Quattro anni fa per commentare il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi partimmo da una battuta eloquente e un po’ razzista che circolava sul web: «Trump sarà il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera».[1]
Quest’oggi possiamo analogamente partire da un’altra figura che ha avuto un certo successo sui social, composta di 46 emoji: dapprima quarantatré identiche raffiguranti un uomo bianco attempato, poi un giovane uomo di pelle nera, quindi un pagliaccio, infine nuovamente un bianco attempato. Anche senza didascalie è facile riconoscervi la stilizzazione dei Presidenti degli Stati Uniti, da Washington a Obama-Trump-Biden. (La versione che terminava con il pagliaccio circolava già da diverso tempo prima delle elezioni 2020.)
Si tratta di un’immagine estremamente semplice, eppure contenente una verità profonda: la Presidenza Biden potrà segnare sì un ritorno alla normalità, non però dopo la Presidenza Trump bensì dopo le Presidenze Obama e Trump. Questi dodici anni hanno avuto caratteri di eccezionalità che, sovrapponendosi a tendenze di lungo periodo, rischiano di complicare la lettura della situazione politica.
Cercheremo qui di separare tali due fattori e di comprendere al meglio le dinamiche in atto negli Stati Uniti d’America.
Coalizione Obama, coalizione Trump
Un buon punto di partenza è una considerazione, già anticipata dalla stampa, contenuta nel nuovo libro di Barack Obama «Una terra promessa» uscito il 17 novembre. Riferendosi alla disastrosa sconfitta nelle elezioni di metà primo mandato del 2010 Obama ha scritto: «Per quanto mi riguardava, le elezioni non provarono che la nostra agenda era sbagliata. Provarono soltanto che […] avevo fallito nel riunire la nazione, come Franklin D. Roosevelt aveva fatto un tempo, dietro ciò che sapevo essere giusto». Tale fallimento viene collegato dall’ex Presidente alle radici del crescente estremismo del Partito Repubblicano e dell’ascesa di Trump, ossia le ansie razziali dei bianchi di fronte a un Presidente di colore, «un panico profondamente radicato, una sensazione che l’ordine naturale fosse stato sovvertito».[2]
In effetti, un punto di debolezza emerse già con la vittoria del 2012: per la prima volta negli Stati Uniti, un Presidente rieletto otteneva, rispetto alla precedente tornata, una quota inferiore sia di voti popolari sia di grandi elettori. Quella che all’epoca fu celebrata come la “coalizione Obama” – un aggregato interrazziale che, grazie al costante declino demografico dei bianchi, avrebbe costituito la maggioranza permanente negli anni a venire – nascondeva al proprio interno una debolezza esiziale nelle crepe apertesi tra la popolazione bianca. Proprio su questa intuizione si fondò la vittoria di Trump nel 2016: invece di coniugare il neoconservatorismo reaganiano con un’apertura agli ispanici (la grande minoranza in crescita, il “gigante dormiente”[3]), come tentato da Marco Rubio e a suo tempo già da George W. Bush, egli scelse la via opposta: un trinceramento fra i bianchi, di cui massimizzare il consenso tramite il ripudio (retorico) del neoconservatorismo in favore di un populismo nativista.
Ma d’altro canto già l’affermazione di Obama alle primarie del 2008, che pure segnò la sua vittoria dentro il (e in parte sul) Partito Democratico, si fondava su una sottorappresentazione senza precedenti dell’elettorato bianco. A perdere, e male, furono infatti non solo la candidata della classe operaia bianca del Midwest (Hillary Clinton) ma anche il candidato dei bianchi conservator-populisti del Sud, l’ex senatore John Edwards, che invece ancora nel 2004 era riuscito ad arrivare buon secondo e a conquistarsi la candidatura a vicepresidente.
Perché dunque la coalizione Obama ha fallito nel costituire un duraturo e solido blocco, in grado non solo di espandersi durante il mandato del suo creatore ma anche di mantenersi in favore di altri candidati del medesimo partito?
Proprio come oggi dobbiamo chiederci non perché la Clinton abbia perso, o perché Biden abbia perso in alcuni casi (ci torneremo), ma perché Obama abbia vinto a suo tempo, allo stesso modo dobbiamo chiederci non perché Obama abbia fallito ma perché Roosevelt abbia avuto successo ottanta, novanta anni fa. La coalizione di Franklin D. Roosevelt poteva permettersi, a differenza di quella di Obama, di includere una larghissima quota di bianchi proprio perché al tempo stesso escludeva – sia pure non per propria scelta – i neri laddove essi costituivano una minoranza molto consistente della popolazione, ossia negli stati razzisti del Sud. L’opera di affrancamento della popolazione nera effettuata dai democratici durante la Presidenza di Lyndon Johnson ha sì diversificato razzialmente la coalizione democratica, ma al tempo stesso le ha alienato il consenso di molti bianchi conservatori e intolleranti.
Nella massimizzazione di questo consenso è stata la forza della coalizione Trump, che ha saputo aggregare «un certo tipo di democratici», come già cinque anni fa li identificò il New York Times.[4]
Viene dunque da chiedersi: a che punto è questa coalizione?
I bianchi poveri in Kentucky: uno studio di caso
Dave Wasserman, senior election analyst per il prestigioso Cook Political Report[5], ha osservato che, «per quello che vale», in termini di punti percentuali il recupero di Biden su Trump rispetto al 2016 sembra maggiore in Kentucky – stato sicurissimo per i repubblicani – che negli stati in bilico del Midwest (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin).[6]
Lo stato del Kentucky ha già certificato i propri risultati elettorali, mentre gli altri tre stati non l’hanno ancora fatto, ma basandoci sui risultati non ufficiali possiamo quantificare in punti percentuali il recupero di Biden come segue:
Stato | Differenziale Clinton/Trump | Differenziale Biden/Trump | Recupero Biden su Clinton |
Kentucky | -29,84 | -25,94 | +3,90 |
Michigan | -0,23 | +2,68 | +2,91 |
Pennsylvania | -0,72 | +1,18 | +1,90 |
Wisconsin | -0,77 | +0,62 | +1,39 |
Tabella 1. Differenziale Clinton/Trump e Biden/Trump in Kentucky e nei tre stati in bilico del Midwest. Dati in punti percentuali.
Come si vede, il recupero di Biden in Kentucky è sì maggiore, ma parte anche da una condizione di enorme arretratezza che non viene significativamente scalfita (ventisei punti di distacco sono davvero molto diversi da trenta?); negli altri tre stati, invece, la rimonta è sufficiente addirittura a trasformare in vittorie le sconfitte del 2016.
Ciò detto, naturalmente l’entità del recupero in Kentucky non è di per sé priva di interesse. Trattandosi però di uno stato in cui si trovano, specie nell’area orientale sui monti Appalachi, alcune tra le più gravi sacche di povertà degli Stati Uniti vale la pena scendere dall’aggregato statale al dettaglio delle centoventi contee per capire dove e perché Biden ha recuperato.
Il recupero di Biden appare frutto prevalentemente della riconquista di voti che nel 2016 si erano dispersi sul Partito Libertario o sui candidati minori: questi due gruppi, infatti, perdono rispettivamente 1,57 e 1,47 punti percentuali, costituendo dunque i sette ottavi dei 3,47 punti recuperati da Biden (Trump perde, rispetto al 2016, 0,43 punti).
Come sono diffuse sul territorio queste variazioni? Riassumendo, Biden aumenta nelle zone urbanizzate, ma perde in quelle rurali.
Ancor più nitida è la correlazione con il reddito pro capite:
Questo dato può essere ulteriormente raffinato impiegando i dati delle origini etniche e restringendo il grafico precedente alle sole trenta contee in cui almeno il 25% della popolazione dichiara come origine etnica «American» (ossia, in italiano, statunitense).[7]
Da notare che, mentre il reddito pro capite del Kentucky consta di 23462 dollari, nel subaggregato di queste trenta contee esso scende a 19491. Al tempo stesso, la quota di bianchi in Kentucky è pari all’87,7% della popolazione, ma sale al 94,3% in queste trenta contee.[8]
Cosa ci dicono dunque questi dati?
Che Trump aumenta il proprio consenso nelle aree in cui maggiore è la quota di popolazione che appartiene al segmento etno-economico dei bianchi poveri. Inoltre, questo segmento è anche correlato a una peculiare definizione della propria origine come “american” (e non dunque come inglese, irlandese, tedesco, ecc.). Perché questo fenomeno?
Possiamo azzardare tre concause. In primo luogo, l’arretratezza sociale indebolisce la stabilità familiare e con essa la memoria delle proprie origini, che vengono dunque ritenute semplicemente americane. In secondo luogo, per aree tanto marginali l’identificazione nazionalista è un’ottima proiezione di sé e della propria (im)potenza. Infine, in zone in cui l’alternativa è « scavare carbone, spacciare droga o arruolarsi»[9] è evidente che l’esercito fornisce una quanto mai necessaria rete di sicurezza.
Un dato infine merita di essere citato. La contea di Elliott, appunto nel bacino carbonifero degli Appalachi, ha votato per il candidato democratico a tutte le presidenziali dal 1872 al 2012 compresi. Il 95% della popolazione è bianco, il reddito pro capite è 14040 dollari e il 48% della popolazione si definisce “americano”. L’85% degli elettori è registrato come democratico.[10]
In un simile panorama, nel 2016 Trump ha sconfitto la Clinton 70%-26%, migliorandosi ulteriormente con un 75%-24% contro Biden. Quando è nato questo declino? È emerso negli anni di Obama, che ottenne nel 2008 il 61% contro McCain (il dato peggiore degli ultimi cento anni) cadendo poi al 49% che comunque gli assicurò di misura la vittoria su Romney quattro anni dopo.
Naturalmente non è semplice capire che peso abbiano avuto il razzismo e il sessismo, anche impliciti e inconsapevoli, ma sono degne di nota due cose:
1) il forte smottamento tra la prima e la seconda elezione di Obama, concomitante appunto con la disfatta delle mid-term del 2010 e la presa d’atto di aver fallito nel riunire il paese dietro la proposta progressista;
2) il peggioramento del risultato dei democratici persino con Biden, che si rivolgeva esplicitamente alla classe operaia bianca e in parte da essa proveniva.
Immagine da www.flickr.com
[1] https://archivio.ilbecco.it/politica/internazionale/item/3386-trump-il-primo-miliardario-a-occupare-un-alloggio-pubblico-lasciato-da-una-famiglia-nera.html
[2] https://edition.cnn.com/2020/11/12/politics/obama-memoir-promised-land/index.html
[3] https://edition.cnn.com/2020/10/29/politics/xavier-becerra-latino-voters-biden-trump/index.html
[4] https://www.nytimes.com/2015/12/31/upshot/donald-trumps-strongest-supporters-a-certain-kind-of-democrat.html
[5] https://cookpolitical.com/about/staff/david-wasserman
[6] https://twitter.com/Redistrict/status/1329831376653316096
[7] https://www.dailykos.com/stories/2019/7/28/1873750/-The-Daily-Kos-Elections-guide-to-the-nation-s-ancestries-and-origins-by-congressional-district
[8] https://www.indexmundi.com/facts/united-states/quick-facts/kentucky/white-population-percentage#table
[9] https://abcnews.go.com/Politics/richard-ojeda-touts-coal-army-experience-1st-general/story?id=57761741
[10] https://elect.ky.gov/Resources/Documents/voterstatscounty-20190430-084051.pdf
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.