È sempre più difficile nei sistemi politici occidentali identificare le scelte degli elettori con l’orientamento dei partiti. La contestualità dei referendum alle elezioni USA ha reso evidente questo fenomeno: attraverso i referendum gli elettori spingono riforme che possono essere definite “progressiste” anche quando il voto risulta maggiormente orientato in senso conservatore (e, in più rari casi, viceversa). La disideologizzazione delle organizzazioni politiche di massa, che sembra rendere sempre più diffiicle l’identificazione del singolo col collettivo, appare essere tratto comune delle democrazie: al momento del voto il gradimento per il candidato del momento è molto più rilevante dell’adesione ad un progetto collettivo di lungo respiro. È la fine della politica come rappresentazione di un progetto collettivo di futuro?
Leonardo Croatto
La pratica del sistema referendario negli USA, associato al funzionamento generale del meccanismo elettorale, offre uno strumento interessante per confrontare il posizionamento su singoli temi con il voto politico.
Mentre la campagna elettorale dei candidati si è giocata tutta nello spazio racchiuso tra destra e centro, con un partito repubblicano schiacciato sulla linea politica incarnata da Donald Trump e un partito Democratico preoccupato di rassicurare la borghesia bianca che i suoi privilegi non saranno messi in discussione dopo il voto, nei singoli stati si è votato su alcuni argomenti considerati “caldi” dai candidati: oltre a un certo numero di consultazioni che hanno portato alla liberalizzazione dell’uso della marijuana, la Florida (stato vinto da Trump) ha votato per l’innalzamento progressivo del salario minimo, in Missouri e Oklahoma (altri stati rossi) quest’estate si è votato a favore dell’espansione dei benefici dell’ACA e il Nevada (stato rossissimo) ha votato una modifica alla costituzione che impone ai distributori di energia elettrica di raggiungere nel 2030 la soglia del 50% di produzione da fonti rinnovabili. L’Arizona ha votato un aumento delle tasse per i redditi più alti da indirizzare a favore dell’istruzione e in Colorado sono stati introdotti una tassa di scopo a favore dell’istruzione e un meccanismo di astensione retribuita dal lavoro pagato in parte dai datori di lavoro, mentre è stata respinta una limitazione dell’accesso all’aborto. All’opposto in California e Illinois, entrambi stati a larga maggioranza Democratica: il primo ha votato per non riconoscere come subordinato il lavoro dei riders e degli autisti delle compagnie basate sulle app, il secondo ha votato contro la sostituzione della flat-tax ad oggi in vigore con un meccanismo di tassazione progressiva.
Ovviamente, l’incrocio tra voto partitico e voto sulle singole proposition è interessante non tanto per una valutazione sull’orientamento politico degli elettori, quanto per la dimensione opposta: il tasso di confusione con cui gli elettori affrontano l’atto decisionale individuale che determinerà l’esito collettivo. Per aggiungere un parametro a questa misurazione, la discrasia tra voto per proposition e voto politico può essere accompagnata dalla stima del voto volatile: nelle ultime tornate elettorali i sondaggi stimano tra il 3% e il 13% (a seconda dell’anno e del sondaggio) la quota di elettori che il giorno del voto non sono ancora certi di quale candidato votare.
In un sistema come quello statunitense i partiti non sviluppano alcuna capacità di guida dell’elettorato, nessun ruolo educativo: eliminata la progettazione condivisa della società del futuro dalla loro mission, l’elezione del candidato diventa la sola attività che dà senso al partito, l’orizzonte temporale si accorcia alla data dell’elezione, l’attività politica si riassume nell’azione di promozione del candidato e il partito si riduce a comitato elettorale.
Senza alcuna guida, gli elettori si trovano soli ad affrontare le valutazioni necessarie per gestire il proprio voto, e in un sistema in cui l’investimento privato in politica non ha limiti l’orientamento degli elettori passa completamente nelle mani delle pubblicità sui mezzi di comunicazione di massa. Non stupisce che la campagna a favore della proposizione 22 della California (quella dei riders e degli autisti delle app) abbia ricevuto oltre 200 milioni di contributi mentre la campagna contro meno di 20 milioni.
Quando anche in casa nostra si parla di riduzione dei costi della politica, di taglio del finanziamento pubblico ai partiti, di alleggerimento delle strutture politiche, valutare con attenzione cosa succede in quei paesi dove questa strada è già stata percorsa ci dovrebbe mettere in guardia sui pericoli che si corrono.
Francesca Giambi
Siamo sicuri che freddi numeri e percentuali riescano a descrivere esattamente una società complessa come quella in cui viviamo, che diventa più complessa ogni giorno che passa? In una realtà sempre più frammentata a livello sociale ed economico le consultazioni referendarie, viste come la maggiore espressione della democrazia, non rispondono più alle esigenze delle popolazioni.Le principali motivazioni di questa divergenza potremmo sicuramente trovarle da una parte in una “falsa” rappresentatività (si veda per esempio il referendum sulla Brexit con i risultati polarizzati in alcune zone e fasce specifiche della popolazione), dall’altra anche una forte difficoltà di interpretazione dei quesiti, talora, forse volutamente, persi in un “giuridichese” che allontana dalla comprensione piena degli stessi.
Ultimo, non per importanza, il fatto che sempre più spesso si assiste a decisioni e risultati non più dettati da battaglie ideologiche ma da mere spinte economiche.I recenti referendum americani sono a loro volta uno specchio di queste problematiche ed i loro risultati sono di conseguenza di difficile interpretazione.Innanzitutto, per quando riguarda i quesiti oltreoceano, non hanno un carattere nazionale o “sovra-federale” e di conseguenza la loro rappresentatività non trova riflessi a livelli più alti. Inoltre, salvo poche eccezioni, le consultazioni referendarie seguono per lo più argomenti di carattere “pratico” in cui si fatica a leggere un valore di tipo ideologico.Ci sono però le dovute eccezioni…
Se da un lato molto si è parlato circa la legalizzazione della marijuana anche in stati dove non vi è corrispondenza di voto con una cosiddetta battaglia di ideologia “a sinistra/democratica” (Montana, Sud Dakota, Missisipi) e circa la costosissima campagna di Uber in California che ha decretato la sconfitta dei sindacati e il non seguire l’endorsement di Joe Biden, vincitore nello stato con un 64%, d’altro lato sul tema dell’aborto si sono ottenuti risultati opposti in due stati, Louisiana e Colorado, ma coerenti con i risultati politici degli stessi.Un risultato che ha colpito la mia attenzione anche per il fatto di avere una forte componente ideologica è stato quello circa la tassazione in Illinois. In questo caso, anche se il referendum non è passato in quanto nessuna delle opzioni ha superato il 60%, il quesito riguardava la contrapposizione di due visioni fiscali, da una parte una flat tax a circa il 5% per tutti i redditi, dall’altra una fair tax, con aliquote progressive. Il risultato, anche se come detto prima non valido, avrebbe visto vincere per 55% a 45% la posizione a favore della flat tax, ideologicamente in contrapposizione al fatto che lo stato dell’Illinois abbia votato a maggioranza per l’elezione di Joe Biden, e dovuto probabilmente all’influenza dell’Illinois Manufacturers’ Association, una delle associazioni di categoria più antiche degli Stati Uniti.È quindi difficile dare una lettura unica e complessiva a questa tornata referendaria statunitense, non solo per la completa diversità dei quesiti posti nei diversi stati, ma, e soprattutto, perché i risultati sembrano maggiormente orientati su dettami personali ed economici piuttosto che su vere e proprie battaglie ideologiche, che paiono, in alcuni casi, amaramente essere state abbandonate.
Dmitrij Palagi
La democrazia diretta non esiste. Chi dice che i referendum servono a esercitare senza mediazione la volontà della popolazione sceglie di minare gli assetti istituzionali per come si sono definiti tra il XIX e il XX secolo.L’istituto referendario non può essere considerato lo stesso in tutte le nazioni. Sicuramente, come anche da definizione del dizionario di politica (edizione Bobbio-Matteucci-Pasquino), ci sono elementi comuni ai diversi contesti: si tratta di un intervento dell’elettorato su una specifica materia, che dà indicazione a chi governa su quesiti o decisioni. I suoi effetti e le sue modalità sono però inscindibili dal resto dell’assetto istituzionale.Negli Stati Uniti il modello federale definisce in modo specifico l’impianto costituzionale. Non c’è modo di votare a livello federale, quindi il livello nazionale non è previsto possa essere interessato da questo strumento. Alcuni stati hanno una consolidata tradizione di referendum, come quello della California e più in generale è davvero impossibile leggere questi istituti analogamente a come si farebbe per alcune realtà europee.Hannah Arendt ha scritto parole di grande interesse sull’esito della rivoluzione a stelle e strisce, da cui uscirà fuori la costituzione considerata la più longeva del mondo (233 anni). Secondo lei si poteva parlare di un esito di gran lunga migliore rispetto a quello ottenuto dal 1789 francese e dal 1917 russo. In questi giorni Sabino Cassese ha voluto invece guardare alla presidenza Trump come a un’esperienza che ha permesso di accendere le luci sulla debolezza del modello che si sviluppa dalla Casa Bianca (Corriere della Sera del 4 novembre 2020). Il riferimento in particolare è alla Corte Suprema, un organo che può adeguare i principi costituzionali al presente, senza che ci sia invece una via referendaria in questo campo.Volgendo velocemente lo sguardo ai quesiti referendari USA del 2020 possiamo dire che prosegue l’espansione di politiche di depenalizzazione in materia di sostanze stupefacenti. Il sistema elettorale mantiene una sua popolarità, anche se in Virginia si sono tolti alla maggioranza statale alcuni strumenti nella possibilità di ridefinire i collegi elettorali a proprio favore.Sul fronte del lavoro e dell’economia ha fatto notizia la vittoria di Uber e Lyft, che ha portato avanti una pesante campagna segnata dalla minaccia di abbandonare la California, nel caso in cui non avesse vinto la richiesta di abrogare la condizione di lavoratori dipendenti che era stata data al personale conducente di questi servizi (accompagnata da una campagna pubblicitaria che ha superato abbondantemente la cifra di 200 milioni di dollari). Ne è rimasta oscurata la proposta (approvata) di un aumento del salario minimo in Florida.Sul fronte del diritto all’interruzione di gravidanza segnali opposti arrivano da Lousiana e Colorado.Dare una lettura complessiva dei diversi quesiti di questa tornata a stelle e strisce appare quindi difficile, mentre ogni singola votazione può forse contribuire a interpretare quanto è avvenuto durante queste elezioni sotto SARS-CoV-2 in terra statunitense.Se il ricorso ai referendum in Italia può indicare la perdita di credibilità dei partiti e l’assenza di fiducia dell’opinione pubblica rispetto al Parlamento, sarebbe sbagliato dire lo stesso per gli Stati Uniti.Piuttosto i diversi esiti referendari, assieme alle vicende federali legate alla Casa Bianca, dovrebbero convincerci che per quanto subalterna sia la cultura di massa occidentale a quanto arriva da quel continente, l’Europa ha davvero poco a che spartire con la democrazia presente sull’altro lato dell’Atlantico, almeno sul piano della politica e delle istituzioni.Piuttosto sarebbe il caso di ragionare del modello federale che non funziona a livello europeo (non ci sono istituti referendari a livello sovranazionale, mentre il Parlamento a Strasburgo sembra un luogo in cui parcheggiare qualche figura politica, rispetto al dibattito pubblico italiano).
Jacopo Vannucchi
La scorsa settimana Bernie Sanders ha così riassunto, su Twitter, una serie di risultati referendari negli Stati Uniti: «La Florida ha approvato il salario minimo a 15$. Montana, Dakota del Sud, Arizona e New Jersey hanno legalizzato la marijuana. Il Colorado ha approvato 12 settimane di congedo familiare pagato. L’Arizona ha aumentato le tasse ai ricchi per finanziare l’istruzione. In tutta l’America gli elettori hanno approvato un programma progressista. Ora il Congresso deve agire».
La Ocasio-Cortez ha sarcasticamente aggiunto su Instagram: «È quasi come se le politiche progressiste facessero vincere le elezioni».
Al di là del fatto che mi rifiuto di considerare progressista la legalizzazione della droga ricreativa (giuste invece l’amnistia e l’espunzione dalla fedina penale delle condanne draconiane in materia), è interessante confrontare i dati dei referendum con quelli delle presidenziali.In Arizona sulla Proposition 208 hanno votato 143.000 elettori meno che alle presidenziali, con il fronte progressista che ha guadagnato circa 5000 voti rispetto al ticket Biden-Harris. Le variazioni non sembrano enormi: almeno il 6% degli elettori di Trump-Pence sembra aver votato a favore o essersi astenuto.Variazioni ancora minori si riscontrano in Colorado.
In Florida, invece, dove Trump prevale su Biden circa 51% a 48%, il 61% ha votato a favore del salario minimo a 15 dollari, una proposta osteggiata dal Partito Repubblicano – mentre Trump si è mostrato reticente, ondivago, ma in ogni caso assolutamente inerte nella pratica. Numeri alla mano, circa 785.000 potrebbero essere gli elettori di Trump che hanno votato per l’aumento del salario minimo: circa 2 su 15. Nella contea di Miami-Dade, dove i cubano-americani hanno votato en masse per Trump, i trumpiani per il salario minimo sfiorano il rapporto di 1 su 4.In California, ancora, la Proposition 22, che riconosce come collaboratori i guidatori della sharing economy, è stata approvata con il 59% in uno stato in cui Biden ha al momento il 65%. Assumendo che i “no” provengano tutti dalla sinistra, circa il 28% degli elettori del Partito Democratico avrebbe votato sì. La percentuale appare la stessa nell’epicentro della contesa, ossia San Francisco.
Quindi è vero ciò che dice Sanders, che gli americani approvano un programma progressista? Non si direbbe. È difficile sostenere che i cubani che votano per l’aumento del salario ma odiano Biden perché socialista (!) siano progressisti; o che siano progressisti i San Francisco liberals, in una città governata dai democratici senza interruzione dal 1964 e con un indice Gini di 0,51. Vediamo piuttosto il frutto di egoismi maggioritari, secondo cui vogliamo avere un salario più alto, la libertà di drogarci, un’istruzione migliore pagata da altri, più giorni di congedo pagato, nonché essere scarrozzati dai liberi collaboratori di Uber. Alcune di queste esigenze sono più che lecite, altre meno e anche meno nobili. Servirebbe una separazione del grano dal loglio che, analiticamente, sembra non esserci e in assenza della quale il “socialismo” à la Sanders sembra destinato ad essere una anonima versione del libertarismo.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.