Cronache del tentativo di assolutizzare la libertà di mercato e dei suoi fallimenti recenti
Pubblicato per la prima volta il 16 febbraio 2015
Mai come oggi viviamo in un mondo dominato dall’ideologia. Il trionfo del neoliberismo e la caduta del muro di Berlino hanno reso la rappresentazione del mondo fondata sul libero mercato l’unica egemone rendendo sempre più difficile all’individuo, in mancanza di altre visioni del mondo verso cui indirizzarsi, sfuggire alle sue maglie. Essendo così inserito all’interno di una cultura unitaria e priva di dialettica, l’individuo è indotto a ritenere che tutte le grandi ideologie siano morte e che qualsiasi altra alternativa utopica sia condannata al fallimento, in quanto la libertà del mercato rappresenterebbe una condizione naturale e necessaria.
La metanarrazione del capitalismo contemporaneo insomma funziona proprio tramite un processo (ideologico!) in cui ideologia e utopia vengono sempre più delegittimate come categorie filosofiche e spinte ai margini della riflessione politica. Questo oblio permette al neoliberismo di attribuire la falsificazione ideologica solo ed esclusivamente a chi si oppone alle logiche dell’economia di mercato e di raffigurare l’utopia come un sogno perverso destinato al fallimento.
Questo tentativo di rappresentare ideologia e utopia come retaggi del passato nasconde però una verità ben più profonda, ovvero che la relazione che lega l’economia di mercato a queste due categorie filosofiche è molto più stretta di quanto la narrazione capitalista voglia far credere. Un punto di partenza per comprendere questo rapporto è ricorrere alla definizione posizionale che Karl Mannheim in Ideologia e Utopia (1929) compie di questi due termini. In maniera semplificata e concisa si può dire che il sociologo ungherese intende l’ideologia come quel sistema di idee e convinzioni che tendono a riprodurre lo status quo e gli interessi della classe dominante. Anche l’utopia va intesa come un sistema di nozioni e concezioni che riguardano vari strati o classi sociali, ma al contrario dell’ideologia, essa non si fonde sul mantenimento delle gerarchie sociali prestabilite ma viceversa sul rovesciamento dei rapporti di forza; pertanto l’utopia è la visione del mondo tipica delle classi subalterne che negano la verità dell’esistente e vedono la realtà nella trasformazione sociale.
La teoria di Mannheim rifletteva la situazione storica del suo tempo: da una parte l’ideologia conservatrice dei gruppi dirigenti borghesi fondata sul libero mercato, la competizione, i valori liberali e la democrazia rappresentativa, dall’altra l’utopia rivoluzionaria dei gruppi socialisti basata sulla collettivizzazione, la democrazia proletaria, l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Come Mannheim, anche la tradizione filosofica e sociologica marxista ha mostrato grande interesse nello studio del capitale nei suoi aspetti ideologici. Se in Marx non figura in maniera nitida una vera e propria teoria dell’ideologia, lo studioso che più si è interessato alle modalità tramite le quali il capitalismo tende a riprodursi mediante pratiche ideologiche è probabilmente Louis Althusser che definisce l’ideologia come “un sistema di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, secondo i casi) dotate di un esistenza e di una funzione storica nell’ambito di una data società”. Essa è una pratica che si reifica in specifiche istituzioni (la Chiesa, la Magistratura, la Scuola) definiti come Apparati Ideologici di Stato che hanno il compito di generare consenso nascondendo le effettive ingiustizie sociali e legittimando le idee della classe dominante. L’ideologia trasfigura i rapporti e le relazioni nella quale si trova l’individuo, così che, ad esempio un operaio penserà che l’essere proletario sia naturale, rappresenti il suo posto nel mondo e non l’esito socialmente iniquo di rapporti di sfruttamento.
In ambito marxista, lo studio dell’ideologia è fondamentale anche negli approcci di studiosi contemporanei come Antonio Negri o Slavoj Zizek. Complessivamente dunque, se la relazione fra ideologia e capitale è stata ampiamente investigata, analizzata e teorizzata brillantemente, il rapporto fra capitalismo e utopia è stato poco affrontato. Così come modernamente intesa, sembrerebbe che la categoria di utopia resti un concetto applicabile molto più fecondamente alle concezioni espressione dei gruppi subordinati e/o interessati a cambiare radicalmente i rapporti sociali, piuttosto che a quelli che detengono già il potere.
Uno dei pochi e più significativi tentativi di sviluppare, sempre a partire da un’ottica marxista, la relazione che lega capitale e utopia è quello di Fredric Jameson che nel suo lavoro più celebre Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1991) parte dalla constatazione che la sovrastruttura culturale contemporanea sia stata colonizzata quasi totalmente dalle logiche strutturali del mercato, mercificando ogni aspetto della vita sociale.
Jameson parte dall’idea che i concetti di “mano invisibile” di Adam Smith e di “Bellum omnium contra omnes” di Hobbes sia diversi solo storicamente ma non politicamente e ideologicamente: entrambi tradiscono il bisogno di trovare un Leviatano (lo stato per il primo, il mercato per il secondo) che permetta di realizzare la coesione sociale e di arginare le spinte disgregatrici e rivoluzionarie. “The market is thus Leviatan in sheep’s clothing”: non incoraggia e perpetua la libertà ma piuttosto la reprime. Il tentativo dunque del liberismo è quello di imporre il libero mercato come principio regolatore della società.
Secondo Jameson le teorie fondate sul mercato restano però utopiche perché nonostante il tentativo delle élite liberiste di imporre il mercato in tutta la sua libertà e senza controllo esterno su di esso, una situazione ideale di libero mercato, senza alcuna forma di regolazione, non è mai stata realizzata. Data la situazione attuale, l’idea di un mercato del tutto libero sarebbe irrealizzabile quanto quella di una rivoluzione socialista che sostituisse completamente il mercato con lo Stato. Da questo punto di vista, lo sforzo di Reagan e Thatcher negli anni ottanta di deregolamentare il mercato e di smantellare lo stato sociale può essere letto come il tentativo utopistico di realizzare il capitalismo nella sua forma più pura.
Da questa impostazione sembra emergere l’idea che ogni pensiero utopico sia destinato al fallimento o a trasformarsi nel suo opposto distopico. Seguendo Jameson, invece, che rifiuta ogni concezione teleologica, il futuro è aperto e c’è spazio per l’affermarsi di forme più o meno pure di pensieri utopici. La precondizione è però che per realizzarsi un sogno utopico necessita di “un grande progetto collettivo al quale vi partecipa una maggioranza attiva della popolazione”. La scelta di priorità sociali e la pianificazione non possono non essere parte di questo progetto, perché ogni idea teorica necessità di una certa programmazione per essere attuata nella pratica. Va da sé che la concezione del libero mercato non potrà mai realizzarsi nella sua forma più pura e utopica proprio perché si fonda sull’idea che la pianificazione e la programmazione, fondamentali per mettere in pratica una concezione utopica, siano esattamente ciò di cui il mercato deve sbarazzarsi. In altre parole, il mercato, per definizione, non può essere un progetto pianificato e non potrà dunque mai realizzarsi nelle sue forme più pure nella realtà.
Uscito nel 1991, il saggio di Jameson resta ancora attualissimo se si pensa agli sviluppi politici ed economici degli ultimi anni che mostrano esattamente il fallimento dell’utopia del libero mercato. La deregulation ha permesso al settore finanziario di espandersi in maniera tanto mastodontica quanto irresponsabile e anarchica, così da creare bolle speculative dagli effetti sistemici potenzialmente devastanti. Conseguenza di questa trasformazione è stata la crisi del 2007/2008 che ha messo in evidenza la futilità del sogno utopico del capitale nella sua fase finanziaria di smantellare ogni forma di controllo politico su di esso. La crisi ha anzi determinato un ritorno massiccio e una nuova forma di irruzione del politico e della regolamentazione sul mercato. Se ieri erano gli stati nazionali, oggi sono le istituzioni transnazionali come il FMI o finanziarie come le Banche Centrali ad attuare politiche monetarie sempre più aggressive e distorsive delle leggi del mercato nel tentativo di rimediare al disastro prodotto dalla deregulation e di salvare il sistema capitalista dal crollo.
La differenza con la crisi del ‘29 è però purtroppo tangibile. Laddove il “Big Crash” di Wall Street ha significato una fase di nuova regolamentazione statale basato sul modello del Welfare State e delle economie pianificate in mano a governi nazionali fondati sulla democrazia rappresentativa e sulla divisione e bilanciamento dei poteri, oggi le politiche economiche sono in mano a organismi transazionali o a soggetti politici come le agenzie di rating che, totalmente estranei alle forme della politica tradizionale, non hanno nessuna legittimità popolare e soprattutto pochissimi vincoli alle loro azioni di pianificazione.
Il libero mercato nel tentativo di rincorrere il suo sogno utopico ha prodotto il suo contrario: un’economia sempre vulnerabile a possibili crisi sistemiche, governata da una élite politica scelta per cooptazione che può esercitare il suo mandato in maniera sostanzialmente illimitata e caratterizzato dal progressivo depauperamento della classe media e della crescita delle disuguaglianze in un contesto di smantellamento della rappresentatività democratica.
Utopia e Ideologia, con il crollo del muro di Berlino e il trionfo a livello globale di un unico modo di produzione, sembrano categorie apparentemente sempre più anacronistiche e vuote, anche per l’incapacità delle forze politiche ostili alle logiche capitaliste di riuscire a pensare ad alternative politiche ed economiche credibili, cioè a costruire nuove e diverse rappresentazioni ideologiche e utopiche. Eppure alla prova dei fatti, anche contemporaneamente, il capitalismo continua a riprodursi tramite giganteschi apparati e tramite sofisticate pratiche ideologiche e alterna fasi in cui prevale il desiderio utopico di avvicinarsi a una situazione di piena autonomia del mercato ad altre in cui invece si impone l’esigenza di una regolamentazione esterna su di esso. Risulta insomma evidente che ideologia e utopia dominano ancora la nostra realtà e restano un terreno fondamentale di scontro per l’egemonia.
Immagine da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.