I pesci non esistono è un libro complesso, non semplice da inquadrare in una precisa categoria. Saggistica stona, per un libro scritto con uno stile leggero e accattivante, nonostante una parte consistente sia dedicata alla bibliografia consultata, peraltro puntigliosamente suddivisa per capitoli; divulgazione scientifica, questo lo è certamente, anche se la divulgazione si incrocia ad aspetti biografici e autobiografici. Sicuramente, tra le varie cose, è una biografia di David Starr Jordan (1851-1931), un gigante dell’ittiologia ottocentesca, fondamentale per i biologi marini come me, ma abbastanza ignorato dal grande pubblico, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti d’America.
Lulu Miller ripercorre in maniera coinvolgente la vita di Jordan, dall’infanzia in una rigida società puritana alla morte in tarda età, tratteggiandone vividamente sia la poliedrica passione per la scienza e la formazione, sia gli aspetti più controversi – le sue discutibili azioni come rettore dell’Università di Stanford, lo strenuo supporto a teorie e politiche eugenetiche, persino un inquietante sospetto di omicidio. In controtendenza con la prassi in voga negli USA contemporanei, l’autrice non ricorre alla discutibile pratica del cancelling – ossia la damnatio memoriae di un personaggio pubblico nel momento in cui emergono degli aspetti problematici nel suo pensiero o nella sua biografia. Al contrario, cerca di capire – e cerca di far capire al lettore – come anime apparentemente così contraddittorie potessero coesistere nella stessa persona – come la stessa persona che scriveva favole per bambini e si appassionava per la pianta più infima e irrilevante sia il fondatore di una perniciosa linea di politiche eugenetiche basate sulla sterilizzazione coatta che, iniziate nel 1907, sono proseguite fino all’inizio degli anni ’70 e localmente vengono ancora applicate – quanto legalmente non è dato sapere, dato che, formalmente, le leggi in questione non sono mai state abrogate.
La biografia di David Starr Jordan si mescola con elementi autobiografici dell’autrice – e in particolare con il vincismo tossico che rappresenta in qualche modo uno dei centri ideologici della cultura USA. Senza procedere a j’accuse o a confronti con altri contesti culturali, l’autrice sottolinea come una persona già di per sé insicura, o con tendenze depressive, o semplicemente neurodivergente non possa che essere schiacciata dal confronto con l’idea di una perseveranza che, se non viene sfiorata dalla minima ombra di dubbio, se riesce a sopravvivere intatta agli scherzi del caso, premia con il successo economico e sociale. Miller identifica Jordan come un rappresentante di questa ideologia del successo (in particolare, concentrandosi sul salvataggio in extremis di gran parte della collezione ittiologica di Stanford, danneggiata da un terremoto, come elemento centrale) e la associa al positivismo (quest’ultima associazione è possibilmente spuria, e le affinità tra le due ideologie sono probabilmente il risultato di un’evoluzione convergente, più che di una diretta filiazione, ma è vero che nel caso di Jordan è difficile distinguere tra le due).
Ora, per quanto in Europa questo fervore nel criticare un’ideologia sostanzialmente estinta da novant’anni possa lasciare perplessi, è abbastanza chiaro quale sia il bersaglio di Miller, nel decostruire e criticare l’ideologia positivista che ha condotto alle politiche eugenetiche.
Non è un segreto che gli USA siano la culla di un neopositivismo che si ripropone, con variabile successo, da almeno sessant’anni, gode di un consistente supporto tanto da parte Democratica quanto da parte Repubblicana (sì, non facciamoci ingannare dalle sparate di Trump al riguardo, i Repubblicani quando possono cercano di farsi dare ragione dalla scienza) e presenta l’evidenza scientifica e la misura quantitativa come l’unica chiave di lettura della realtà – e quindi l’unico fondamento per la scelta politica. Questo tipo di prospettiva è il motivo per cui si continuano a riproporre dibattiti surreali sulla distribuzione del quoziente intellettivo attraverso le classi sociali, in cui progressisti e conservatori sostengono posizioni opposte, ma egualmente basate sull’assunto poco sostenibile della possibilità di dare una misura oggettiva di intelligenza.
Tuttavia, su questo punto si rileva una sorta di cortocircuito logico. Pur criticando l’impostazione positivista che ha portato, attraverso l’ipotesi dell’ereditarietà della devianza sociale e mentale, alle politiche eugenetiche negli USA, l’autrice non mette realmente in discussione l’idea che la scelta politica debba essere in definitiva informata esclusivamente dal dato scientifico. La principale critica è legata al fatto che la teoria su cui le politiche sono state fondate era sbagliata; che le persone coinvolte (figli e figlie di alcolisti, disabili, psicolabili o semplicemente sottoproletari) sarebbero state in grado di avere vite familiari assolutamente normali che sono state loro negate attraverso la sterilizzazione coatta. Il punto centrale, però, non è il fatto che l’eugenetica non funziona; la negazione coatta dei diritti riproduttivi di determinate categorie di cittadini non sarebbe più accettabile se la teoria scientifica alla sua base fosse corretta, se fosse possibile evitare la riproduzione di “aberrazioni”. Sostenere che il problema di fondo dell’eugenetica statunitense (ma anche di quella contemporaneamente sviluppata nei più avanzati Paesi europei) sia che ha punito persone che, in definitiva, erano “normali” corrisponde a sostenere che chi “normale” non è ha comunque una vita di seconda categoria, su cui lo stato potrebbe avere il diritto di intervenire pesantemente. È, in definitiva, quello che oggi definiamo abilismo.
Più in generale, l’impostazione di Miller presuppone che la scienza di fine ‘800 fosse incompleta. Giusto. E che oggi una scienza completa, o quanto meno più completa, sia in grado di scardinare le fallacie della scienza ottocentesca. Altrettanto giusto. Sostituendole con una scienza finalmente oggettiva. Sbagliato. La scienza ha una struttura sperimentale che tende a svincolarla dagli aspetti soggettivi, ma rimane un elemento culturale; non solo lo scienziato decide quale tema gli interessa investigare, e quindi seleziona in maniera soggettiva l’angolo dal quale osservare la realtà, ma sceglie anche il linguaggio, il lessico con cui presentare e categorizzare le proprie scoperte.
Le rivoluzioni scientifiche non sono mai il prodotto di una sola mente geniale, come siamo stati abituati a pensare, ma nascono all’interno di una comunità scientifica, e sono il risultato di dibattiti lunghi decenni: il fatto che gli organismi possono variare, e che questa variazione può essere ereditaria, sono concetti già goffamente abbozzati nella Bibbia; da quando il tema è stato affrontato in maniera scientifica, a metà ‘700, sono stati necessari circa cent’anni per giungere ad una teoria coerente su come la variabilità venisse selezionata, ed altri cento per capire come le variazioni venissero prodotte. Non è peraltro sorprendente che i cambiamenti di paradigma scientifico corrispondano in genere a cambiamenti culturali: lo studio dell’elettromagnetismo, empiricamente noto nelle sue manifestazioni da letterali secoli, assume una struttura nel momento in cui si diffonde il romanticismo; il riduzionismo biologico prende piede con l’industrializzazione avanzata del mondo occidentale; e così via.
Il contesto culturale interviene anche nel modo in cui si descrive un processo naturale: la selezione naturale, che i positivisti dell’800 tendevano a descrivere come uno spietato processo selettivo basato su un feroce corsa agli armamenti da parte degli organismi viene rappresentata, a partire dalla seconda metà del ‘900, come un processo basato sull’interdipendenza e sulla coevoluzione, in cui la competizione rimane, ma consiste più nello sviluppare soluzioni più convenienti ed efficaci degli altri, che non sullo sbatterli fuori dall’autostrada della vita. Ambedue le rappresentazioni sono legittime, si riferiscono ad un processo reale, supportato da dati concreti, ma al tempo stesso sono prodotti culturali associati ad uno specifico periodo e a una specifica cultura.
Un aspetto problematico della cultura USA, che chiunque svolga un lavoro intellettuale ed abbia colleghi statunitensi si è trovato ad affrontare, è rappresentato dalla visione ideologica per cui gli Stati Uniti d’America rappresentano l’apice della cultura umana, da tutti i punti di vista, in qualunque momento storico. Non è, in realtà, una prospettiva troppo differente da quella europea, ma è se possibile ancora più ristretta e limitata. Per quanto I pesci non esistono sia, in primo luogo, rivolto ai lettori statunitensi, non tiene in considerazione il fatto che la prospettiva statunitense sulla scienza può essere (stata) politicamente egemone, ma certamente non è universale. Per fare solo un esempio, l’Italia, che da vari punti di vista mostra chiari elementi di vassallaggio culturale nei confronti degli USA, ha visto uno scarsissimo successo del neopositivismo statunitense; persino durante la pandemia da Covid-19 le spinte iperscientiste sono state accolte tiepidamente, e questo si deve più allo scarso entusiasmo di una parte consistente della comunità scientifica che all’antiscientismo d’accatto cavalcato da alcune parti politiche e da altre presentato come spauracchio, ma in definitiva meno diffuso di quanto sembri.
Il positivismo, ed eventuali sue diramazioni ed evoluzioni, sono storia di ieri per il grosso della comunità scientifica in Europa, ma anche in Asia orientale; se gli USA mantengono ancora (forse) un primato tecnologico, la prospettiva epistemologica è stata sviluppata in maniera più approfondita e completa in Europa, e l’Asia orientale sembra essere su un’ottima strada per ottenere un meritato primato su ambedue gli aspetti. Ed è qui che si sviluppa l’ultima riflessione critica riguardo a I pesci non esistono; non sorprendentemente, riguarda esattamente il punto dell’inesistenza dei pesci.
Il parallelo sviluppato da Miller è chiaro: esattamente come i pesci, considerati come forma “basale” dei vertebrati, sono considerati una categoria artificiale e non utilizzabile dalla scienza moderna, così gli “idioti ereditari”, gli “indegni” sono una categoria proveniente da una scienza fallata, sconfessata dalla scienza moderna. Il parallelo è affascinante, ma sostanzialmente scorretto. Non solo perché i pesci sono – e sono sempre stati – una categoria scientifica, mentre chi sia indegno di vita è, ammesso che la domanda sia legittima, una questione politica, etica e morale, ma certamente non una cui la scienza può rispondere; ma perché l’inesistenza dei pesci non è una questione di avanzamento della scienza quanto, semplicemente, di convenzioni nella definizione di categorie.
Nella sua ricostruzione della rivoluzione cladistica (avvenuta tra gli anni ’60 e ’70 del 1900), Miller suggerisce che i cladisti abbiano improvvisamente riconosciuto che un pesce polmonato era più simile ad una mucca che ad una spigola, e che questo abbia causato la fine dei pesci come categoria naturale. La questione è più complessa. Ovviamente i biologi evoluzionisti sapevano benissimo che i pesci polmonati erano più vicini ai vertebrati con le zampe (i tetrapodi) che agli altri vertebrati con le pinne (i pesci); semplicemente, utilizzavano una tassonomia che non rendeva ragione di questa vicinanza, identificando i pesci come un gruppo valido.
I cladisti non hanno capovolto l’albero della vita, si sono limitati a dargli delle regole, una delle quali è che un gruppo è valido se è monofiletico – cioè se comprende un antenato comune e tutti i suoi discendenti. Il che significa che i pesci come definiti classicamente comprendono un antenato comune, ma una bella fetta di discendenti (i tetrapodi) ne è esclusa, e questo lo rende un gruppo parafiletico. A meno di non chiamare tutti i vertebrati “pesci” (cosa che, mi rendo conto da solo, è abbastanza insoddisfacente), è necessario suddividere i vecchi pesci in tre o quattro gruppi per avere dei gruppi monofiletici come piacciono ai cladisti.
Per quanto condivida la concezione di ordine tassonomico proposta dai cladisti, devo rilevare come questa sia semplicemente una convenzione, come altre ve ne potrebbero essere, informata da una specifica cultura, e che sia in realtà adottata parzialmente dalla tassonomia: il Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica non specifica in nessun articolo che un gruppo debba essere monofiletico per essere accettabile. E devo, parallelamente, rimarcare che le nostre tassonomie sono necessariamente delle approssimazioni, ma non sono in grado di descrivere in maniera esauriente la variabilità dei viventi, non fosse altro perché buona parte di questa variabilità è continua, e noi definiamo, in maniera spesso arbitraria, delle categorie discrete.
Al tempo stesso, se a livello evoluzionistico i pesci non esistono, considerandoli da altri punti di vista esistono eccome: un pesce è riconoscibilissimo a livello funzionale (e come tale può essere preso a modello per la robotica di ultima generazione) ed è un elemento di una categoria di risorse naturali rinnovabili relativamente omogenea, che in quanto tale è oggetto di uno sfruttamento comune, e quindi di politiche ambientali comuni. La scienza può ancora, localmente, riconoscere l’esistenza di una categoria coerente di “pesci”, nonostante i cladisti; cosa che non può fare, non ha mai potuto fare, con gli “indegni”.
Non vorrei che le critiche sviluppate all’impostazione epistemologica de I pesci non esistono convincessero il lettore che fosse arrivato a questo punto che si tratta a sua volta di un libro “indegno”. In realtà è scritto benissimo ed offre una prospettiva molto interessante sia sulle contraddizioni di cui, volente o nolente, è partecipe ogni scienziato (ogni essere umano?), sia sulle politiche eugenetiche degli USA e soprattutto sul loro parziale mantenimento ed uso in un’ottica razzista fino all’epoca contemporanea.
E in realtà, da tassonomo e da biologo marino, sono tutto sommato abbastanza d’accordo sul fatto che i pesci non esistano. Non è comunque un buon motivo per amarli di meno.
“I pesci non esistono”, Lulu Miller, 2020, ADD editore, 214 pp.
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Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.