di Mirko Boschetti*
Prima di tutto occorre chiarire che io, come tanti altri, sono ovviamente critico su una campagna all’insegna dell’antipolitica. Facendo attività politica sin dalla tenera età, non per motivi dinastici ma per pura passione, mi sembrano e mi sembravano stupide già anni fa le discussioni sul risparmio dei costi della politica. Discussioni che in questo momento parrebbero occupare largo tempo nella battaglia referendaria di parte dei due fronti: i grillini continuano con pomposità a parlare dei costi della casta; il fronte del No, dalle sardine all’estrema destra, prosegue sulla retorica del “dimezziamo gli stipendi non i parlamentari” agitando addirittura lo spauracchio di un Parlamento scelto dai partiti e non dalla gente (qualunque cosa voglia dire questa affermazione).
Tolta quindi l’eventualità di un voto moraleggiante o contro qualcuno (perché nessuno dei due fronti mi soddisfa pienamente), nel periodo estivo mi sono quindi interrogato molto sulle conseguenze pratiche della vittoria del No e sulle conseguenze della vittoria del Sì.
La riforma è di per sé banale ed è impossibile farci molta dottrina costituzionale sopra. Infatti si tratta di una semplice riduzione del numero dei parlamentari che, badate bene, è frutto del ragionamento del 2016: da quel forte No alle riforme complessive e strutturali non potevano che derivare riforme puntuali. Alla faccia di chi, mentendo, si aspettava scenari diversi.
A questo giro le conseguenze non mi paiono particolarmente complesse.
Se dovesse vincere il Sì ci sarebbero meno parlamentari eletti nel prossimo Parlamento. Il numero sarà 600 e non più 945 (che è un numero, oggettivamente, ritenuto pletorico). Non vorrei dilungarmi sul perché 600 sarebbe il numero da comparare alle Camere Basse dei nostri partner europei: chi non riconosce il fatto che senatori e deputati italiani svolgano lo stesso ruolo e abbiano la stessa funzione, a differenza dei Senati o Camere dei Lord o Camere delle Regioni presenti in giro per il continente, probabilmente non è cosciente dell’assurdità di questo unicum chiamato “bicameralismo paritario”. Ed è anche legittimo, però per il suo superamento continuerò sempre a battermi.
Per tutti gli altri la discussione può proseguire: un Parlamento ridotto funzionerà meglio o funzionerà peggio? Non sta a noi deciderlo, perché dipenderà principalmente da chi farà parte del prossimo Parlamento.
Interi territori non verranno rappresentati? Come facciamo ad ammetterlo senza sapere neanche chi saranno i candidati?
600 è un numero che non assicura rappresentanza? Ma chi decide quale numero sia – rappresentativamente parlando – perfetto, sotto o sopra il quale la rappresentanza non ha più senso di esistere? Nessuno. Non siamo matematici, parliamo di politica. La rappresentanza è un tema fondamentale all’interno della democrazia partitica, perché sono già ora i Partiti a decidere i candidati o i metodi di selezione dei candidati. La costituzione già ora non garantisce che i partiti candidino buoni rappresentanti.
Se dovesse vincere il Sì, l’unico dato politico che certamente passerebbe è che l’intero Parlamento (il 98% dei deputati presenti in ultima lettura alla Camera) ha avuto una conferma della propria decisione da parte del popolo sovrano. Perché ricordo che il Parlamento, di cui tanti si riempiono la bocca, ha già deciso a larga voce.
Questo referendum non si sarebbe neanche dovuto tenere: perché ci sarà? Perché un gruppetto di parlamentari, principalmente di Forza Italia, ha deciso di cambiare idea e passare dal Sì alla campagna attiva per il No raccogliendo le firme per indirlo. In barba alla rappresentanza!
Il peggioramento sicuro del Parlamento e la fine della rappresentanza democratica sono quindi indimostrabili se non facendo ricorso a fallacie logiche e acrobazie retoriche.
Se dovesse vincere il No, invece, l’unica conseguenza politica sarebbe il definitivo blocco repentino del processo riformatore del Paese, strada che invece col Sì rimarrebbe perlomeno aperta e, come afferma il professore e costituzionalista Enzo Cheli, più percorribile proprio basandoci su numeri più ridotti ed “europei”.
D’altronde, proprio per una motivazione di migliore efficienza e adattabilità, ogni proposta dottrinale e politica in tema di riforma costituzionale e parlamentare ha visto in trent’anni della nostra storia una riduzione del numero dei parlamentari al proprio interno: dalla commissione Bozzi del 1983 alla commissione D’Alema del 1997, dalla riforma Berlusconi del 2006 a quella Renzi-Boschi del 2016.
È scontato prospettare che, se il popolo dovesse bocciare anche questa banale riforma costituzionale e puntuale votata da tutti i partiti in Parlamento, nessuno avrebbe il coraggio di mettere mano all’apparato istituzionale vecchio e stantio per chissà quanti anni ancora. Alcuni palasharpisti come Tomaso Montanari e Anna Falcone ne sono ben consapevoli, e infatti li vediamo ancora coerentemente combattere a suon di “la Costituzione non si tocca”.
Purtroppo altri si sono innocentemente accodati a questa campagna purista, vedendo questa riforma come una battaglia finale e non come un inizio, e confidando nel “no in vitro”, privo di ogni conseguenza sulla realtà, ma che, come abbiamo visto nel 2016, non può che avere risvolti conservativi e antiriformisti.
*Romagnolo dal 1994, Laureato in Giurisprudenza a Milano. Dopo qualche esperienza lavorativa all’estero sono tornato in Italia, dove lavoro come policy officer per un ente locale. Per ragioni sociali ed educative sono di sinistra e riformista in un Paese profondamente conservatore.
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