Gerusalemme capitale israeliana e la politica poco isolazionista di Trump
La decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, applaudita dal governo israeliano e subito echeggiata (almeno a parole) dai leader populisti di Filippine e Repubblica Ceca, ha causato una serie di reazioni in tutto il Medio Oriente, che rischiano di destabilizzare ulteriormente una regione già duramente messa alla prova dallo scontro tra Iran e Arabia Saudita.
Inoltre, gli arabi israeliani, i palestinesi e i rifugiati palestinesi in tutto il mondo arabo hanno prevedibilmente visto la decisione statunitense come l’ennesima spoliazione territoriale e come la pietra tombale di ogni dialogo, e hanno risposto protestando duramente e minacciando una nuova Intifada contro l’occupante israeliano. Ne parliamo “a dieci mani” qui sul becco.
Una nazione ha promesso ad un’altra nazione il Paese di una terza nazione: una famosa battuta, che sintetizza amaramente la dichiarazione Balfour. A cent’anni di distanza poco è cambiato, e la mossa del presidente degli Stati Uniti lo dimostra. Trump compie d’imperio un gesto simbolicamente e fattivamente pesantissimo, rompendo con decenni di uno status quo che, per quanto ipocrita, garantiva quanto meno un grado zero nelle difficili relazioni tra potenze internazionali, Palestina e Israele. Lo fa per tanti motivi, tutti sviscerati da una autentica valanga di articoli italiani e anglofoni: dalla sicumera che contraddistingue il personaggio alla spinta millenaristica delle parti più reazionarie del mondo della destra evangelical ad un maldestro tentativo di ampliare i consensi del GOP tra gli ebrei ortodossi. Ciò che purtroppo resta troppe volte sullo sfondo è l’assoluta negazione di ogni benché minimo diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, precisamente quanto e come – appunto – ai tempi del colonialismo europeo e della dichiarazione Balfour.
La mossa degli Stati Uniti ha raccolto le lodi di qualche leader fascistoide, oltre che ovviamente dell’esecutivo di estrema destra al potere in Israele, ma sostanzialmente tutti i governi dell’Occidente si sono affrettati a dichiararsi preoccupati o disgustati. Nel Medio Oriente, specie tra i palestinesi, rifugiati o in patria, ha generato un’ondata di rabbia le cui conseguenze sono difficilmente prevedibili. Eppure anche la rivolta dei palestinesi ci arriva filtrata da un’ottica orientalista che ne distorce i contorni al servizio di una narrazione razzistoide ed etnocentrica, che ne sopprime la carica di autodeterminazione; per esempio quando ci viene raccontata come furia contro una mossa che romperebbe l’universo simbolico che intrappola poveri arabi ingenui e arretrati che “spesso non hanno mai nemmeno visto Gerusalemme”, o come quando ci viene raccontata come indignazione di fellahin bigotti per la violazione di quello che alla fin fine sarebbe “solo” una geografia carica di sacralità nazionale o religiosa. Anche se i presupposti di queste e altre narrazioni mediatiche di stampo colonialista fossero veri (e spesso non lo sono), il loro sottointeso disprezzo sarcastico e imbecille per ciò che un popolo cacciato dalla propria terra e perseguitato da decenni ha di più sacro parlerebbe da solo.
Ma anche chi dall’Occidente cerca di essere solidale con la causa palestinese rischia di cadere nello stesso errore, sovrapponendo la propria voce, per forza di cose posizione privilegiata e dominante, alla voce degli oppressi. Rilanciando, per esempio, quello che spesso è poco più che tifo per questa o quell’opzione, per la lotta violenta o per la nonviolenza che condanna la violenza, o per una fantomatica terza opzione, il tutto dal salotto di una casa che ha la fortuna di essere ben lontana da Gaza o dalla Cisgiordania. Ascoltare di più, capire, partecipare mettendosi al servizio: cose che noi minoranza di occidentali dovremmo imparare a fare, se veramente abbiamo a cuore l’autodeterminazione dei palestinesi.
Il 10 dicembre per commemorare la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948 si festeggia la “Giornata internazionale dei diritti umani“. Quest’anno questa giornata cade a ridosso dell’ultima presa in giro dell’Onu da parte degli Usa. Certamente non la più grave, ma si tratta comunque di un atto simbolico notevole per screditare quella che nei fatti è considerata niente più che un’organizzazione internazionale frutto dell’emanazione della più pericolosa potenza imperialista della Storia. Gli Stati Uniti hanno così deciso di approvare il cambio di capitale di Israele, ossia del più pericoloso Stato teocratico del mondo. Questa capitale viene spostata a Gerusalemme, nel punto geografico in cui si scontrano le due religioni più diffuse nel pianeta (quella cristiana e quella islamica) e la più integralista (quella ebraica).
L’idealizzazione dei diritti più fumosi della giurisprudenza difficilmente potrà salvare un popolo da ulteriori decenni di sterminio, siccome fino ad oggi già non lo ha fatto. I palestinesi dal canto loro hanno smesso di sperare in ogni soluzione proveniente dall’Occidente e sanno benissimo che se una speranza è rimasta sta nella lotta di liberazione dal colonialismo sionista.
Ascoltando distrattamente Virgin Radio, la mattina di ieri [lunedì], mi è capitato di ascoltare il messaggio di un ascoltatore soddisfatto che Trump avesse deciso qualcosa, a prescindere dal merito della scelta. Il conflitto israelo-palestinese appare all’opinione pubblica come una delle questioni troppo complicate per poter essere capita fino in fondo, dove i torti e le ragioni stanno da entrambe le parti (come se ogni aspetto della realtà non fosse complesso e contraddittorio rispetto alle semplificazioni schematiche).
L’irresponsabilità di Trump è in linea con il “politicamente scorretto” che lo rende simpatico a chi tifa contro nell’illusione questo basti a fare “giustizia” delle difficoltà in cui versiamo.
Il diritto internazionale è in realtà da sempre qualcosa di simile alla legge dei vincitori sui vinti, per cui esiste uno spazio in cui sionisti nazionalisti e destre possono mascherarsi da democrazie avanzate, pur affermando posizioni inaccettabili secondo qualsiasi principio civile acquisito in occidente nel XX secolo. Alla peggio basta tirare nel mezzo la questione ebraica ed ecco che l’accusa di antisemitismo arriva puntuale a condannare chi cerca di evidenziare come Gerusalemme capitale di Israele sia un’offesa all’umanità (in termini storici, culturali, politici, istituzionali, militari).
Un giorno forse troveremo il gebuseo che può rivendicare “La Città Eterna”, ma questa è una storia complicata, anche se bastano Google e Wikipedia per capire l’amara battuta.
La decisione di Trump di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme avalla definitivamente le gravi violazioni del diritto internazionale, più volte condannate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che Israele compie da mezzo secolo con l’occupazione dei territori palestinesi. Non solo: al di là del fatto diplomatico e militare, vi è un aperto riconoscimento politico della visione imperialista del governo Netanyahu, che da un lato si fonda su assunti segregazionisti e dall’altro si esprime in una crescente militarizzazione della gestione statale. La cosa non stupisce, tanto più ripensando alla propaganda antisemita e fascista diffusa sui social network dal giovane rampollo Yair Netanyahu: una posizione del tutto coerente con le censure razziste sui libri scolastici effettuate dal governo del padre e con l’intesa di questi con Orbán.
La mossa di Trump, al tempo stesso, appare dettata da imperativi politici (squisitamente interni) più che da esigenze di carattere diplomatico. Il Segretario alla Difesa, generale Mattis, che ha consentito dopo molti anni alle alte gerarchie delle Forze armate di contare su un rappresentante diretto nell’esecutivo, aveva sconsigliato il Presidente citando conseguenze ultime negative per la sicurezza stessa degli Stati Uniti.
Proprio nei giorni scorsi un sondaggio del Pew Research Center (una sorta di Censis statunitense) ha mostrato un netto declino della popolarità di Trump presso i bianchi evangelici: sceso a un attuale 61% dal 78% di febbraio (sostanzialmente identico all’81% che lo ha votato a novembre 2016 e che ne aveva fatto il candidato più votato di sempre da quel gruppo). La lettura millenaristica della Bibbia ha reso gli evangelici, negli ultimi decenni, un gruppo più filo-israeliano degli stessi ebrei, solitamente orientati a sinistra (solo gli ortodossi, che costituiscono il 10% degli ebrei americani, sposano le posizioni estremiste di Trump e Netanyahu). A ciò si aggiunga che oggi, 12 dicembre, si tiene la delicatissima elezione suppletiva per il Senato in Alabama, per riempire il seggio vacante che fu di Jeff Sessions, il nemico dei diritti civili divenuto Procuratore Generale e unico senatore ad appoggiare Trump alle primarie. L’Alabama, che fu uno degli stati a regime di segregazione razziale, registrò nell’agosto 2015 il primo bagno di folla per Trump (trentamila persone ne acclamarono il programma razzista allo stadio di Mobile) e oggi il candidato repubblicano, Roy Moore, è un estremista evangelico destituito per due volte dalla presidenza della Corte Suprema dell’Alabama per il suo integralismo religioso.
Dato che Moore è stato accusato di aver ripetutamente molestato delle minorenni e che i sondaggi restituiscono una situazione molto competitiva e una possibile sconfitta in uno stato che un anno fa Trump ha vinto con il 62% (e si sa che alle elezioni suppletive o di mid-term l’affluenza cala molto tra gli afroamericani!), si capisce che il Presidente voglia correre ai ripari.
Da non sottovalutare, inoltre, il potere di lobbying dell’anziano miliardario dei casinò, l’ebreo repubblicano Sheldon Adelson, che è stato il maggior finanziatore privato nelle presidenziali 2012 e 2016 e che da anni chiede il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale israeliana.
La decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, di fatto riconoscendo quest’ultima come capitale di Israele, ha ovviamente un peso simbolico notevole e non stupisce che le forze politiche palestinesi abbiano chiamato all’intifada. Del resto la seconda intifada venne indetta nel 2000 proprio a seguito di un’altra violenza simbolica: la passeggiata di Sharon sulla spianata delle Moschee, luogo generalmente interdetto agli israeliani. La mossa di Trump, che conferma una politica tutt’altro che isolazionista del nuovo inquilino della casa Bianca, è funzionale a rinsaldare l’alleanza con Israele e soprattutto con le forze e organizzazioni filo-israeliane americane.
Le conseguenze di questo gesto, che si concretizzeranno in una nuova spirale di violenze (e come al solito quelli che pagheranno il prezzo maggiore saranno i palestinesi) e in un ulteriore passo indietro nelle possibilità di intavolare un dialogo costruttivo fra i due popoli, sono un danno calcolato tanto per l’amministrazione Trump che Netanyahu, nella cinica consapevolezza che dal punto di vista geopolitico per loro non ci saranno ricadute negative. Le timide reazioni europee infatti sono puramente di facciata mentre le potenze Mediorientali hanno problemi che reputano molto più stringenti che occuparsi dei palestinesi, destinati oggi più che mai a trovarsi da soli.
In particolare, l’Arabia Saudita ha ormai da molti anni più a cuore i rapporti con gli USA e Israele che non le sorti del popolo palestinese, tanto più che è impegnata in una guerra per procura in Yemen e in una guerra fredda con l’Iran: gli infedeli cristiani ed ebrei sono per loro di gran lunga preferibili agli infedeli sciiti. Anche l’Egitto ha tutto l’interesse a collaborare con Israele nelle operazioni anti-terrorismo da condurre nella turbolenta penisola del Sinai, zona di pericolosi rigurgiti jihadisti, situazione che rende i palestinesi tranquillamente sacrificabili alla causa della stabilità interna che Al Sisi intende perseguire ad ogni costo. La Turchia, i cui rapporti con gli USA sembrerebbero più freddi di un tempo, ha reagito duramente, ma solo a parole, alla decisione di Trump ma la riappacificazione fra Ankara e Tel Aviv avvenuta recentemente difficilmente porterà Erdogan ad andare oltre qualche vuota minaccia. Del resto Israele è un attore fondamentale nella questione siriana che rimane il principale interesse imperialista della Turchia. Tutto purtroppo fa pensare che il futuro per il popolo palestinese continuerà ad essere nero.
Immagine liberamente tratta da www.nbcnews.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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