del comprare, perdendo spesso la sua anima più autentica fagocitata dai meccanismi spesso omologanti della globalizzazione. E soprattutto ha finito per diventare una città a misura di una fascia di popolazione medio-alta, che nasconde o rende invisibile ciò che può richiamare alla povertà, alla precarietà, all’emarginazione, tagliando fuori dagli spazi urbani e relegando semmai in aree dimenticate da Dio, i soggetti più fragili, tagliati fuori dalla comunità urbana, ghettizzati in zone periferiche o perseguiti da misure sempre più militaresche in nome del decoro e della sicurezza delle città.
Come si legge in un articolo della stessa Caciagli, “la città si è via via affermata come il bacino di utenza di un turismo diffuso, nonché un luogo tagliato su misura di una fascia di popolazione medio-alta. I governi, a diverse scale, hanno smesso di essere attori pubblici promotori di processi trasformativi e hanno iniziato ad agire come arbitri tra vari interessi privati. […] Una visione politica a lungo termine è andata scomparendo e l’intervento pubblico è coinciso sempre di più con l’applicazione di misure frammentarie tese a permettere al mercato di svilupparsi senza interferenze”[1].
In tutto ciò né i cittadini né gli enti sociali che si esprimono, ad esempio, su questioni legate alla salute degli individui, alle questioni della salute ambientale, del consumo energetico e idrogeologico ecc, vengono interpellati nelle decisioni prese dalle istituzioni riguardanti la gestione del territorio. Cecchini pone all’attenzione del pubblico le problematiche relative alla variante al piano strutturale e al regolamento Urbanistico di Empoli in corso di approvazione che, come ha affermato Valentina Torrini, presidente PD della commissione consiliare ambiente e territorio, “si riferisce a tutte le aree produttive della città, permetterà la realizzazione di nuovi insediamenti produttivi sul territorio comunale e, quindi, consentirà di far crescere l’occupazione, grazie a nuove opportunità di investimento e di crescita dell’economia locale”[2].
La legge sembra voler porre freni al consumo di suolo, ma in realtà questa variante prevede 27 ettari di cementificazione (“l’aumento del consumo di suolo di 27 ettari inciderebbe di un punto percentuale sul totale del territorio empolese”[3]), oltre 120 mila metri quadrati dell’ex polo tecnologico di Terrafino, che il regolamento urbanistico vigente destinava a verde e che ora diventano edificabili come nuovo polo della logistica, spiegano, “senza nessuno studio sulle previsioni di crescita dell’economia locale né dei bisogni attuali, puntando su nuovo sfruttamento di suolo”[4]. Inoltre anche il percorso della variante stessa lascia diverse perplessità, dato che non è stato consultato il parere di enti predisposti alla tutela della salute ambientale, ai consumi dell’acqua e a quelli energetici. Tutte le decisioni sono state prese da proprietari, associazioni di categoria (Confindustria, Cna, Confesercenti) e professionisti di settore, senza interpellare né la cittadinanza, né i sindacati né i comuni limitrofi alle aree interessate dalla variante, come Montelupo Fiorentino (per l’area di via Piovola).
Del resto, assistiamo a processi decisionali che riguardano il territorio che provengono sempre più dall’alto, e spesso questo avviene senza destare un particolare moto di ribellione da parte delle comunità, se non da alcuni gruppi auto-organizzati, che, come vedremo, fortunatamente non mancano. Spesso l’indifferenza alle decisioni riguardanti il proprio territorio deriva dalla sempre più invasiva trasformazione dello spazio pubblico in spazio privato, dal dirottamento della socialità, l’aggregazione, i momenti di condivisione, di ritrovo, di festa, dalle piazze o altri luoghi all’aperto, al chiuso delle proprie abitazioni o ai margini dei centri storici (a meno non si tratti di una socialità volta al consumo) lontani dagli occhi di commercianti e turisti che mettono in moto la macchina del profitto.
Il pubblico è sempre più privatizzato e vissuto dai suoi stessi abitanti come se fossero degli inquilini-consumatori anziché dei cittadini che abitano lo spazio. “La vita viene gestita e plasmata per scorrere dentro i margini del privato, la socialità fuori dai luoghi del consumo viene scoraggiata. Gli abitanti delle città, privati di qualsiasi forma di appartenenza, ideologica e culturale, sembrano inquilini […]. In una società in cui le relazioni sociali occupano un posto sempre meno importante, il concetto di spazio pubblico ha mutato completamente il suo significato, allontanandosi dall’idea di spazio collettivo e diventando sempre più simile all’idea di […] spazio condominiale, di tutti e quindi mai veramente di nessuno”[5].
Un tema che Agostini ha fatto emergere durante il dibattito è stato quello dell’abbandono: i luoghi, nonostante l’aumento delle esigenze e dei bisogni dei cittadini, vengono sempre più lasciati vuoti, abbandonati, sfitti. Il che rende palese la contraddizione insita alla politica di costruzione selvaggia di nuove case, edifici, abitazioni che rimangono inevitabilmente vuote. Il problema sarebbe riempire gli spazi abbandonati o lasciati vuoti, non quello di costruirne altri!
Nella città neo-liberale, ha chiarito la professoressa, la componente fisica, ovvero l’urbs è diventata l’equivalente di una merce da consumare o svendere, mentre la civitas, ovvero la società, i cittadini che abitano la città, è diventata una sorta di società ad azionariato diffuso. Nella progettualità legata all’uso degli spazi urbani, è totalmente assente una visione di insieme, una visione lungimirante e alternativa al mero sfruttamento dei luoghi ad uso e consumo del turista. E in questo vuoto di immaginario, in questa mancanza di progettualità e prospettiva si assiste a un’osmotica e sempre più plastica sovrapposizione di pubblico e privato.
Quest’ultimo non è più l’imprenditore o il costruttore edile, non è più, per intenderci, l’Edoardo Nottola dell’indimenticabile Le mani sulla città, celebre film di denuncia della speculazione edilizia diretto da Francesco Rosi, ma sono le multinazionali che influiscono e prendono decisioni, in maniera più strisciante sull’assetto urbano, sui servizi pubblici, sulle società per azioni, sulle grandi opere. La governance del territorio ha assunto fattezze aziendali, in una commistione continua e disorientante tra imprenditorialità pubblica e iniziativa privata, che non lascia intravedere netti confini tra le due parti. A prevalere è comunque sempre, o comunque molto spesso, la decisione veloce, autocratica, rispetto alla pianificazione, al progetto di più ampio respiro e di maggior lungimiranza e complessità: “il «governo della città» è giocato sulla priorità della decisione, della governabilità, della competizione, della velocità, della forzature delle regole, a detrimento di programmazione e pianificazione”[6].
In questo massiccio processo di mercificazione dello spazio pubblico e in questa ricerca della “brandizzazione” dell’immagine dello spazio pubblico (la pubblicità applicata al territorio, che diventa una sorta di marchio per accaparrarsi olimpiadi, expo, grandi progetti che portano un ingente afflusso di denaro) si promuovono opere e interventi edilizi o strutturali che sono funzionali alle esigenze e opportunità di mercato e di appeal turistico-consumistico e non tenendo conto delle reali esigenze e dei reali bisogni dei cittadini. Come si legge su www.perunaltracitta.org:
“La svendita della città pubblica accelera l’«infrastrutturazione». Grandi Opere Inutili e Dannose alimentano la grande corruzione, distruggono gli ultimi spazi liberi delle aree metropolitane, annullano ogni possibile riutilizzazione di opere, di edifici e beni naturali esistenti nei paesaggi colpiti dall’intervento. Tolgono risorse alle tante «piccole» opere utili e portatrici di lavoro stabile. Infrastrutturazione pesante, centri commerciali, decentramento delle funzioni civili, sprawl abitativo hanno dilatato a dismisura la città. La diffusione territoriale, basata sul trasporto privato, ha occupato estensioni immense di suoli fertili e si è divorata il tessuto commerciale cittadino e gli spazi pubblici, lasciandosi alle spalle vuoti urbani che solo il turismo sembra capace di colmare. L’industria turistica mondiale ha innescato nelle città d’Italia un processo di turistificazione. Corrosione del diritto all’abitare. Cannibalizzazione della storia urbana e territoriale, cancellazione di possibile apprendimento antropologico dalle forme del passato, sistematicamente manipolato attraverso cambiamenti d’uso e ristrutturazioni à la carte, attraverso la produzione di desiderio e consumo ossessivo dell’immagine”[7].
Il principio che guida “le mani sulla città” è proprio quello estetico, quello legato all’immagine fine a sé stessa. Un principio estetico che però diventa anche etico, tracciando una linea netta e discriminatoria tra coloro che sono ritenuti accettabili e coloro che invece non lo sono, tra persone degne e persone indegne, tra conformi e non conformi, tra persone per bene e persone non per bene. In una società “liquida”, in cui le dicotomie, i riferimenti solidi, i valori tradizionali un tempo così radicati – primo fra tutti quello della famiglia – si stanno disfacendo e fluidificando, perdendo i loro confini netti e rigidi, la loro connotazione spesso stretta e limitata, permane, come una delle poche rimaste, la dicotomia netta tra decoro e degrado e quindi tra persone portatrici (percettivamente, almeno) di decoro e persone che a livello percettivo vengono associate al degrado, alla miseria, all’alterità impossibile da assimilare, assorbire, integrare e correggere.
Anche (e forse soprattutto) al livello del linguaggio (che diventa immediatamente portatore di una certa visione etica e politica), si produce una suddivisione rigida in due campi semantici – che diventano anche morali – contrapposti: quello della pulizia, l’ordine, l’uniforme, il legittimo (ovvero la componente “buona e bella”) e quello del degrado, del disordine, dello sporco e dell’informe (la componente brutta e cattiva). Si innalza così una barriera lessicale, etica, culturale, sociale e ovviamente economica e politica tra coloro che sono degni di calpestare le strade cittadine e chi non ha questo diritto:
“La necessità di separare, dicotomizzare, dividere, è stata la caratteristica essenziale della modernità […]. L’epoca postmoderna sta segnando, seppur faticosamente, l’abbattimento di questa binarizzazione, poiché le dicotomie uomo/donna, élite/massa, politico/cittadino diventano sempre meno credibili. Eppure l’efficacia del pensiero razionalista si basa su questo modello […]: essere organizzati o essere vagabondi, dentro o fuori, la linea è già tracciata. Sembra che con l’opposizione decoro/degrado si cerchi di proporre una nuova formulazione del pensiero dicotomico […]. La separazione fra perbene e permale assume una dimensione etica, quanto con etica intendiamo un modello comportamentale delle soggettività e dunque una procedura di normalizzazione”[8].
È in nome di una ricerca meticolosa della purezza estetica, della perfezione estetica appoggiata sul sentimento di insicurezza e paura che i cittadini associano al “non-normato”, all’“anomalo”, all’outsider, a coloro che stanno dall’altra parte della linea che scinde le persone perbene e permale, che vengono legittimati e interiorizzati dal senso comune tutti i provvedimenti militareschi e discriminanti volti a “epurare” i centri storici e le aree turistiche o di consumo dagli “scarti”, i “residui” della società. In nome del decoro, della pulizia, della sicurezza urbana si inventano nuove forme di “caccia alla streghe” miranti a estirpare tutto ciò che può richiamare alla povertà, alla marginalità, al disagio sociale, alla sporcizia, alla devianza, alla non-conformità, alla diversità: “i concetti di sicurezza e decoro si coniugano e si confondono, allo scopo di tracciare una linea che divide i cittadini perbene da quelli «permale» ovvero coloro che per la loro condizione economica, etnica o per il loro stile di vita non sono funzionali alla valorizzazione dello spazio pubblico e per questo devono essere respinti nelle periferie e nei quartieri dormitorio”[9].
[continua nei prossimi giorni]
Immagine Images Money (dettaglio) da flickr.com
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C. Caciagli, Abitare (ne)i territori: espulsione e riappropriazione nei quartieri di Roma, 5 gennaio 2018, in http://www.perunaltracitta.org/2018/01/05/abitare-nei-territori-espulsione-riappropriazione-nei-quartieri-roma/ ↑
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http://www.gonews.it/2018/03/20/variante-urbanistica-empoli-pd-delle-grandi-scelte-governo/ ↑
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http://www.gonews.it/2018/06/09/una-variante-mille-perche-consumo-di-suolo-e-stravolgimento-delle-aree-produttive-a-empoli-secondo-fabricacomune/ ↑
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Ibidem ↑
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C. Pisanello, In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie, Ombre Corte, Verona 2017, p. 66 ↑
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http://www.perunaltracitta.org/2018/06/05/prospettive-politiche-sugli-ambienti-di-vita/ ↑
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Ibidem ↑
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C. Pisanello, op. cit., p. 47 ↑
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Ivi, p. 41 ↑
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.