Alla Conferenza di Monaco il neo-Presidente Biden si è presentato facendo seguire allo «America is back» il naturale corollario «NATO is back». Indicando nella Cina un aggressore economico e nella Russia un aggressore politico, Biden ha chiamato i Paesi europei alla mobilitazione dietro un nuovo ruolo di guida delle stelle e strisce. Le risposte in materia di Macron, già sostenitore di una difesa comunitaria, ma anche di Merkel, pure più ancorata all’alleanza atlantica, fanno intravedere una nuova contraddizione europea fra partecipazione alla NATO e tentativi di autonomia.
Leonardo Croatto
Il mito degli Stati Uniti paradigma della democrazia ha subito un brutto colpo a causa dell’amministrazione Trump. Non che nessuno sano di mente abbia mai davvero creduto che gli Stati Uniti rapresentino un esempio positivo di partecipazione democratica e rispetto del libero arbitrio dei popoli, ma certo un quadriennio di relazioni internazionali gestite da un pazzo squilibrato il cui mandato si è chiuso con l’assalto al parlamento da parte di una folla di scalmanati armati fino ai denti e incitati dallo stesso presidente ha dato una bella sverniciata all’immagine della nazione.
Biden si è affrettato a rassicurare i propri alleati del mutamento delle politiche internazionali USA, garantendo il rinnovato impegno nell’alleanza transatlantica. Dopo quattro anni di insulti distribuiti con liberalità e generosità ai propri alleati, gli Stati Uniti devono ricostruire un clima di fiducia e collaborazione, ma soprattutto devono rassicurare i propri elettori che Trump sia stato un’incidente di percorso, che, cioè, non sia la presidenza Biden a rappresentare una temporanea interruzione nella deriva Trumpiana della nazione.
Nonostante il cambio alla guida del paese, però, le critiche mosse agli alleati restano le stesse, espresse solo in maniera meno sguaiata. Anche la nuova amministrazione USA ha un problema con lo scarso impegno economico di alcuni membri nei confronti di quel carrozzone inutile che è la NATO: il target del 2% del PIL in spese per la difesa da raggiungere nel 2024 – interessante più per l’industria bellica che dal punto di vista della pace mondiale – non sarà sicuramente raggiunto da alcuni paesi, tra cui l’Italia, e anche la nuova amministrazione USA ci ha tenuto a farlo presente. Va detto che, per quanto ci riguarda, non è che ci manchino investimenti più urgenti a cui destinare quarantina di miliardi.
Piergiorgio Desantis
Neanche la pandemia riesce a tirar fuori un po’ di sano pragmatismo churcilliano tra le nazioni. Negli Usa, ma anche in UE, si ripropongono toni anticinesi e russofobi. Probabilmente, l’aggravarsi della crisi sanitaria, sociale e economica imporrà (almeno si spera) relazioni internazionali più distese, visto anche che la pandemia è uno dei fenomeni che spinge nella direzione della globalizzazione, più che nella chiusura nel proprio confine facilmente penetrabile dal virus. Si spera che i vari leader politici saranno all’altezza della situazione così come è accaduto al momento della fine della seconda guerra mondiale.
Jacopo Vannucchi
La finestra quadriennale del mandato di Trump non fu a sufficienza sfruttata dagli stati europei per imbastire una propria comunità autonoma di difesa. I fattori endogeni di questa debolezza possono essere rintracciati nella sensazione dell’ala europeista di trovarsi sulla difensiva, dopo il successo referendario dei Brexiters (giugno 2016), quello appunto di Trump (novembre 2016), il ritorno dell’estrema destra al Bundestag dopo sessant’anni (settembre 2017), l’emergere di una maggioranza anti-Europa alle elezioni italiane (marzo 2018) e il conseguente formarsi in Italia del primo regime di marca trumpista in uno dei fondatori della CEE (giugno 2018).D’altro canto l’elezione di Macron (maggio 2017), la sconfitta di Trump alle mid-term (novembre 2018), il prevalere degli europeisti al rinnovo dell’Europarlamento (giugno 2019), lo sfaldamento del blocco trumpista in Italia (agosto 2019) e la sostanziale assenza di forti ricadute politiche da parte di movimenti eversivi dell’ordine pubblico come i Gilets Jaunes in Francia e Pegida in Germania avrebbero potuto fornire indicazioni in senso contrario.I fattori esogeni risiedono, del resto, proprio nei vincoli pubblici e coperti dell’Alleanza Atlantica.
Le obiezioni della Cancelliera tedesca ai proclami di Biden si sono fondate prevalentemente sulla necessità di coinvolgere la Russia nella sicurezza militare collettiva e la Cina nella gestione dei grandi problemi globali, a partire dal riscaldamento climatico. Nel rapporto con Mosca è evidente il peso del gasdotto Nord Stream 2, contrastato con veemenza dalla longa manus polacca di Washington.
Macron, rivendicando un aumento del contributo francese al bilancio NATO, sembra spingere verso una riattualizzazione dell’originaria idea rooseveltiana per cui Stati Uniti e Cina si sarebbero divisi il Pacifico, Gran Bretagna e URSS l’Europa.
La NATO non andrà in soffitta, la comunità europea di difesa non ci sarà, ma probabilmente dopo Obama e Trump continuerà anche con Biden il forzato risveglio americano dall’illusione di iperpotenza solitaria; l’Europa, spinta dalla pandemia a una maggiore integrazione, potrebbe rosicchiare qualche spazio di autonomia, forse troppo lentamente per poter domani trattare alla pari con la Cina.
Alessandro Zabban
Uno dei tanti effetti della crisi pandemica è stata l’accelerazione di una retorica e propaganda da Guerra Fredda che ha come bersagli privilegiati la Russia e la Cina. Dietro l’aggressione ideologica, sta ovviamente il timore di un rovesciamento dei rapporti di forza geopolitici verso l’Asia e la consapevolezza dello stato di crisi dei regimi occidentali.Dopo Trump, che ha messo in secondo piano la vecchia alleanza atlantica, Biden punta proprio sugli alleati storici della NATO per arginare l’ascesa cinese (e dei suoi alleati) che rappresenta non solo un competitor economico ma, che piaccia o no, anche un modo diverso di organizzare la società e pensare il rapporto fra politica ed economia.Ma compattare l’Unione Europea verso il rilancio dell’alleanza atlantica non è più così facile. Un aspetto fondamentale è che qualsiasi strumento di politica economica per provare a fermare l’avanzata cinese rischia di dimostrarsi controproducente, come ha dimostrato l’esperienza Trump. Escludendo infatti per ora la possibilità di un conflitto aperto, uno scenario di guerra economica di stampo classicamente imperialista come il ricorso a sanzioni o embarghi, potrebbe non piegare le resistenze cinesi e soprattutto creerebbe non poche turbolenze economiche globali, vista la forte dipendenza del mondo occidentale dal mercato cinese. La Germania sembra ad esempio una delle più convinte sostenitrici di una politica cauta con la Cina, poco incline a mettere a rischio il proprio export, soprattutto nel contesto attuale di declino dell’Impero americano. Il segreto di Pulcinella è che senza la Cina il capitalismo internazionale sarebbe al collasso.L’isteria dei paesi occidentali è il risultato di un paradosso: da una parte si rendono conto di avere bisogno della Cina, d’altro canto sanno che la sua ascesa sta cambiando le regole del gioco e li sta mettendo di fronte alle proprie contraddizioni.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.