La storia di Agitu Gudeta, uccisa lo scorso 29 dicembre a Frassilongo (Tn), è ormai nota a tutti: nata in Etiopia nel 1978, si era trasferita in Trentino dove aveva studiato sociologia all’università di Trento, per poi, una volta laureatasi, tornare nella sua città natale, Addis Abeba. Lì si era distinta per l’impegno nel denunciare le politiche di sfruttamento e appropriazione delle terre etiopi da parte di multinazionali o governi stranieri senza il consenso delle popolazioni residenti. A causa della situazione di conflitto interna e delle minacce che continuava a subire, nel 2010 la donna è stata costretta nuovamente a fuggire e tornare in Italia, stabilendosi a Frassilongo, nella Valle dei Mocheni, dove aveva iniziato la sua attività come allevatrice di capre di razza mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, recuperando allo stesso tempo terreni abbandonati. Aveva anche aperto una bottega nel centro di Trento, la Capra Felice. Il colpevole, reo confesso, è Adams Suleimani, ghanese, ora arrestato, il quale aveva già lavorato in passato per Agitu Gudeta, ed era tornato su richiesta della donna circa due mesi fa ad occuparsi del pascolo delle capre. L’uomo ha riferito agli inquirenti di una discussione nata per il mancato pagamento di una mensilità. Un credito che lo ha portato a colpirla a morte e ad abusarla sessualmente mentre era a terra agonizzante. Sulemaini si trova ora nel carcere di Spini di Gardolo a Trento.
La storia di Agitu è stata assurta da gran parte dei media e dell’opinione pubblica come vicenda esemplare, come modello di integrazione virtuosa da parte di una straniera, extracomunitaria, che si è pienamente e positivamente inserita nella comunità accogliente. Titola, infatti, ad esempio, Il Giornale di Vicenza: “Agitu, storia esemplare”, postando in prima pagina foto della donna insieme agli animali che allevava, o ritratta accanto a personaggi noti, come Emma Bonino, a testimoniare l’impegno che accompagnava il suo lavoro imprenditoriale e la dedizione che metteva nella valorizzazione dell’ambiente. Scrive, riguardo a ciò, Annalisa Giraldi, su Fanpage: “In fondo, definirla un ‘modello di integrazione’, è solo un altro modo per ricordare che lei non fosse italiana. Ma che, nonostante questo, potesse essere un esempio. I giornali, in queste ore, hanno semplicemente alimentato la retorica del deserving migrant, evidenziando come siamo ancora anni luce dall’essere veramente un Paese accogliente, solidale e libero dal razzismo (…). Oggi non sentiamo parlare di Agitu Ideo Gudeta come imprenditrice, come simbolo di emancipazione per le donne, come allevatrice ambientalista. Tutto viene in secondo piano rispetto al suo essere un’immigrata»[1].
Nella polemica di Giraldi contro la retorica della donna immigrata, ben integrata e diventata simbolo di integrazione, condivisa tra l’altro anche da chi scrive, si legge la condanna di una narrazione fintamente buonista e sottilmente razzista, che, elogiando la brava straniera, non fa altro che creare una surrettizia linea di confine che separa la minoranza extracomunitaria virtuosa, e degna di nota ed elogio, dalla maggioranza condannata invece all’oblio o alla gogna in quanto non rispecchiante i canoni stabiliti da chi accoglie e che dunque ha diritto di decidere se integrare o emarginare, di includere e “italianizzare”, o discriminare e trascurare. Lo scalpore suscitato dall’omicidio di Agitu non nasce dal fatto che una donna, imprenditrice e attenta alle tematiche sociali e ambientali, sia stata brutalmente uccisa, ma dal fatto che la quarantenne fosse prima di tutto una donna straniera che era riuscita a diventare parte integrante della comunità trentina, e a“partecipare” (nel duplice senso di diventare parte e svolgere attività, e di non a restare ai margini), alla società dominante (nonostante comunque Agitu abbia subito diversi attacchi di razzismo e xenofobia, basti ricordare le aggressioni subite, per il suo colore della pelle, da parte di un vicino, poi condannato a 9 mesi, ma assolto dall’accusa di stalking con l’aggravante di odio razziale che pure aveva avanzato il pm).
In questo senso, la rappresentazione retorica dell’esemplarità della Gudeta, non fa che avallare una concezione razzista, dichiarata o meno, di uno Stato fondato sulla divisione tra l’elemento biologico che lo definisce e lo permea e l’elemento estraneo che necessita di un passaporto legittimante. Come scriveva Foucault già nel 1976: “La società moderna è fondata sul razzismo di stato, per cui esiste il corpo sociale, unito da un’identità monista che sarà di continuo minacciata da elementi eterogenei che non lo dividono ma lo contaminano: i devianti, i marginali che vi si sono infiltrati, gli anormali”[2]. La “normalizzazione” dell’altro è dunque un fattore decisivo per assicurare una sorta di gerarchia all’interno della società stessa.
Sicuramente è indubbio che esistono differenze tra le vari partiti italiani per quanto riguarda la visione dell’immigrato e, conseguentemente ad essa, le diverse politiche proposte messe in campo per affrontare la questione, come è anche vero che esistono molteplici sensibilità all’interno della società stessa che realmente tentano di contribuire al superamento di certi schemi e linee di confine. È anche vero, inoltre, che la questione dell’immigrazione è un fatto talmente complesso che ridurlo a un puro e semplice dibattito tra chi in Italia è cattivo e razzista” e chi invece è “aperto e lungimirante”, rischia solo di dar voce a un certo elitarismo vacuo e radical-chic che non aiuta nessuno, come del resto sarebbe improprio, e ugualmente razzista, identificare gli immigrati tout court come brava gente, dando vita a lettura quanto mai superficiale che non tiene conto della peculiare storia dei vari Paesi di provenienza, delle questioni economiche e culturali che rendono il meccanismo dell’immigrazione uno dei fenomeni più dibattuti e di difficile soluzione. Sicuramente, però, per rimanere alla storia di Agitu, aiuterebbe una valorizzazione basata sulla persona e le battaglie che essa ha svolto, sia in Italia che in Eritrea, al di là della sua provenienza o delle sue origini: le radici, e il bagaglio anche di immigrata che la donna si è portata con sé, sicuramente la definiscono e la arricchiscono, ma non possono essere usate ipocritamente dalla narrazione prevalente come un passepartout per renderla una “degna vittima”, al contrario di tanti altri immigrati, con storie altrettanto drammatiche, che inesorabilmente cadono nell’oblio delle coscienze.
Immagine da commons.wikimedia.org
[1] Annalisa Giraldi, Fanpage, 31 Dicembre 2020.
[2] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1976, p. 75.
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.