Dalla Crisi a un nuovo Apogeo
Con tutti i limiti propri della tendenza sociologica a costruire modelli cui la realtà sarebbe chiamata a conformarsi, trovo che la teoria di Strauss-Howe possa fornire un’agile chiave euristica per interpretare le dinamiche generazionali.
Tale teoria è stata sviluppata all’inizio degli anni 1990 da due autori statunitensi, William Strauss e Neil Howe, reinventatisi sociologi dopo un iniziale percorso professionale in materia di governance e politiche pubbliche. L’ambizione del loro lavoro era quella di spiegare il mutamento storico nel mondo anglosassone, negli ultimi quattro secoli, a partire dall’impatto che i cicli sociali esercitano sulle generazioni ad essi coeve.
I cicli sociali, secondo questa teoria, si articolano in quattro fasi:
1. Apogeo. La società è emersa vittoriosa dalla lotta contro una grave crisi; questa vittoria legittima alcuni valori sociali di riferimento, che ricevono quindi una condivisione universale. Ad oggi la più recente fase di apogeo viene individuata nel periodo 1943-1960[1], in cui la società anglosassone si riunì attorno ai valori che avevano consentito di superare la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale: anticomunismo, rifiuto dell’estremismo politico, religione, tradizionalismo familiare, intervento pubblico nell’economia, patriottismo.
2. Risveglio. In questo periodo entra nella vita adulta, e dunque rinnova il gruppo dirigente, la generazione nata e formatasi negli anni dell’apogeo. Una volta adulte queste persone scoprono che l’impalcatura di valori condivisi non risponde in modo soddisfacente ai loro bisogni, i quali vengono quindi perorati tramite una contestazione sociale. La più recente fase di risveglio è individuata nel periodo 1961-1981, pervaso da un rinnovato impegno sociale, alternativo ai valori condivisi, di vario segno: dal movimento pacifista all’antirazzismo militante alle nuove confessioni evangeliche.
3. Disgregazione. In questa fase ad entrare nella vita adulta sono i nati e cresciuti negli anni del risveglio. I valori dell’apogeo sono ormai ridotti a un guscio vuoto, mentre le esigenze della società civile acquisiscono sempre maggiore preponderanza. Vi è la percezione che si possa godere del connubio tra il benessere sociale prodotto dall’apogeo, rinunciando però ai corrispettivi obblighi, e quello individuale reso disponibile dal risveglio. La più recente fase di disgregazione è identificata nel periodo 1982-2004, dominato dalla finanziarizzazione e liberalizzazione dell’economia e da un aumento qualitativo e quantitativo dei consumi costruito sovente sull’indebitamento.
4. Crisi. In quest’ultimo stadio la disgregazione non è più un processo in atto, bensì si è già totalmente compiuta. I valori dell’apogeo sono integralmente dissolti, ma non ne sono sorti di nuovi. Non esistendo alcun collante sociale ideologico, risulta impossibile tanto interpretare il presente quanto immaginare il futuro. I nati e cresciuti nel periodo di disgregazione sono pertanto costretti a confrontarsi con la minaccia di un collasso sociale e a reagire con determinazione per ricostruire un agglomerato coeso. La più recente fase di crisi è quella, ritenuta tuttora in corso, iniziata nel 2005, dominata dalle recessioni economiche e colpita da recrudescenze terroristiche e dalla pandemia di Covid-19.
Strauss e Howe intrecciano fasi e generazioni anche con archetipi della personalità ed età della vita, ma basti fermarsi qui per sottolineare, accanto all’utilità euristica prima richiamata, come questa vera e propria ermeneutica sia di fatto inseparabile dalla sua base materiale: ad esempio la crisi non è una crisi perché sono crollati i valori, ma perché sono crollate le economie e quindi le legittimazioni politiche; l’apogeo non è apogeo perché gli uomini hanno fiducia nei valori, bensì gli uomini hanno fiducia nei valori perché ad essi è collegata la ricostruzione materiale della società; eccetera. Naturalmente i valori possono rafforzare i collanti sociali e la legittimazione ideologica di un sistema, ma non possono crearli dal nulla.
Il pluridecennale periodo di crisi che stiamo vivendo sta volgendo al termine, e che il mondo che essa lascerà sarà molto cambiato è già evidente da molti aspetti. In politica estera l’ultima amministrazione statunitense ad aver creduto nell’illusione dell’iperpotenza solitaria è stata quella di George W. Bush. Obama e Trump, ciascuno a suo modo, hanno entrambi ridimensionato l’esposizione diretta degli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale, prediligendo forme di multilateralismo o di bilateralismo.
Lo si osserva anche nelle previsioni di crescita del PIL rilasciate pochi mesi dal Fondo Monetario Internazionale[2]: fatto 100 il PIL degli Stati Uniti nel 2020, di qui al 2025 gli USA passeranno a 124, l’Unione Europea da 72 a 98, la Cina Popolare da 71 a 111. Il peso di questi attori sul PIL mondiale crescerà solo lievemente, restando tra il 51 e il 52%, ma i rapporti di forza interni varieranno considerevolmente, con un indebolimento degli Stati Uniti a fronte di una crescita della Cina.
La sostanziale stabilità dell’aggregato europeo sarebbe invece, secondo le previsioni del FMI, la risultante di due forze diverse: una crescita di tipo “americano” del nucleo centro-occidentale, una crescita di tipo “cinese” degli stati membri entrati nell’ultimo ventennio.
Se questa crescita del PIL in Europa orientale fosse effettivamente un catching-up, un’armonizzazione interna dei fondamentali economici e sociali, allora di per sé il livellamento delle differenze interne alla UE potrebbe essere un acceleratore dello sviluppo – facendo venir meno, ad esempio, il dumping salariale interno. Come insegna l’esperienza dei governi Tusk in Polonia, però, non necessariamente la messa a frutto dei generosi fondi europei si traduce in un aumento del benessere reale per la popolazione; anzi possono esserne acuite le fratture sociali: ad esempio se la spesa viene concentrata sulle aree metropolitane e al contempo si tagliano servizi alle province; se al miglioramento infrastrutturale con conseguente attrazione di investimenti multinazionali si abbina una concorrenza al ribasso nel mercato del lavoro; se questi fenomeni producono una spinta all’aumento dei consumi pur nel quadro di un ristagno delle retribuzioni reali.
In altri termini, per l’Unione Europea è cruciale la risposta a una domanda banale: che segno avrà il nuovo apogeo che sta per dischiudersi? Per tornare agli esempi di Strauss-Howe, ogni apogeo della storia statunitense ha avuto i suoi sconfitti, gruppi residuali espulsi dalla direzione politica del movimento storico: i comunisti nel 1943-60, i sudisti confederati nel 1860-82, i rivoluzionari radicali nel 1792-1821.
Resta cioè da definire: se in un mondo globalizzato il nuovo apogeo vedrà lo sfibramento forse definitivo della potenza europea oppure al contrario una riassunzione della sua presenza; quale sarà, all’interno della UE, l’indirizzo politico consensuale; se possiamo individuare un legame tra le risposte a questi due quesiti.
Le sfide del governo Draghi
In una lettera al Financial Times, il prof. Brancaccio e il prof. Realfonzo hanno rilevato l’inadeguatezza quantitativa del Recovery Fund, collegandola all’esortazione di una «distruzione creativa» rivolta da Mario Draghi al G30. «Questo non è Keynes, ma una versione laissez-faire di Schumpeter» era la conclusione sommaria.[3]
In questa analisi possiamo distinguere due livelli: il limite strutturale del Recovery Fund, che per la sua modestissima entità renderebbe impercorribile qualsiasi reale politica keynesiana; un vizio concettuale presente nella visione economica del prof. Draghi che, scaricando i costi della crisi sul settore privato, sembrerebbe ben abbinarsi a una ristrutturazione capitalistica particolarmente brutale («una crisi che solo nello scorso anno ha distrutto oltre 160 miliardi di euro di PIL»).
Per ciò che riguarda il volume del Recovery Fund, si tratta senza alcun dubbio di cifre davvero inadeguate a fronteggiare le dimensioni del compito. Non tanto perché possano o non possano tamponare l’emergenza, o ripristinare lo status quo ante, ma perché sarebbe davvero difficile usarle per rilanciare il tessuto produttivo europeo – dove con rilancio s’intende un rilancio sostenibile, ciò su diversi piani:
1. Sostenibile sul piano sociale. Quando si parla di dignità del lavoro vi sono due aspetti materiali immediati da considerare: il livello retributivo e la possibilità di trovare un nuovo lavoro. Entrambi questi indicatori risultano in sofferenza nell’Europa attuale. In Europa orientale soltanto il primo, in Europa occidentale anche il secondo.
Inoltre la capacità del mercato del lavoro di offrire livelli dignitosi di retribuzioni e di opportunità lavorative è tale solo se perdura nel tempo. In altri termini, il rilancio produttivo europeo deve essere in grado di crescere e progredire anche trascorsa la fase dell’emergenza.
2. Sostenibile sul piano generazionale. Questo è forse una sottocategoria del punto precedente, ma vale la pena darle rilevanza autonoma per mettere in luce come, anche in Europa orientale, la combinazione di restrizione salariale e precarietà occupazionale stia restringendo sempre più la riproduzione demografica. Affrontare questa alterazione della piramide di età intervenendo sulla spesa pensionistica, ossia restringendo gli assegni pensionistici dei Millennial, significa rafforzare gli effetti viziosi di un circolo di costante pauperizzazione.
3. Sostenibile sul piano ecologico. Questa può apparire un’ovvietà su cui gran parte del mondo politico europeo si dice concorde, ma diventa meno ovvia quando la si mette in relazione con le condizioni di partenza delle aree che cresceranno maggiormente nel prossimo quinquennio.
Per tornare all’esempio della Polonia, soltanto dal 2013 il Paese ha introdotto il principio della raccolta differenziata, lasciando comunque amplissima discrezionalità alle amministrazioni municipali fintanto che regolamentazioni UE non hanno imposto l’uniformità entro il 2020. Ancor peggiore appare la situazione della Romania: con un PIL che è previsto crescere del 55% nei prossimi 5 anni, nel 2018 soltanto il 69% della popolazione aveva accesso all’acqua corrente, percentuale che nelle zone rurali scendeva al 35%.[4] Sempre nel 2018, il 50% dei nuclei familiari rurali non disponeva di un bagno domestico[5] – un problema ancora sufficientemente presente in Polonia da essere stato citato nel programma elettorale della Coalizione Civica (centro) a ottobre 2019.[6]
Appare evidente che le necessità di costruzione infrastrutturale hanno il potenziale di produrre un considerevole impatto ambientale, nella direzione della sostenibilità ecologica o meno.
Esposti così i criteri fondamentali della ricostruzione economica, resta da rispondere alla domanda sul ruolo del prof. Draghi.
A questo proposito non è peregrino allargare lo sguardo dall’Italia agli altri due maggiori Stati UE, Germania e Francia.
L’Europa, le sue debolezze, i suoi nemici
La Germania avrà elezioni a settembre, e con la cancelliera Merkel che ha già annunciato il proprio ritiro si aggiunge ulteriore incertezza: quale che sia il risultato elettorale, il nuovo capo di governo dovrà costruirsi un’immagine, una rete di rapporti, un potere negoziale che non potrà limitarsi a ricevere in eredità dalla predecessora. In Francia Macron è eleggibile per un secondo mandato a maggio 2022 e quindi entrerà a breve nell’anno di campagna elettorale durante il quale avrà minori margini di manovra, sia nei confronti dell’opinione pubblica nazionale sia rispetto agli interlocutori internazionali, per propugnare l’agenda di integrazione europea sulla quale ha così spesso puntato, talvolta contraddittoriamente (non rinunciando cioè a perseguire su un binario parallelo la tradizionale politica estera francese nei riguardi delle ex colonie).
A partire dalla Francia può essere rilevato anche un ulteriore aspetto. Il presidente Macron è stato non soltanto il più audace sostenitore di un aumento dell’integrazione politica europea, ma anche l’unico a trarre le logiche conseguenze dalla richiesta dell’amministrazione Trump che i Paesi europei aumentassero il proprio contributo al bilancio della NATO. Il 6 novembre 2018, visitando campi di battaglia della Francia nord-orientale nel corso delle celebrazioni del centenario di fine della Prima Guerra Mondiale, Macron disse che la pace in Europa era indebolita dal nazionalismo e dal populismo e che gli europei avevano bisogno di un vero esercito per «proteggerci rispetto alla Cina, alla Russia e anche agli Stati Uniti d’America».[7] Le reazioni non si fecero attendere: il 9 novembre Trump definì la proposta «molto offensiva»[8]; il 13 novembre Merkel parlando all’Europarlamento si disse favorevole a «lavorare a una visione per creare, un giorno, un vero esercito europeo» che comunque sarebbe stato complementare alla NATO[9]; il 16 novembre iniziavano in Francia le terribili proteste dei «gilet gialli» che misero a ferro e fuoco le grandi città per quattro mesi.
A distanza di un anno Macron tornò all’attacco, definendo la NATO «clinicamente morta» in un’intervista pubblicata dall’Economist il 7 novembre 2019. Stavolta perfino la Merkel censurò le considerazioni del Presidente francese.[10]
Per il prestigio internazionale di cui gode, massime in sede europea, Mario Draghi si trova nella condizione di esercitare un’influenza che sarà ancor più accresciuta dal contingente indebolimento di forza negoziale tedesca e francese. Al tempo stesso l’Italia, che come la Germania è territorio di stanza di numerose truppe statunitensi, sconta però una limitazione di sovranità che necessariamente ne condiziona le scelte politiche.
Inoltre Mario Draghi è celebre come l’uomo del «whatever it takes»: «La Banca Centrale Europea è pronta a fare, nei limiti del nostro mandato, qualsiasi cosa serva per difendere l’euro. E credetemi: sarà sufficiente». Questa frase fu pronunciata a luglio 2012 non in una sede pubblica, bensì, molto significativamente, nel corso di una conferenza privata di fronte a una platea di alti dirigenti e grandi investitori. Fu cioè un gentile avviso nei confronti della grande speculazione internazionale che intendeva mettere in ginocchio l’euro spezzandogli le gambe una per una, partendo dalla più debole – la Grecia – e proseguendo con le altre vittime una dopo l’altra: Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia. Questi attacchi erano stati incoraggiati dalla miope gestione della crisi del debito greco, che aveva originato, nell’incontro di Deauville del 18 ottobre 2010, il comunicato di Merkel e Sarkozy sul «coinvolgimento del settore privato» nella risoluzione delle crisi dei debiti sovrani.[11] In altri termini, l’insolvenza di uno Stato UE avrebbe potuto tranquillamente comportare fallimenti a catena nel sistema creditizio.
Arrestando questa corsa allo spolpamento dell’eurozona non è difficile immaginare che Mario Draghi si sia creato nemici di alto calibro.
In sintesi, quindi, governo Draghi: grandi opportunità, grandi ostacoli.
Continua nei prossimi giorni
La «distruzione creativa»
Ma qual è, dunque, la politica che il nuovo esecutivo intenderà perseguire? Colgono nel giusto Brancaccio e Realfonzo nel parlare di uno schumpeterismo del laissez-faire? Si tratterà di una riedizione del 2011, seppur presentata con un altro vocabolario semantico?
E, al di là delle intenzioni del Presidente del Consiglio, una base politica talmente estesa non è la garanzia o di un sostanziale immobilismo oppure di uno scavalcamento della politica per mano dei maggiori poteri economici?
I parallelismi con Monti e con il 2011 si scontrano contro il diverso orientamento di politica economica europea e contro la diversa situazione italiana. Allora il nuovo governo fu chiamato all’arduo e ingrato compito di mettere al riparo, senza porre alcun tempo in mezzo, i conti pubblici così gravemente dissanguati dalla speculazione sul debito. Per tamponare questa emorragia finanziaria il governo Monti doveva cioè trasferire risorse dalla società allo Stato; per tamponarla immediatamente, esso attinse, come fu rilevato all’epoca dalla CGIL, dove era facile e non dove era giusto.[12] Questa fu una dura necessità i cui effetti sociali furono peraltro mitigati e sfumati: il blocco dell’indicizzazione delle pensioni, ad esempio, non coinvolse le due fasce minime e per quanto riguarda le altre fasce fu restituito, in quote decrescenti all’aumentare della fascia di reddito, dal governo Renzi nel 2015.[13]
Nel 2021, invece, il governo italiano si trova nell’inversa posizione di gestire un trasferimento di risorse dallo Stato alla società. Ne consegue naturalmente un’occasione più appetitosa per il palato dei partiti politici, che si guardarono bene dal condividere le responsabilità ministeriali del governo Monti ma non si sono fatti pregare due volte per entrare en masse nel governo Draghi. In più stavolta non si tratta di effettuare un intervento d’urgenza su un paziente-Italia che rischia di non poter più pagare pensioni e stipendi: il focus oggi è delineare un piano di ricostruzione che si dispieghi nel corso degli anni e che possa riprogettare lo sviluppo del Paese.
Una consonanza del Draghi 2021 può esservi però non con il Monti 2011, ma con il Monti 2021. Nell’ormai celebre intervento sul Financial Times di marzo 2020 Mario Draghi indicò che gli Stati dovessero farsi carico, tramite il debito pubblico, di mantenere posti di lavoro e capacità produttiva nonostante le perdite del settore privato durante i lockdown. «L’alternativa», – avvisò – «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale, sarebbe molto più dannosa per l’economia e in ultimo per il credito pubblico».
Dunque di che tipo è la «distruzione creativa» cui fanno riferimento Brancaccio e Realfonzo? Nel citato indirizzo al G30 Draghi e gli altri co-autori indicavano come la pandemia abbia accelerato le trasformazioni in atto (adducendo l’esempio specifico della digitalizzazione), il che porterà necessariamente al ridimensionamento di alcune aziende e al sorgere di nuove. Al tempo stesso si raccomandava ai poteri pubblici non solo di fornire ai lavoratori un’adeguata assistenza e riqualificazione, ma anche di adottare politiche per la gestione dei tempi di questa distruzione creativa così da evitare che un’eccessiva concentrazione di cessazioni d’attività provocasse un’ondata di fallimenti a catena.[14]
Queste considerazioni richiamano molto da vicino le parole con cui il sen. Monti, sul Corriere della Sera del 16 gennaio, poneva le proprie condizioni per rinnovare la fiducia al governo di Conte: «porsi con urgenza il problema di quanto abbia senso continuare a “ristorare” con debito, cioè a spese degli italiani di domani, le perdite subite a causa del lockdown, quando per molte attività sarebbe meglio che lo Stato favorisse la ristrutturazione o la chiusura, con il necessario accompagnamento sociale, per destinare le risorse ad attività che si svilupperanno, invece che a quelle che purtroppo non avranno un domani».[15]
Tale posizione fu rilevata ex post in forte contrasto con il rinnovato «sì» governo pronunciato da Monti in Aula a favore di un esecutivo ormai identificato con «una politica economica fortemente corporativa, diventata bonus e favori in tempi di pandemia»[16], ma è anche in linea con la politica definita dalla Commissione Europea e dall’Eurogruppo.[17]
[Continua nei prossimi giorni]
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Gli anni sono quelli forniti indicativamente da Strauss-Howe (solo da Howe, dopo il decesso di Strauss nel 2007) specificamente per la società degli Stati Uniti, ma, entro un’oscillazione di pochi anni, possono essere considerati validi anche per il resto dei Paesi capitalisti occidentali. ↑
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https://www.imf.org/en/Publications/WEO/weo-database/2020/October/weo-report ↑
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https://www.ft.com/content/5cc0c81a-cf30-4909-88c5-ffe69c0826c3 ↑
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https://insse.ro/cms/sites/default/files/com_presa/com_pdf/distributia_apei19r.pdf Per il 2019 non è stata fornita la suddivisione fra zone urbani e rurali, ma i dati e il disaggregato per regioni confermano la grave arretratezza delle campagne: https://insse.ro/cms/sites/default/files/com_presa/com_pdf/distributia_apei20r.pdf ↑
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https://insse.ro/cms/sites/default/files/field/publicatii/conditiile_de_viata_ale_populatiei_din_romania_in_anul_2018.pdf ↑
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I dati citati quantificavano in un milione gli appartamenti senza bagno e in mezzo milione quelli senza acqua corrente: https://platforma.org/upload/document/86/attachments/121/KO%20Program.pdf (Łazienka w każdym domu, p. 80). ↑
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https://www.theguardian.com/world/2018/nov/06/macron-calls-for-real-european-army-at-start-of-war-centenary-tour ↑
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https://www.france24.com/en/20181109-france-trump-macron-european-army-eu-insulting ↑
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https://www.nytimes.com/2018/11/13/world/europe/merkel-macron-european-army.html ↑
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https://www.nytimes.com/2019/11/07/world/europe/macron-nato-brain-death.html ↑
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https://www.repubblica.it/economia/2016/06/10/news/quella_solidarieta_europea_infranta_da_merkel-sarkozy_all_inizio_dell_onda_populista-141683204/ ↑
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https://www.repubblica.it/politica/2015/05/18/news/indicizzazione_pensioni_governo_renzi_rimborsi_500_euro-114636840/ ↑
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https://group30.org/images/uploads/publications/G30_Reviving_and_Restructuring_the_Corporate_Sector_Post_Covid.pdf ↑
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https://www.corriere.it/editoriali/21_gennaio_16/condizioni-la-fiducia-6c77e5a2-583f-11eb-ae23-b4c117d7c032.shtml ↑
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https://www.linkiesta.it/2021/01/mario-monti-corriere-fiducia-conte/ ↑
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https://www.askanews.it/economia/2021/02/15/alleurogruppo-comincia-la-discussione-sulle-imprese-da-non-salvare-top10_20210215_230643/ ↑
Immagine di Alfredovic (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.