Pubblicato per la prima volta il 21 giugno 2018
Nei primi mesi del 2014 incontrai in treno un fu compagno dei Democratici di Sinistra, poi gravitante nell’area della sinistra radicale, che mi spiegò il 25% del M5S alle elezioni dell’anno precedente con la motivazione «è mancata Rifondazione Comunista». Sul M5S, cioè, si sarebbe riversato quel voto antisistema che Rifondazione nel ventennio precedente era riuscita a mantenere nell’alveo istituzionale.
Quell’analisi non mi convinse del tutto. La convergenza del PD e del PdL nel sostegno al Governo Monti aveva prodotto un’otturazione della valvola di sfogo comunemente costituita dall’alternanza dei consensi fra una maggioranza e un’opposizione; questo sfogo non poteva neppure più passare, come alle europee del 2009, dai partiti “populisti” di Lega e Italia dei Valori perché anch’essi erano screditati da alcune inchieste. Tali condizioni di partenza, che favorivano certamente un afflusso di voti al M5S, lo avrebbero però favorito parimenti a Rifondazione, che come i grillini era extraparlamentare e si collocava in radicale opposizione all’esecutivo Monti.
Quindi perché quei voti di contestazione andarono al M5S, che come tutti i partiti “populisti” è pro-sistema e non antisistema? Sicuramente la potenza di fuoco mediatica del M5S ha avuto un ruolo molto forte, ma, al pari di quella di Berlusconi in passato, si è giovata di un humus particolarmente predisposto.
Tra i punti programmatici del M5S generalmente considerati “di sinistra” vi è il reddito di cittadinanza. L’equivoco discende dal clamoroso abbaglio secondo cui assicurare l’affluenza del denaro in tutte le fasce sociali sarebbe prettamente “di sinistra”; abbaglio del resto favorito e in parte scusato dal fatto che sinistra e destra sono concetti scivolosi e sfuggenti se non vengono determinati in definizioni chiare sul piano ideale e culturale (ad esempio socialismo, socialdemocrazia, socialismo democratico, eccetera). La sinistra più avanzata sul piano analitico e storico, ossia non la vecchia sinistra materialista, repubblicano-radicale, di derivazione mazziniana o giacobina, bensì la sinistra marxista – che è poi quella storicamente predominante in Italia dopo la Prima guerra mondiale – non vede affatto nel denaro un mezzo di sviluppo dell’uomo. Al contrario, il denaro è per Marx una patologia dello sviluppo: egli lo definisce «il potere alienato dell’umanità», «la confusione universale», «la meretrice universale». La vera essenza dell’uomo e la scaturigine della liberazione umana risiedono per Marx non in un potere alienato creato artificiosamente, bensì all’opposto nel potere creativo dell’uomo stesso, ossia nel lavoro. Marx non crede che il salario debba essere aumentato, ma che il meccanismo di accumulazione debba essere radicalmente rivoltato.
Certo, la storia dell’uomo dimostra fin qui che un modo di produzione si estende all’incirca per quindici secoli, il che vuol dire circa cinquanta generazioni; nel trascorrere di queste generazioni, è utile alla vita dei vivi mantenere l’equità retributiva («sul lungo periodo siamo tutti morti», ricordava Keynes). Ma ciò non toglie che il salario è per Marx una schernente forma di sfruttamento, tanto che egli definisce il lavoro salariato Lohnsklaverei, schiavitù salariata, in quanto il salariato, come lo schiavo, non gode i frutti del proprio lavoro ed è costretto per sopravvivere a vendere ad altri il proprio potere creativo.
Si aggiunga poi che il M5S non intende minimamente aumentare il salario: quella del salario minimo orario, infatti, è una proposta del Partito Democratico. Il M5S vuole aumentare il reddito, con l’obiettivo di sostenere i consumi anche in seguito a una prevista (o, meglio, auspicata) catastrofe occupazionale provocata dall’automazione industriale e informatica. Il paradigma marxista – “di sinistra”, secondo gli ultimi cento anni di storia italiana – è completamente rovesciato: si difende il consumo, non il lavoro; l’uomo si arrende al macchinario invece di dominarlo.
Eppure, non è impossibile trovare una corrispondenza tra queste tesi, distopiche e agli antipodi della sinistra, e alcune tesi che già si affacciarono in Rifondazione (e ancor prima) e che serpeggiano oggi confusamente nella grande palude dei lavoratori precari o minacciati dal precariato.
Il rivolo libertario che uscì dal lungo Sessantotto italiano, stanco dell’ubriacatura di maoismo e di violenza, iniziò a teorizzare non la liberazione del lavoro bensì la liberazione dal lavoro. Questo tema fu forse influente già nell’ispirare le campagne degli anni Novanta (non solo in Italia) per la riduzione della settimana lavorativa a 35 ore; i fenomeni che al giorno d’oggi hanno provocato e favorito questo spostamento concettuale mi sembrano due, ossia il declino della quota di lavoratori che provano fatica fisica e il declino della quota di lavoratori a tempo indeterminato.
La crescita del settore dei servizi ha aumentato la dissociazione tra occupazione e fatica del corpo (sebbene il lavoro impiegatizio possa produrre un logorio psicologico), abbassando quindi la sensibilità immediata del lavoratore di rivendicare il lavoro come proprio, ossia la coscienza di classe. Il rarefarsi dei contratti a tempo indeterminato mostra invece il lavoro non come una fonte di sostentamento ma anzi come una condanna della natura matrigna contro l’uomo, al modo in cui la necessità di nutrirsi è una condanna terribile per l’affamato. Faticare nel proprio lavoro e trarne di che vivere sono due facce di un medesimo aspetto: la compenetrazione dell’uomo con la sua occupazione.
Esistono diversi giovani e meno giovani che si ritengono di sinistra e che guardano all’automazione con un misto di aspettativa e timore: timore per la falciatura di posti di lavoro, aspettativa per l’aumento del tempo libero. E la portata stessa dell’automazione viene di molto ingigantita, non solo comprensibilmente da chi la subisce ma anche da chi la dovrebbe governare: la cosiddetta industria 4.0 in realtà non è altro che una industria 3.1, ovvero la seconda fase della Terza rivoluzione industriale.
Il reddito di cittadinanza, le ferie libere, la riduzione delle ore di lavoro sono oggi salutati come un passo verso la liberazione dal lavoro. Ma per Marx la liberazione dal lavoro salariato non può significare abolire il lavoro, che sarebbe come abolire l’uomo, bensì soltanto abolire il salario. L’abolizione del salario, strictu sensu, può portare in due direzioni:
a) indietro, verso il ritorno al lavoro schiavile comprato in natura;
b) avanti, verso l’abolizione del denaro tipica delle società comuniste (ancora irrealizzate in Terra: i bolscevichi nel 1918 salutavano l’iperinflazione come estinzione del denaro, ma non andò esattamente così).
Dato che al momento non siamo alle soglie dell’abolizione del denaro – anzi, è proprio su di esso che si basa la politica distributiva del M5S – l’unica via che resta è quella all’indietro, quella verso un’altra forma di schiavitù e di alienazione, il consumo senza lavoro.
Ma, quindi, il Movimento 5 Stelle è di destra o di sinistra (anche se non marxista)?
Il Movimento 5 Stelle presenta i connotati dei partiti fascisti e, come il fascismo, ha tra le proprie radici una che lo connette al terreno originario della sinistra. Come per il fascismo mussoliniano, l’antico retroterra di sinistra del M5S è costituito dall’ala radicale della Rivoluzione francese.
Per il fascismo storico il punto di riferimento era il giacobinismo in senso stretto – nonostante l’orientamento vandeano e legittimista delle sue politiche – ossia la tradizione dirigista, la concezione organica della nazione, il rifiuto del classismo, il prevalere della cospirazione sull’istituzione. La mediazione tra il repubblicanesimo giacobino e il fascismo italiano fu costruita dapprima su Blanqui e poi, con più impegno, su Mazzini.
Per il M5S, invece, l’ispirazione non è al giacobinismo in senso stretto bensì alla tradizione sanculotta. I sanculotti costituirono la forza mobilitata grazie a cui i giacobini riuscirono a mantenere il potere in condizioni disperate, ma vi è tra i due movimenti una differenza fondamentale. Lo spirito dei sanculotti era quello di distruggere l’antico regime e in particolare di realizzare tale distruzione con eruzioni di rabbia subitanee, immeditate e violente: l’assalto alla Bastiglia, la marcia su Versailles, l’attacco alle Tuileries, i massacri di Settembre nelle prigioni, i linciaggi e le decapitazioni sommarie. I giacobini, invece, che erano nati come un partito borghese e costituzionale, intesero sfruttare la forza dirompente del popolo, incanalarla in un percorso di sviluppo nazionale e civile, e con ciò stesso limitarono le brutalità: per un confronto, nei sei giorni dei massacri del settembre 1792 vennero uccise sommariamente 1200-1400 persone (215 al giorno), mentre le condanne a morte comminate dal Tribunale rivoluzionario giacobino furono 1251 in quattordici mesi di “Terrore” (3 al giorno) e ancora 1376 nei quarantasette giorni di “Grande Terrore” (29 al giorno).
Le parole in stile Casaleggio di Giuseppe Conte – «sarò l’avvocato difensore del popolo» – sono fatte per richiamare “l’amico del popolo”, Jean-Paul Marat, capo dei sanculotti parigini.
Ma a quale popolo fa riferimento il M5S? La parola può assumere almeno quattro significati:
- la comunità nazionale
- la comunità culturale
- le classi inferiori
- la gente, indistintamente
Se la rivoluzione francese ha connotato il termine sotto il primo aspetto, il pensiero cattolico sotto il secondo e la rivoluzione russa sotto il terzo, è al quarto che sembra fare riferimento il M5S e prima di esso il PdL. Il richiamo del M5S ai contenuti egualitari della rivoluzione francese è puramente formale e si esaurisce nell’appellativo “cittadino” – en passant, fu Bertinotti come Presidente della Camera a dire nel 2006 che il titolo con cui avrebbe voluto rivolgersi ai colleghi non era onorevole (che non usava) e neppure deputato (che usava), ma cittadino.
Il motto di “uno vale uno” non è soltanto falsificato dalla reale struttura del controllo esercitato da Casaleggio sul M5S. È, ancor prima, espressione non di un’eguale dignità dei cittadini bensì di una loro eguale decadenza; la sua traduzione più corretta è “ciascuno vale nulla”. L’imposizione formale dell’uguaglianza, infatti, non venendo accompagnata da politiche sostanziali di formazione della persona si riduce nel generale livellamento al minimo comune denominatore, quello della mediocrità. Questo fatto è stato massimamente evidente nelle elezioni 2013, in cui il M5S ha selezionato i candidati non soltanto imponendo il requisito di essere nuovi alla politica ma anche demandando la scelta delle pedine a votazioni online che hanno premiato perfetti signor nessuno. Per un confronto, anche Scelta Civica con Monti candidava persone fin allora esterne alla politica, ma in essa erano rappresentate competenze ed energie della società civile.
Come si vede, il pensiero di Marat e le sue lotte per l’elevazione del popolo vengono, come già il pensiero di Rousseau sulla democrazia diretta, gravemente travisati.
La diseducazione popolare avvenuta grazie all’imbarbarimento della comunicazione e all’indebolirsi delle strutture partitiche ha reso possibile la penetrazione di forze reazionarie presso gli strati inferiori della società; tuttavia, la politica di macelleria sociale e isolamento internazionale che si annuncia per parte del Governo Conte sarà in grado di far venire i nodi al pettine e scioglierli. Quando il commissario Oettinger disse che i mercati avrebbero insegnato agli italiani a votare omise un punto: o ci penseranno i mercati o ci penserà la miseria, come hanno già insegnato a non votare per il Msi e a non votare per Berlusconi.
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.