Dopo una lunga attesa, ecco finalmente che “Ema” arriva sui grandi schermi italici. Nonostante fosse in concorso all’edizione 2019 della mostra del cinema di Venezia, questo film è arrivato con grande ritardo. Nessun distributore lo voleva. Poi è arrivata Movies Inspired, coraggiosissima società torinese che spesso riesce a portarci opere di valore che gli altri hanno timore a distribuire (in questo caso è capibile il perché). Sicuramente le sale parrocchiali faranno a gara per proiettarlo, visti i temi che il film affronta (non prendetemi sul serio). Ho avuto il privilegio di vedere questo film in anteprima a Firenze nell’inconsueta location della Manifattura Tabacchi con un mese di anticipo rispetto all’uscita italiana (2 settembre). E’ doveroso ringraziare la Fondazione Stensen che ha curato un’estate cinefila davvero stuzzicante dal punto di vista quantitativo e qualitativo.
Verrò subito al punto. Pur amando il cinema di Pablo Larrain, uno dei più importanti registi sudamericani al mondo, stavolta devo dire per la prima volta che questo film non è totalmente riuscito. E’ giusta l’analisi mossa da molti critici: Larrain si diverte a ricreare un’opera volutamente inclassificabile per non dare punti di riferimento.
Gli spettatori non vedono i fatti, ma vengono sballottati continuamente tra i racconti dei personaggi. Come se si fosse in “Rashomon” di Kurosawa dove ognuno dice la sua, ma la realtà oggettiva non viene mai rappresentata. Tutto è deforme, grottesco se serve.
Attenzione non è brutto, ma è un po’ confuso: prende troppe strade, si attorciglia, delira per lunghi tratti e ha un finale poco credibile. Francamente si nota che Larrain era sotto effetto di stupefacenti, mettendo insieme una sorta di musical psichedelico, la critica al reggaeton, la crisi di una coppia, le difficoltà di un’adozione, la libertà, la condizione femminile e tanto altro. Dall’esordio di Fuga (2006) fino al capolavoro Neruda (2016), il regista cileno non ha sbagliato un colpo. Nelle sue opere precedenti Pablo Larrain ha raccontato il Cile come nessuno mai aveva osato fare. Ci ha fatto vedere l’avvento del regime di Pinochet (Post Mortem e Tony Manero), la caduta (il geniale “No – I giorni dell’arcobaleno”), le colpe della Chiesa cilena (“Il Club”, altro film d’autore magistrale) e la persecuzione del poeta Pablo Neruda (“Neruda” – 2016). Poi nel 2017 la svolta: Larrain va in America e gira “Jackie” (https://archivio.ilbecco.it/cultura/video/film-della-settimana/item/3565-pablo-larrain-come-cortocircuitare-il-biopic.html), opera sulla vedova di JFK interpretata da una strabiliante Natalie Portman. Pur essendo un film diverso dai precedenti, segue in realtà le orme di Neruda.
“Ema” è un’opera di rottura e lo capiamo dalla prima scena. Il montaggio è davvero particolare: è come ricostruire un puzzle, in stile Memento di Christopher Nolan. Toccare il fondo per poi rinascere. Un’eterna competizione tra il distruggersi e il disintegrare gli altri.
Ci sono un semaforo in fiamme e una donna con casco armata di lanciafiamme (mi ha ricordato DiCaprio a caccia di nazisti in “C’era una volta a Hollywood” di Tarantino). Poi Larrain cambia. Si entra in una compagnia di ballo che sta sperimentando una performance “tribale” e ovviamente carnale. La musica elettronica sullo sfondo è assordante.
A prendersi la scena c’è lei: Ema (Mariana Di Girolamo). Donna minuta dai capelli corti color biondo chiaro, carismatica, eclettica, che ama non darsi limiti nonostante un profondo senso di colpa che la tormenta. E’ riuscita a rendere etero il coreografo omossessuale Gaston (Gael Garcia Bernal, attore feticcio di Larrain con cui ha girato “No” e “Neruda”) finendo per sposarlo. Ma a Ema piacciono anche le donne e non disdegna le orge lesbiche. E’ una che non si fa scrupoli, neanche quando manipola gli altri per raggiungere i suoi scopi che lentamente vengono immersi in una vera e propria “orgia emotiva” (perdi più sotto luci al neon colorate, come se si fosse in un film di Winding Refn). Anche il sesso diventa uno sporadico piacere usa e getta. Come giustamente dice Larrain “avvicinarsi troppo a Ema è come quando i pianeti si avvicinano al sole. Si rischia di bruciarsi”.
Sembra una che non ha le idee chiare, sembra indifferente, passiva, ma il piano di Ema è chiaro eccome: “bruciare per seminare” è la sua frase mantra.
Se però analizziamo la storia in ordine cronologico, vediamo che il film parte da un fallimento che spiega molte cose. Ema è una ballerina, Gaston il suo coreografo. Lei è parecchio più giovane di lui (cosa non da poco perché lui sa di appartenere a una generazione differente) e su questa differenza il regista calca la mano. Vivono a Valparaiso, sulla costa cilena. Il dolore sui loro volti è tangibile: dopo aver appreso della sterilità di Gaston (almeno è ciò che dice lei), hanno adottato un bambino colombiano di 6 anni, Polo. Purtroppo però era molto problematico, di difficile gestione. Infatti, giocando con i fiammiferi, dà fuoco alla sorella di Ema e le deturpa parte del viso.
Già Ema e Gaston sono una coppia fuori dagli schemi, figuriamoci cos’altro poteva venir fuori.
Invece che interrogarsi sui loro errori in qualità di genitore 1 e genitore 2 (Meloni docet), i due coniugi si danno la colpa a vicenda. Non ci sono buoni e cattivi, ma in ogni individuo è insito il bene e il male.
“Dal 2010 al 2015, ben 53 adozioni fatte da famiglie cilene sono fallite: non stiamo parlando di un’altra galassia ma di un dato reale del nostro tempo, e la realtà di questi fallimenti è enorme almeno quanto il trauma delle famiglie che lo provocano ma anche subiscono. Abbiamo tentato di mostrare questo trauma nel film: Ema e Gastòn si amano ma hanno la necessità di capire cosa hanno fatto e “si sono fatti”, loro si sentono giudicati sia dall’esterno che da loro stessi” – ha rivelato al “Fatto Quotidiano” il regista.
Polo viene rispedito alle istituzioni. Speravano che gli trovassero una famiglia migliore invece che una di pazzi. Il film diventa una sorta di racconto dell’odissea personale di questa donna in perenne ricerca di stimoli, libertà.
Così lascia il corpo di ballo diretto da Gaston e si esibisce in strada a ritmo di reggaeton (personalmente sono d’accordo con Gaston quando rivolge una netta critica culturale alla moglie su questo genere di musica). Per lei il ballo e l’uso del suo corpo è un nuovo inizio, una nuova sfida.
Il dolore del trauma la trasforma in una donna senza filtri (in questo il film è francamente poco credibile). Nessuno la può fermare: dà fuoco alle macchine, fa sesso con le compagne di ballo e con il vigile del fuoco che spegne i suoi roghi (e non solo…). Tutti cadono ai suoi piedi. E’ gelosa del marito che va a letto con altre (penserà che in fondo il suo appetito etero gliel’ha risvegliato lei?), nonostante il matrimonio sia in rotta. Poi la mattina dopo va a insegnare educazione fisica ai bambini nelle scuole.
Ema vuole rompere le convenzioni, il pensiero dominante creando un movimento che unisce anima e corpo. Come ogni femme fatale della storia del cinema, Ema sa usare il suo corpo perché è conscia della sua bellezza e sa che gli altri lo notano.
Larrain ci spinge nel suo universo senza barriere, istituzioni, limiti. La cosa più importante è che il regista non vuole che si empatizzi o che si cerchi di comprenderla. Sicuramente Ema è l’inno di una generazione che deve trovare il suo spazio, la propria identità. Anche se personalmente questo film mi appartiene poco rispetto ai precedenti del regista cileno. Tutto è estremo, improbabile, ma è anche il quadro, stavolta esatto, di giovani allo sbando lasciati soli, senza idee, che vogliono farsi la loro vita. E così tendono a rompere ogni regola, a esagerare senza vergognarsi.
Così come alcuni governi ebbero timore di film politici come Neruda e No i giorni dell’arcobaleno, forse dovrebbero avere molta più paura a vedere Ema. La bravura di Larrain sta tutta qui: ti fa vedere i rischi che stiamo correndo a metter da parte le persone, a non riconoscere diritti, a non svolgere servizi sociali.
“Ema appartiene alla generazione nata in questo secolo o appena prima, una gioventù che esprime se stessa attraverso il corpo e la musica, davanti a tutti, senza alcuna vergogna. Il mio film vuole essere una testimonianza del mondo dei giovani oggi”, spiega il regista Pablo Larraìn.
I fatti sembrano dare ragione al regista. Questo film probabilmente tra una decina di anni diventerà prassi. Al momento sembra abbastanza inverosimile, ma quello che è certo è che diverse cose stanno cambiando. Ema non è altro che la rappresentazione del caos (soprattutto interiore) dei ragazzi e delle ragazze di oggi. Infatti proprio nel finale Larrain cambia ancora. Mentre la sceneggiatura francamente non si capisce sempre dove voglia andare a parare, è la fotografia di Sergio Armstrong il punto di forza del film. La forza delle immagini e dei colori supera di gran lunga quella delle parole (che sembrano uscite tra le più gettonate sui social e su Google).
Gli ultimi minuti sono l’emblema del “ho aperto troppe parentesi e ora non so come finire il tutto”. Larrain grottescamente infiacchisce il finale della storia non normalizzando, ma “centrifugando” un po’ il tutto. Molti hanno detto che è l’emblema dell’essere felici fuori dagli schemi della famiglia tradizionale. Può darsi, ma mentre gli altri film di Larrain hanno spunti che possono essere riutilizzati nella vita di ogni giorno, qui invece siamo ben lontani. Piacerà a quelli che pensano che il cinema è solo finzione. Per me è anche vita e, in parte, osservazione della realtà.
Il risultato nel complesso non è il massimo, anche se “Ema” è un’opera inconsueta che sa osare e che vanta dei momenti di grande cinema. Di immagini più che di parole. Se però l’(eccessiva?) ambizione del regista è quella di rappresentare il futuro, allora siamo messi male. Ema è un film che vuole essere contemporaneo, presenta un’ipotesi di futuro con nuove regole: più arte, meno politicamente corretto, più femminismo. A differenza della sua protagonista, la pellicola di Larrain pare avere le idee un po’ confuse. Se quello messo in scena è il futuro, sono molto preoccupato. Non che il mondo attuale sia migliore. Sicuramente il pregio del film è quello di mostrare che intervenire soprattutto sulle nuove generazioni non sarà affatto semplice. Probabilmente siamo già in fase troppo avanzata ed è già troppo tardi per correggere.
Fonti: Mymovies, Sentieri selvaggi, cinematografo, onda cinema, comingsoon, Il Fatto Quotidiano
EMA ***
(Cile 2019)
Genere: Drammatico
Regia: Pablo arrain
Sceneggiatura: Guglielmo Calderon, Pablo Larrain, Alejandro Moreno
Fotografia: Sergio Armstrong
Cast: Gael Garcia Bernal, Mariana Di Girolamo, Santiago Cabrero, Paola Giannini
Musiche: Nicolas Jaar
In concorso alla 76à Mostra del Cinema di Venezia
Durata: 1h e 42 minuti
Uscita Italiana: 2 Settembre 2020
Distribuzione italiana: Movies Inspired
Trailer Italiano qui
La frase: Siamo disposte anche a commettere un crimine
Regia ***1/2 Interpretazioni ***1/2 Musica *** Fotografia **** Sceneggiatura ***
Immagine da www.wikipedia.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.