Quasi in concomitanza con l’anniversario dell’ “altro 11 settembre”, il colpo di stato in Cile che nel 1973 ha instaurato la dittatura di Pinochet, sono arrivate due sentenze che hanno riguardato gli ex Presidenti di Bolivia ed Ecuador, Evo Morales e Rafael Correa. Entrambi gli ex leader di sinistra sono stati esclusi dalla prossime elezioni presidenziali nei loro rispettivi paesi. Il verdetto, di natura politica, mostra ancora una volta come gli interessi imperialisti plasmino ancora in maniera decisiva le dinamiche politiche dell’America Latina, caratterizzata attualmente dalla crisi dei movimenti di sinistra ma anche dalla scarsa popolarità degli attuali governi di destra, soprattutto in Cile e in Ecuador, dove nei mesi scorsi le proteste sono state particolarmente intense. Sulla situazione e sul futuro dell’America Latina il Dieci Mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
Il periodo che ha seguito la seconda guerra mondiale è stato caratterizzato, almeno in occidente, da una generale convinzione che il mondo stesse marciando, attraverso un percorso collettivo di autodeterminazione dei popoli, risolutamente verso l’affermazione della democrazia in ogni paese, sotto la tutela di organizzazioni internazionali che avrebbero dovuto regolare i conflitti tra stati (territoriali e commerciali).
L’impressione di un grande progresso dell’etica, e quindi anche delle relazioni sociali e della politica, è stata alimentata dalla diffusione del benessere generato da un grande sviluppo tecnologico che ha consentito un miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone.
La confusione tra progresso tecnologico e progresso etico ha convinto un po’ tutti che le sorti dell’umanità fossero finalmente ben incardinate su binari che conducevano dritti verso un mondo fatto di relazioni internazionali meno militarizzate e più mediate e un generale – per quanto non omogeneo – miglioramento delle condizioni materiali delle persone, e che questo percorso non fosse più invertibile. Qualcuno agli inizi degli anni ’90 ha definito questo fenomeno “la fine della storia”.
Purtroppo, tutta questa analisi, alla prova dei fatti, si dimostra assolutamente errata. Gli stati nazione nati alla fine dell’800 sono soggetti belligeranti che operano con la violenza per il controllo di spazi geografici ed economici, le agibilità democratiche si contraggono in diversi paesi ove la conduzione dello stato diventa affare economico conteso tra oligarchi, il capitale continua a sfruttare il lavoro, la schiavitù è ancora largamente diffusa e l’accesso alle risorse naturali è ancora affare economico che si sviluppa attraverso la violenza imperialista. In queste dinamiche il grande sviluppo tecnologico degli ultmi anni è strumento di moltiplicazione delle forze disposte sul campo, e di conseguenza di moltiplicazione delle sofferenze.
In tutto questo l’america latina, similmente ad africa e medio oriente, resta territorio di colonialismo come e quanto nei secoli passati, territorio in cui le legittime aspirazioni di sviluppo economico e democratico si scontrano con gli interessi di un ingombrante vicino di casa che non ha nessuna intenzione di mollare la presa su ciò che considera sua proprietà.
Il processo di espansione della democrazia e di riduzione del conflitto tra uomini attraverso gli stati richiede un sforzo, in contrapposizione alle grandi narrazioni organizzate, di ricostruzione di una coscienza di classe che sia trasversale alle culture e che rompa i confini degli stati nazione; richiede una riscrittura complessiva delle idee di appartenenza che strappi le coscienze politiche dalla loro dimensione locale e le metta in connessione.
Piergiorgio Desantis
L’America latina si conferma, ancora una volta, terreno di scontro politico e egemonico. Società ancora piuttosto instabili determinano un panorama politico caratterizzato da una divisione dei poteri pressoché assente (caso Lula docet). Nonostante ciò il continente latinoamericano continua a essere luogo di esperimento e di lotta. Oltre a Cuba che rappresenta comunque un faro, il declino Usa (anche se il cortile di casa pare essere ancora elemento di assoluto interesse), le difficoltà e le complessità delle situazioni risentono comunque di una resistenza che è comunque in campo. Infatti, le pratiche e le personalità del Socialismo del XXI secolo continuano a essere un punto di riferimento per chi in Europa viene visto pressoché assente o peggio residuale. Qualcosa su cui abbiamo da interrogarci.
Jacopo Vannucchi
Nel 2005 un ottimo libro di Gianni Minà portava il titolo «Il continente desaparecido è ricomparso. Le idee di Porto Alegre che stanno cambiando l’America Latina».
Da allora la condizione del continente si è profondamente involuta e l’ondata rosa è entrata in riflusso nella seconda metà del decennio appena trascorso. Nazioni importanti (Brasile, Cile, Perù) hanno nuovamente regimi di destra, altre (Bolivia, Ecuador) stanno vivendo una improbabile «normalizzazione legalitaria». Questa è stata facilmente smascherata dal tweet del 24 luglio con cui Elon Musk, dopo aver scritto che l’aumento della spesa pubblica negli Stati Uniti non è nell’interesse del popolo, rispondeva a un utente che gli chiedeva conto del golpe in Bolivia: «We will coup whoever we want! Deal with it.» (“Faremo colpi di stato contro chiunque vogliamo! Fatevene una ragione”).
La situazione, però, più che disperata sembra combattuta: i governi di sinistra con maggior radicamento storico (Nicaragua, Venezuela, oltre ovviamente a Cuba) restano nonostante tutto in piedi e la crisi Covid che ha piagato il Messico di López Obrador ha però radicalizzato l’opposizione dove la sinistra mantiene ancora una forte presenza sociale (ad esempio, in Cile).
Nella destituzione di Morales e nelle vicissitudini della Rivoluzione bolivariana alcuni hanno voluto vedere il fallimento di modelli di socialismo di carattere plebiscitario e marziale, “bonapartista” si sarebbe detto un tempo. Personalmente ritengo che la questione debba essere letta in modo differenziato, in base alle diversità dei singoli stati sudamericani e alle diversità interne di questi stessi stati. Resta tuttavia un fatto che i governi socialisti più duraturi nell’area (Cuba, Nicaragua, Venezuela) appartengano a modelli non particolarmente liberaldemocratici.
Alessandro Zabban
La storia dell’America Latina è sempre stata travagliata e lo è anche oggi. Il fatto che in molti ambienti della sinistra non si usi più la categoria di imperialismo per leggere la realtà politica, non significa che questa abbia smesso di avere i suoi effetti concreti sulla realtà. Indubbiamente la morsa occidentale sui paesi dell’America Latina non si è mai allentata, semmai è cambiata contestualmente con l’emergere di una nuova fase storica. Finita la Guerra Fredda, alla retorica del pericolo rosso da fermare a tutti i costi è subentrata quella dei paesi canaglia, dei dittatori feroci e della necessità di esportare la democrazia. In questo contesto, colpi di stato e giunte militari in stile cileno avrebbero creato non pochi imbarazzi a chi si professa paladino della libertà.
L’imperialismo di oggi in America latina non è più soft nei suoi effetti ma si basa meno su azioni dirette (il golpe è utilizzato solo come extrema ratio) e più su un continuo lavorio ai fianchi e da azioni di disturbo di tipo legale, tanto che molti studiosi latinoamericani parlano di “lawfare” per riferirsi proprio alla persecuzione giuridica condotta contro leader della sinistra o nella delegittimazione dei loro risultati elettorali. Esempi recenti sono le accuse di corruzione del tutto prive di fondamento che hanno impedito a Lula di presentarsi alle elezioni presidenziali in Brasile (che probabilmente avrebbe vinto contro Bolsonaro) e le altrettanto infondate denunce di brogli elettorali da parte dell’OAS (Organizzazione degli Stati Americani), allineata con le politiche della Casa Bianca, in occasione delle elezioni presidenziali in Bolivia che avevano stabilito la rielezione di Morales. Quando quest’ultimo si è visto costretto, sotto minaccia dei generali, a lasciare il potere, la sinistra occidentale di governo è rimasta in silenzio, accettando ciecamente la tesi di Morales come dittatore che manipola le elezioni (ma tacendo sulle continue violenze squadriste e razziste dell’attuale governo de facto).
L’esclusione dello stesso Morales e Correa dalla prossime elezioni presidenziali mostra la paura delle forze reazionarie nei confronti di chi ha saputo sconvolgere la politica sudamericana, riportando al centro dell’azione politica il popolo e i suoi interessi. Ma il “lawfare” mostra anche la debolezza delle forze progressiste sudamericane, troppo spesso legate al carisma di un leader che una volta azzoppato finisce per trascinare con se nel fango l’intero movimento politico che lo sostiene. È quello che è successo con Lula in Brasile e che sta succedendo con Morales e Correa, già da tempo vittime di persecuzioni giuridiche e costretti di fatto a vivere in esilio all’estero. La strategia della guerra giudiziaria sta dunque funzionando e la sinistra, perdendo i suoi leader carismatici, si indebolisce. Ma le performance economiche e sociali dei governi neoliberisti in carica in Ecuador, Bolivia, Brasile (per non parlare del Cile) sono talmente disastrose che la sinistra può giocarsi le sue carte anche con il suo corpo acefalo, nella speranza che in futuro non occorra avere leader carismatici per avere una sinistra forte.
Immagine Cancilleria Ecuador (dettagio) da Wikimedia Commons
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.