Attenzione: l’analisi che segue contiene spoiler del film
L’ultima apparizione cinematografica della storia/leggenda di Mulan ci pone davanti ad un prodotto che si inserisce a pieno titolo nel panorama culturale odierno. Il film è un grandioso dispiegarsi di immagini rutilanti, alcune coloratissime, altre quasi bianco e nero, ma sempre all’interno di una fotografia di grande maestria, che usa sapientemente le bellezze naturali di alcuni angoli di Cina che appaiono “da favola”.
Non meno sapiente e non meno immaginifica è l’ideologia che innerva con prepotenza ogni minuto del film.
Iniziamo da un piccolo riepilogo della storia: l’Impero (cinese) è minacciato da un’orda di barbari, guidati da un condottiero che vorrebbe vendicare il padre ucciso dall’Imperatore regnante. Il condottiero è coadiuvato da una strega in grado di controllare le menti e cambiare forma a suo piacere. L’Imperatore organizza un esercito e richiama un maschio da ogni famiglia, perché la guerra è un affare da maschi; la famiglia Hua, benedetta da due figlie, può onorare il suo debito soltanto inviando l’anziano genitore, già invalido della precedente guerra. La sua figlia maggiore, che fin da bambina ha mostrato sorprendenti doti di agilità, coraggio e forza, decide di sacrificarsi al suo posto. La storia finisce bene: il contributo di Mulan è determinante, i nemici vengono definitivamente sconfitti (ed infine ammazzati, un particolare piuttosto crudo di una scena che irride proprio il tentativo di rivolta) e Mulan viene onorata come salvatrice dell’Impero e le viene “addirittura” offerto un posto nella Guardia Imperiale.
Da un punto di vista puramente fattuale, potrebbe sembrare una storia femminista e quasi in rivolta con l’ordinamento patriarcale che innerva tutta la storia (le uniche donne che hanno un qualche ruolo autonomo sono Mulan e la strega e sono comunque pochissime le presenze femminili nel film): la donna che irrompe nell’universo maschile della forza, doma il nemico, restituisce (o istituisce? Non vengono presi in esame altri casi simili) dignità e onore al suo sesso, ricompone il dissidio familiare.
Partiamo quindi dal problema originario, cioè la famiglia. La famiglia di Hua Mulan conta: una madre, che per quanto poco rimanga sullo schermo, è evidente essere assolutamente in linea con i canoni morali come dipinti e vorrebbe vedere la figlia messa a marito il più velocemente ed onestamente possibile (in linea anche con l’evoluzione storica: custodi decisive del patriarcato sono, infatti, le donne che accettano il loro posto e tramandano ferreamente queste convinzioni alla prole); un padre, eroe ed invalido di guerra, custode delle tradizioni familiari, tormentato dall’amore per la figlia e l’ammirazione per le sue qualità guerriere e la convinzione che tutto abbia una rigida collocazione e che le donne debbano sposarsi e pensare alla casa (tutte le donne “tranne” sua figlia, suggerisce il film); una sorella minore, della quale non viene data alcuna caratterizzazione.
E Hua Mulan? Di lei sappiamo che è una virtuosa delle arti marziali, in cui si allena fin da bambina nel più completo anonimato. Non sappiamo infatti chi sia l’istruttore: il padre? Il cielo? Lo spirito-guida dei suoi antenati? Gli sceneggiatori non spiegano. Il dettaglio però serve per definire l’eccezionalità di Mulan, che è si stretta fra gli obblighi della tradizione e l’amore per il padre, ma che non è, in partenza, una donna comune. È una donna con straordinarie abilità fisiche e altrettanto straordinarie doti morali, che la fanno ridisegnare la gerarchia dell’ordine, ma certo non avversarla, né tanto meno ribaltarla.
La gerarchia “Dinastia (Paese, sebbene questo particolare sia interessante; ci ritorneremo) – Società (tradizione) – famiglia (individuo) è soltanto riordinata in questi termini da Mulan, che dovrebbe avere a cuore la famiglia, con l’obbedienza verso il Padre, poi la società con l’osservanza delle sue tradizioni e infine il Paese/Dinastia, che tutto comprende ma che, per una donna, è un’entità’ astratta, lontana, in fondo astorica: un cambio di imperatore non avrebbe avuto un impatto sulla vita della Mulan sposata, a meno di non essere destinata ad esserne toccata nel personale (perché moglie di un soldato, di un ricco mercante, di un generale, una connessione diretta con i grandi eventi storici).
Questo è molto importante per determinare che Mulan, in realtà, l’ordine costituito non solo lo accetta, ma non si sogna nemmeno di combatterlo: lo difende, a spada tratta, contro i nemici esterni, aderendo ad un’epica cavalleresca distillata da ogni imperfezione. Non c’è nemmeno la possibilità della caduta dell’eroe, dell’errore: è Mulan che anzi cerca di “convertire al bene” la strega, il cui tentativo di portare Mulan dalla sua parte con discorsi che sono, quelli sì, protofemministi, all’insegna di “siamo le uniche donne in questa storia, dobbiamo fare squadra insieme”.
La storia di Hua Mulan è una storia edificante, virtuosa, tutt’altro che ribelle: il personaggio Mulan aderisce in pieno a questo codice di valori, tanto che nel film la vediamo disperarsi per non poter seguire l’ultima virtù del guerriero, cioè la verità. Perché la sua è una storia di finzioni. Se fa quello che fa è perché vuole salvare il padre da un incarico che spetta a lui ma cui lui non può assolvere perché invalido. Non è la messa in discussione dell’ordine in ragione della sua invalidità: come a dire che il padre ha già dato ed è ingiusto che il Paese/Dinastia lo richiami in servizio, ma anzi, il padre, se fosse abile, ridarebbe con slancio. È l’amore filiale di una figlia che vuole affiancare il padre e portare al suo posto il giusto fardello. Tanto che poi Mulan, che non fa mistero di questo una volta scoperta, una volta adempiuto al suo dovere ritorna in famiglia per essere giudicata ed È “salvata” soltanto dal grande amore del padre – ma di nuovo un amore “personale”, non certo una riflessione critica su quanto successo.
In questo il film peggiora definitivamente anche rispetto al cartone: lì Mulan ritorna dal padre e mentre gli restituisce la spada e i doni dell’imperatore, il padre li getta via con la mano e abbraccia saldamente la figlia, trascinandola per terra. Un gesto simbolico di grande valore, che è assente nel film: perché Mulan ha perso la spada e quindi torna dal padre a mani vuote, che l’abbraccia, si, ma in maniera molto casta e considerata, abbastanza distaccata. E tutto viene consacrato poi dai doni dell’Imperatore, che raggiungono Mulan in questo momento e che consistono in una spada con incise sopra su un lato le tre virtù originali (lealtà, coraggio e verità) a cui ne viene aggiunta un’altra, sull’altro lato, la “devozione filiale”, isolata e staccata a simboleggiarne la diversità se non la preminenza addirittura sul codice guerriero più generale.
La Disney con questa operazione sembra promuovere una rinnovata amicizia fra Oriente ed Occidente, anzi, fra Capitalismo con caratteristiche orientali e Capitalismo con caratteristiche occidentali: stabilità, lealtà, devozione alla gerarchia, ricerca dell’ordine.
L’analogia viene naturale, perché in questo momento storico il film non dà della sua storia una trattazione, appunto storica: non sono presenti date, richiami a personaggi realmente esistenti, luoghi. Non conosciamo il nome dei barbari, non conosciamo il nome dell’Imperatore, non conosciamo nemmeno dove avvengono questi eventi, di quale capitale imperiale si tratti. È tutto accennato, privo di una connotazione storica che contribuisce a rendere il tutto una fiaba e quindi la rappresentazione di concetti e idee assoluti. Lo scontro è fra Ordine e Ribellione, fra Giustizia e Anarchia.
Così facendo, si situa al di fuori della Storia e quindi si trasforma in una tavolozza su cui dipingere la contemporaneità. Il grande Impero è la Cina, ma potrebbe anche essere l’America; e Mulan potrebbe essere un qualunque supereroe Marvel, ma in scala minore, senza grandi dissidi interiori. È del tutto assente, infatti, la tensione lacerante tipica della tragedie greche sull’argomento “famiglia vs. Società”, “singolo vs. Potere”, che in parte “occidentalizza” il cartone animato, perché qui la grande contraddizione è solo apparente e viene ricomposta esattamente da chi l’ha vissuta: la Figlia ha assunto momentaneamente gli obblighi del Padre ma a lui rimette il giudizio una volta che la vicenda è, positivamente, conclusa. E lo può fare proprio perché è positivamente conclusa, perché se fosse tornata a casa sconfitta, sarebbe stata probabilmente schernita e scacciata, come mette in risalto la sinologa Jada Bai. E lo fa perché la fibra morale è salda e lei ha ben chiaro l’ordine sotto il Cielo. Niente avventure, nemmeno filosofiche, alla ricerca di un ordine “altro”.
Tutto si presta quindi a rappresentare un ordine, un Capitalismo che non è in grado di comporre dall’esterno le sue contraddizioni (con il lavoro, con l’ambiente, con se stesso, dove l’alienazione colpisce anche i suoi più fedeli seguaci in termini di salute mentale, bancarotta morale) ma che ha continuamente bisogno di essere salvato dall’interno, dall’accettazione dei suoi valori, che si fondano sull’accettazione della realtà così come è, come appare, non come dovrebbe essere.
Che il Capitale sia in bancarotta ovunque, non sfugge allo sguardo: i processi di produzione sono mantenuti da una rigorosa divisione del lavoro internazionale che supplisce all’aumento delle spese (i paesi poveri producono, i paesi ricchi importano), che a sua volta riflette un aumento, in termini classici, della difficoltà di reperire materie prime e forza lavoro in una maniera che renda lo sforzo valorizzabile; l’ordine interno è mantenuto da una rigorosa polizia militarizzata, il liberalismo d’accatto dei parlamenti ridotti a corifei degli Esecutivi esclude quasi naturalmente ogni voce critica.
C’è un’altra sottigliezza che spinge verso questo tipo di lettura: nel film si parla, in accordo con il presunto gusto dell’epoca, di “Dinastia” come sinonimo di “Paese”: Mulan partecipa ad una guerra per salvare la Dinastia regnante, che rappresenta il Paese, l’Impero. Ma la costruzione della Cina come nazione “moderna” (nel senso dell’Europa del XIX secolo, con tutto quello che comporta) avviene anche nella rilettura del rapporto tra Dinastia e Paese, che i Qing, l’ultima dinastia regnante prima della caduta dell’Impero, consideravano possedimento personale, avendo portato a termine un processo storico di identificazione dell’Impero come possedimento personale della famiglia regnante analogo a quello di altri Paesi europei ed altri imperi prima di esso (anche l’Impero romano passò attraverso il Rubicone della Res Publicae per diventare compiutamente nel IV secolo un possedimento personale, nel quale i cittadini rivestivano il ruolo di sudditi). Questa rilettura ruppe l’identificazione e pose le basi per la costruzione di una comunità nazionale il cui destino non si identificava più con quello di una famiglia regnante ma con quello dell’insieme dei cittadini (e delle cittadine, che con la Repubblica infatti trovarono finalmente un posto ufficiale nella Storia).
Il film insiste invece nella riproposizione del Paese come Dinastia ed essendo il film astorico, ne consegue che “tutti” i Paesi sono proprietà privata del regnante di turno. A questo punto, non c’è grande differenza tra un regnante che regna per volontà di Dio e grazia della nazione ed un regnante democraticamente eletto.
Tornando al film, è evidente che l’unica salvezza per il Paese/Dinastia è la saldezza morale dei suoi cittadini e soprattutto di quelle componenti che nella ripartizione degli utili si ritrovano con il posto più precario: le donne; ma anche, aggiungiamo noi, tutte e tutti gli oppressi da questo ordine che lavora per se stesso senza alcun controllo popolare. L’unica virtù richiesta, in fin dei conti, e’ l’obbedienza, l’obbedienza completa all’autorità. Il mettere a disposizione dell’ordine costituito tutte le risorse, tutta se stessa, ricondurre alla pubblica utilità (che in realtà è privatissima perché è l’utilità di quelli che nel sistema vincono) ogni dote eccezionale, così che l’eccezionalità sia normalmente riconosciuta.
Certo non è una favola che si possa definire “femminista” e men che meno sovversiva. E non che alla Disney sia mai venuto in mente di farla come tale, beninteso: il problema è di coloro che leggono questi prodotti culturali con la speranza che possano veicolari immagini e letture critiche della società. Come leggere un discorso della Tatcher per avere una critica del neoliberalismo.
Immagine Disney