“Quarto potere” di Orson Welles è considerato universalmente uno dei più importanti film della storia del cinema. Vi consiglio di vederlo se ancora non l’avete fatto. Era il 1941, la Seconda Guerra Mondiale era iniziata da circa 2 anni. Welles all’epoca aveva appena 25 anni, aveva un contratto da capogiro per l’epoca con assoluta libertà artistica. Un onore riservato a pochissimi eletti perfino nel 2020.
Ho avuto l’onore di presentare al cineforum questo film. Cinema sopraffino, come oggi non se ne fa più. Il pubblico presente non era tantissimo. Figuriamoci i giovani: le nuove generazioni vedono queste pellicole del passato come i dinosauri. Se solo si vedesse oltre la superficie, si vedrebbero cose straordinarie. Per esempio che oggi è come allora.
Il film raccontava la storia del magnate dell’editoria e dell’industria del legno William Randolph Hearst. Un uomo incapace di amare (specie se non stavi alle sue condizioni), capace come pochi di creare il vuoto attorno a sé. Morì solo abbandonato da tutti nella sua immensa villa di Xanadu. La grandezza del film di Welles fu quella di stratificare i momenti salienti della sua vita come se lo spettatore fosse a fare un puzzle. All’inizio infatti l’uomo morente tiene in mano una palla di vetro e dice “Rosabella”. Nessuno sa cosa sia o chi sia. Non vi svelo il mistero, vi dico solo che non è una persona.
Nella pellicola è chiamato “Citizen Kane” che è anche il titolo originale del film. Perché nel film Hearst si chiama Charles Foster Kane.
Con Quarto potere Orson Welles rivoluzionò le tecniche della ripresa cinematografica. Ricostruì il punto di vista dello spettatore con inquadrature innovative. Nessuno aveva mai osato tanto fino a quel momento. In questo film per la prima volta vennero usati i concetti di profondità di campo e pianosequenza: la prima tecnica permetteva di inquadrare sia i particolari in primo piano sia quelli sullo sfondo mantenendo tutto a fuoco in modo che gli spettatori li notassero nel suo insieme, la seconda invece permette di avere un’inquadratura continua, senza stacchi. Ovviamente quest’ultima dipende essenzialmente dal montaggio (Birdman di Inarritu o Arca Russa di Sokurov sono esempi illustri in tal senso).
Tuttavia quando Orson Welles disse a soli 25 anni che “ci vuole solo un pomeriggio per imparare tutto quello che c’è da sapere sul fare cinema”, molti capirono che dietro questo suo atteggiamento ci fosse ben altro. Secondo David Fincher, il segreto era che attorno a Welles c’erano lo sceneggiatore “Mank” e il direttore della fotografia Gregg Toland, autentica leggenda in quegli anni. Il primo tirò fuori la storia, il secondo introdusse il concetto della profondità di campo. Fincher, giustamente, dice che “a 25 anni non hai idea di quello che non sai. Punto. Vale per Welles come per chiunque altro. E questa osservazione non gli leva assolutamente nulla, non lo rimuove dal pantheon di quei registi che hanno influenzato intere generazioni di filmmaker. Ma asserire che Orson Welles abbia tirato fuori dal cilindro Quarto Potere e che il resto della sua filmografia sia stata rovinata da persone male intenzionate non sarebbe serio e sottostima il tremendo impatto che la sua stessa hybris ha avuto su di lui”. Orson Welles era sì un uomo di grandissimo talento, ma aveva un ego spropositato da farlo essere un immaturo.
Il suo cinema era influenzato da Griffith (Nascita di una nazione), dal cinema espressionistico tedesco di Fritz Lang (Metropolis, M – Il mostro di Dusserdolf) e dal western “Ombre Rosse” di John Ford (Welles lo vide trenta volte per carpirne i segreti). “Quarto potere” fu scritto, diretto e interpretato da Orson Welles, ma alla sceneggiatura fu fondamentale l’apporto di Herman J. Mankiewicz. Per gli amici Mank. Nonostante le 9 candidature all’Oscar, vinse un solo premio proprio per la sceneggiatura. Ma nei titoli il suo nome non compariva: Mank accettò la proposta di Orson Welles (Tom Burke) di non farlo comparire in cambio di soldi.
Da oltre 20 anni, dai tempi di “Fight Club”, David Fincher si batte contro le major per riuscire a portare sul grande schermo questa storia. I retroscena di come Mank scrisse questo importantissimo film. La sceneggiatura di questo film Netflix fu scritta da Jack Fincher, giornalista e sceneggiatore mancato nonché defunto padre del regista di autorevoli film come “The social Network” e “Fight Club”.
Il figlio David ha voluto ricordare le battaglie del genitore (morto nel 2003) con uno stile antico, un bianco e nero che ci riporta indietro di 80 anni.
Bisogna dire grazie a Netflix per aver finanziato il film. Fincher, sicuramente uno dei più navigati maestri del cinema d’autore odierno, ha un contratto di esclusiva di 4 anni con il colosso dello streaming che gli garantisce un’alta libertà artistica. Come giustamente dice Movieplayer, oggi “solo i cinefili continuano a guardare indietro invece che pensare al futuro”. Ma noi cinefili (mi ci metto anch’io) non siamo anacronistici, anzi studiamo il passato per capire il presente. Un po’ come gli storici.
Infatti Fincher ci ricorda Herman Mankiewicz, da non scambiare con il più noto fratello Joseph. Per intendersi l’autore di “Eva contro Eva”. Mank è un uomo alcolizzato, brillante e insopportabile. Il rapporto controverso con le donne, le burrascose riunioni con gli studios (specie con la Metro Goldwyn Meyer e la Paramount). Fino all’incontro con il magnate dell’editoria, Hearst, che lo ispireranno per “Quarto potere”.
Nell’estate 1940 Mank è fermo con letto. Ha una gamba ingessata dopo un incidente. E’ assistito da un’infermiera tedesca. Alla stesura della sceneggiatura c’è una giovane dattilografa inglese (Lily Collins, figlia del cantante e batterista dei Genesis, Phil). Deve consegnare rapidamente il copione a Orson Welles che a breve doveva andare sul set.
Il punto di partenza del film è questo episodio. Mank (un immenso Gary Oldman) rievoca i suoi ricordi, il modo in cui ha scritto la storia, come ha incontrato i personaggi, dove ha avuto l’ispirazione e perché.
“Mank”, cronologicamente parlando, inizia nel 1930. Siamo in piena “grande depressione”. La guerra sta per tornare. Ma quelli erano anche tempi di rivoluzione tecnologica nel cinema (il periodo di transizione dal muto al sonoro). Lo si capisce in un dialogo tra il protagonista e il presidente di una major che dice a Mank e alla sua “banda di sceneggiatori”: “Dobbiamo riportare il pubblico al cinema… come?”. La risposta di Mank è fulminea: “proiettiamo i film in strada”. Silenzio. Una provocazione che mostra che alle major non interessa che la gente vada al cinema, ma che faccia prima recuperare le spese e poi guadagnare bene. Non importa come. La crisi di oggi è voluta: l’utilizzo delle piattaforme permette agli studios di prendersi il massimo degli incassi senza lasciare nemmeno le briciole agli esercenti dei cinema che probabilmente saranno costretti a chiudere (almeno i più piccoli). Chiaramente il parallelo con oggi è voluto: anche allora c’era crisi, si viveva male, la disoccupazione era alta e la tecnologia prese il sopravvento. Anche allora si credeva a un futuro splendido e bellissimo, poi sappiamo com’è andata.
Fincher, da grande regista, si interroga su cosa è cambiato in poco meno di un secolo. Nulla è la risposta. Le dinamiche interne delle major cinematografiche sono le stesse (solo che allora non c’erano le piattaforme e internet), il rapporto fra politica e informazione è rimasto lo stesso, la paura degli Usa verso socialisti e comunisti (esempi autorevoli sono Upton Sinclair, da cui hanno tratto il film “Il petroliere”, e Bernie Sanders). Per questo gli studios lo mal digeriscono e si capisce anche perché il padre Jack non riuscì a sfondare. La coppia Mank-Welles è fortemente in parallelo con Jack-David Fincher. Tant’è che la frase più importante del film è sicuramente “io sono sempre grande. E’ il cinema che è diventato piccolo”. Tale epiteto ricorda chiaramente il capolavoro “Viale del tramonto” di Billy Wilder. Già negli anni ’50 Hollywood era cambiata, figuriamoci oggi. Ciò che oggi viene riprodotto sulle piattaforme o su Netflix non è piccolo cinema, ma è il mezzo di fruizione che è lo diventato. La gente va molto meno al cinema, ma usa le piattaforme e la tv. Specie in tempi di pandemia.
“Mank” è un film grandioso, perennemente in bilico tra sogno e realtà come “Neruda” di Pablo Larrain e “8 e ½” di Federico Fellini. Un’opera affascinante, con autentici colpi di grande cinema: la fotografia in bianco e nero di Erik Messerschmidt (Mindhunter), “i salti” della colonna sonora che scandiscono la fine dei rulli della pellicola. Oggi tutto è digitale, ma il film è stato concepito come se fosse stato girato in analogico.
Pura follia che dimostra la grandezza di David Fincher. Dopo Panic Room, Seven, Benjamin Button, Millennium – uomini che odiano le donne, The social network, Fight Club, Zodiac, The game e L’amore bugiardo, ecco un’altra pellicola decisamente importante che si aggiunge a una carriera di tutto rispetto. Tanto che secondo me Fincher è uno dei maggiori registi ancora oggi in attività.
Fonti: Movieplayer, Cinematografo, Everyeye, Comingsoon, Filmtv
MANK ****1/2
(USA 2020)
Genere: Drammatico, Biopic
Regia: David Fincher
Sceneggiatura: Jack Fincher
Fotografia: Erik Messerschmidt
Cast: Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfred, Tom Burke
Durata: 2h e 11 minuti
Distribuzione e Produzione: Netflix
Trailer Italiano: https://www.youtube.com/watch?v=RihzDA9rXn0&t=9s
Budget: 30 milioni di dollari
La frase: Io sono sempre grande. È il cinema che è diventato piccolo.
Regia ****1/2 Interpretazioni ****1/2 Musiche ***** Fotografia ***** Sceneggiatura ****1/2
Immagine da www.netflix.com
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.