Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte, canta Paolo Pietrangeli nella sua Contessa, riportata al successo dai Modena City Ramblers, negli anni ’90.
Donatella Di Cesare, voce filosofica sempre più presente nel dibattito pubblico, autrice nel 2020 di un altro volume, dedicato alla pandemia Covid-19 (Virus sovrano? L’asfissia capitalistica), torna in libreria con un libro edito da Bollati Boringhieri. Sceglie di concentrarsi su quella rivolta che spesso viene contrapposta alla rivoluzione. Lo fa guardando allo spazio e al tempo.
Il tempo della rivolta è un titolo che definisce il senso di una riflessione militante e apolide, con cui si invita a scorgere i confini in cui sono rinchiuse le nostre vite e le nostre menti.
Lo svuotamento della politica può essere superato solo guardando oltre l’esistente. Le piazze che si riempiono di rabbia sono una forma di risposta alla rassegnazione individuale. Le proteste di Napoli, in corso durante questa fine ottobre 2020, offrono la possibilità di misurare in tempo reale il senso di pagine che hanno portato Luciano Canfora a liquidare il testo come sterile ribellismo.
Di Cesare è voce dell’anarchia, che talvolta in modo miope la tradizione comunista e socialista finisce per rifiutare in modo aprioristico. In questo libro sembra di scorgere il rischio di una polarizzazione contrapposta tra il martirio della militanza di appartenenza e l’anonimato di una celata azione di sabotaggio, che può declinarsi anche in una forma collettiva di irruzione irregolare sulla scena pubblica.
La rivolta squarcia il presente e apre alla possibilità di un dopodomani, ci spiega l’autrice. Fuori dal complottismo, sfuggendo a un fine precostituito, la ribellione volge la schiena al potere e porta ciò che è fuori dal campo del visibile al centro dell’attenzione.
Denuncia l’indiscutibilità di cui si ammanta il sistema. Sfida il sistema di sorveglianza globale che va delineandosi e si allinea alla figura del migrante come elemento perturbante. Una manifestazione ingovernabile brucia velocemente e al contempo mostra la capacità di attraversare in tempi rapidi tutto il globo.
La rivolta apre quelle porte del futuro che nessuno pensava fossero più possibili, con un senso della storia che non è rappresentabile con una locomotiva che corre sulla linea del progresso, ma si propone come deragliamento necessario per ricordare quel che è fuori dal predisposto.
La fuga, l’anonimato, l’estetica del conflitto e la lotta che non guarda alla propria sopravvivenza definiscono un’alterità necessaria.
Il libro non è un saggio con cui definire la rivolta per un vocabolario da consegnare all’eternità. Suggerisce un movimento da praticare, per ricomporre la politica con l’esistenza soggettiva delle persone, ridando centralità ai bisogni, alle passioni e alla vita. O meglio offre alcune coordinate per vedere il movimento stesso.
Non c’è sistema che non abbia bisogno di un avversario. Senza è destinato a farsi tirannia, a cancellare dalla consapevolezza diffusa la sua convenzionalità.
«Non basta svincolarsi, chiamarsi fuori, considerarsi apolide. Non si tratta di fuggire come apolidi, bensì di risiedere come stranieri. […] Solo se l’apolide, anziché votarsi all’erranza, riconosce quella sua estraneità alla pólis, che lo accomuna allo straniero, è possibile un altro abitare» (p. 112).
Le Zone d’Autonomia Temporanea e le autogestioni dal basso che si pongono fuori dall’esistente sono gli spazi dell’alternativa. Il dopodomani appare una processualità discontinua, che schiude un possibile mutamento.
Fino a che punto possiamo però affrancarci da spazi, luoghi e identità? Disimpegnarsi dall’architettura politica è realmente praticabile in una fase che non sia solo di decostruzione e disvelamento del “re nudo”?
La condivisione della militanza costruisce un’appartenenza può essere una forma di identità diversa da quella individualista imposta dal consumo e dall’apparire imposto dal contemporaneo capitalismo. La ribellione può essere una fiamma nel buio del fine della storia, con cui scorgere le vie di uscita. La loro sporadicità può però anche portare a sbagliare strada. Nelle piazze prende spazio la rabbia. Che talvolta può diventare dispositivo di controllo e di repressione.
Donatella Di Cesare si conferma una voce che la sinistra avrebbe il dovere di non lasciare priva di riscontri. Non tanto sul piano teorico, quando su quello pratico.
Un’allieva di Gianni Rodari con cui si può imparare il dovere di mettersi in discussione e di sapere che ogni equilibrio ha l’obbligo di essere temporaneo.
Per quante vertigini possa essere la relatività delle certezze, specialmente per chi pratica militanze dalla forte identità.
Immagine di JustingLing da wikimedia.org
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.