Ritenere la “questione della lingua” un mero fatto formale, avulso da ben più complessi meccanismi di carattere sociale e politico, è probabilmente un atteggiamento mentale quantomeno ingenuo. Se, per limitarci a parlare del nostro paese, la storia della lingua italiana è sempre stata accompagnata da diatribe e contenuti volti a sostenere o ribaltare una determinata posizione ideologica ed egemonica, ugualmente, anche oggi, assistiamo alla medesima (e legittima) appropriazione di fatti linguistici per poter incidere sulla realtà.
È di pochi giorni fa, infatti, il dibattito nato tra l’Accademia della Crusca e Vera Gheno, sociolinguista ungherese, addottorata all’Università di Firenze, specializzata in Comunicazione mediata dal Computer, ed ex collaboratrice presso la medesima Accademia della Crusca. L’episodio in questione riguarda la polemica che si è accesa il 25 luglio scorso, quando il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa (simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale che spesso corrispondente a una vocale media-centrale: -ɘ): Feltri ha schernito la proposta della Gheno di utilizzare i suddetti simboli come alternativa ai plurali “i” ed “e”, in nome di un linguaggio maggiormente inclusivo, sostenendo che tale proposta fosse di difficile applicazione, pronuncia e uso, e ha attribuito la scelta all’Accademia della Crusca e non all’iniziativa della singola Gheno. Il presidente dell’Accademia, Claudio Marazzini, pochi giorni dopo, ha replicato all’articolo di Feltri dissociandosi da quanto accaduto, e anzi affermando che l’iniziativa trova il totale dissenso degli accademici della Crusca e che semmai è stata suggerita da “una persona… non affatto accademica della Crusca”, che oltretutto“non lo è da parecchio tempo”, e che, inoltre, “nessun accademico ha sostenuto queste tesi”, aggiungendo che la notizia di un coinvolgimento in questo senso dell’Accademia “è falsa in tutti i sensi”. Quindi di fatto avallando la posizione del giornalista.
È dagli albori della sua storia, come accennavamo a inizio articolo, che l’Accademia della Crusca si è di frequente distinta per le sue posizioni spesso conservatrici e talvolta avulse da una realtà in divenire. Basti ricordare brevemente l’appoggio che l’Accademia diede, nel Cinquecento, alle tesi di Pietro Bembo, stilando il Vocabolario della Crusca (1612) in cui erano riportati tutti i vocaboli da usare lecitamente basandosi sul modello letterario per eccellenza, petrarchesco (per la poesia) e boccaccesco (per la prosa), respingendo invece l’idea di fondare la lingua italiana sul modello della koiné (un’unione dei vari dialetti d’Italia), proposta da Trissino e Castiglione. Il dibattito sulla lingua, che trova nell’Accedemia della Crusca il suo perno, ha permeato poi i secoli successivi, quando la Crusca, nella seconda metà del 1700, è stata oggetto di critiche da parte degli intellettuali illuministi Cesare Beccaria e Giuseppe Baretti, che dal quotidiano Il Caffè peroravano la causa di una lingua meno aulica e formale, più aperta a forestierismi, e che potesse aprirsi a una maggiore fluidità nella comunicazione delle idee. Nell’Ottocento, infine, la questione della lingua si accompagna a quella più strettamente politica del nascente Stato italiano, con Vincenzo Monti, che stigmatizza il modello arcaizzante finora adottato dagli accademici, e Manzoni, che sollecita una lingua, fondata sì sul toscano, ma che abbia soprattutto una funzione morale e pedagogica.
Come è possibile notare da questo breve excursus storico sulla lingua, appare immediatamente come quest’ultima non sia qualcosa di statico, un monoblocco di termini immutabili e avulsi dalla dinamicità del reale e degli eventi storici, ma piuttosto rappresenti un magma fluido e in costante evoluzione, che si trasforma e si permea non aprioristicamente alla società, ma insieme ad essa. La lingua non è infatti qualcosa di prescrittivo e dato normativamente una volta per tutte, ma di descrittivo ed evolutivo, veicolo incessante di comunicazione tra individui.
Fatta questa breve premessa e tornando alla questione principale posta a inizio articolo, la reazione dei letterati della Crusca alla proposta di Vera Gheno è, secondo il parere di chi scrive, quantomeno anacronistica e incapace di leggere una realtà che, appunto, è in continua trasformazione: fino al recente passato, ad esempio, il dominante plurale maschile “i” era usato primariamente e rifletteva una società ancora dominata da un’idea dell’uomo come unico vertice della società, a cui erano delegate tutte le responsabilità professionali e decisionali all’interno della famiglia e della società, mentre la donna era relegata alle responsabilità materne domestiche, e non possedeva alcuna voce fuori dal contesto familiare. Oggi il contesto è mutato, e, così come vediamo sempre più spesso donne che lavorano nell’ambito della politica o dell’avvocatura, allo stesso modo diventano sempre più comunemente usati, ad esempio, i femminili dei termini “ministro” e “avvocato”, un tempo utilizzati solo al maschile (oggi invece frequentemente utilizziamo “avvocata”, o “ministra”).
In questo senso, allora, la lingua non si limita a intercettare i cambiamenti di una società che si evolve, ma, scegliendo di adeguarsi, avalla un’idea di società plurale e inclusiva, in cui alla rigida definizione dei ruoli di uomo/donna si sostituisce una più moderna ed equa ripartizione delle rispettive funzioni all’interno del mutato contesto storico: in quest’ottica la lingua ha dunque una funzione non solo grammaticale, ma anche politica, agisce nel senso del rinnovamento e lo intercetta.
Probabilmente, però, nell’esempio sopra riportato, la lingua è comunque arrivata dopo rispetto i mutamenti sociali già da tempo in corso della società, ne è stata lo specchio più che la spinta: quando, nel 2014, ad esempio, Maria Elena Boschi è diventata ministra del governo Renzi, lei stessa, in un’intervista a “Otto e mezzo”, rispose a Lilli Gruber di preferire di essere chiamata “ministro” e non “ministra”, poiché, probabilmente, già solo pochi anni fa, la parola appariva quasi stonata per quanto risultava insolita, mentre oggi, probabilmente, l’uso “ministra” piuttosto che “ministro” per una politica donna, appare maggioritario.
Come infatti scrive Alessandra Vescio su Valigia Blu, “in ogni modo, dei nomina agentis, (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne ha parlato, ad esempio, Alma Sabatini, nel saggio Il sessismo nella lingua italiana nel 1987 (…) ed anche la stessa Gheno, nei suoi ultimi lavori, ha mostrato come da un punto di vista linguistico, l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili”[1].
Diversa, a quanto pare, sembra essere però l’idea di una lingua che precorre i tempi della società di cui è veicolo comunicativo: lo schwa, infatti, oltre a superare l’idea di del maschile sovraesteso anche al genere femminile, richiama anche la delicata questione del binarismo di genere.
Il binarismo di genere è un concetto, derivante dai gender studies, che ammette e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono legati ruoli e caratteristiche specifiche e non mutuabili. Il superamento del binarismo di genere porta con sé una concezione del genere non più come una classificazione di due soli elementi, ma come una gamma di più possibilità, per cui l’identità di un individuo non è più modellata esclusivamente sul suo sesso (inteso come insieme di caratteristiche fisiche, anatomiche e biologiche di un individuo), ma include anche la percezione che ognuno ha di sé (identità di genere), indipendentemente dal sesso biologico assegnato alla nascita. Le persone transgender, le persone intersex, e in generale coloro che non si identificano nelle categorie dicotomiche uomo-donna, si riconoscono come persone non binarie. In tale prospettiva, dal punto di vista della linguistica ci si sta quindi chiedendo come costruire un linguaggio che tenga conto, e che includa, tutte le soggettività.
In questo senso, la Gheno ha proposto, nel saggio Femminili singolari (pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Effequ), di utilizzare lo schwa al posto dei plurali “i” ed “e”, per far riferimento a un gruppo misto di persone, intese appunto prima di tutto come tali e non forzate in una definizione linguistica e grammaticale che rimandi esclusivamente a una loro identità fondata sul mero sesso biologico. L’uso dello schwa permetterebbe così il riconoscimento, a livello di lingua e quindi automaticamente di esistenza sociale, delle persone LGBTQIA+. In questa prospettiva, basti pensare che l’autrice brasiliana Marcia Tiburi, nel volume Il contrario della solitudine. Manifesto femminista in comune, ha proposto di sostituire le desinenze maschili e femminili “o” ed “e” con una “–e” neutra, soluzione già emersa nelle proposte dei movimenti femministi, proprio in funzione di inclusività e di non discriminazione e marginalità.
Anche altri paesi si stanno muovendo in questa direzione, ovvero nella ricerca di un linguaggio che sia all’altezza della complessità del presente e delle storie molteplici e differenti degli individui che lo abitano: sempre nel 2019, il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno, in quanto nella lingua inglese si sta diffondendo sempre di più l’uso di “they” e “them”, al posto di “he/him” e “she/her” per riferirsi alle persone non binarie e in generale nei casi in cui non sia specificato il genere.
La riluttanza dell’Accademia della Crusca, se non ad accogliere la proposta della Gheno, ma almeno a inserirsi in un dibattito sempre più attuale e diffuso nelle diverse parti del mondo, testimonia un’incapacità dei letterati di porsi di fronte alle sfide della contemporaneità, e dimostra un’idea statica e anacronistica della lingua e delle sue potenzialità. Come dicevamo, la lingua rappresenta il modellante stesso di una società, permette l’identificazione e il riconoscimento o, al contrario, accentua e perpetua l’invisibilità di soggetti e categorie sociali; tutt’altro che elemento statico, la lingua è scelta e presa di posizione. Rifiutandosi di partecipare al dibattito sullo schwa (e su quello che tale vocale rappresenta in termini sociali e politici), l’Accademia della Crusca ha scelto di rimanere ancorata a un passato granitico che al contrario, fortunatamente, è in evoluzione, non tenendo conto della complessità del reale. A tale proposito Vera Gheno, nel suo intervento, intitolato Saper vivere la complessità del presente, all’evento “Prendiamola con filosofia”, organizzato dall’associazione “Tlon” il 23 luglio 2002, ha affermato che saper leggere la molteplicità del reale è e deve essere proprio una delle competenze e delle funzioni del linguista.
La lingua, nel caso dell’ammissione dello schwa nel suo alfabeto, andrebbe nella direzione, non solo di intercettare, ma anzi di anticipare tendenze che nella società non sono state ancora accolte del tutto. Il dibattito sulla questione di genere risulta ancora aperto e purtroppo, almeno in Italia, vi sono ancora molte resistenze all’accoglimento di una pluralità di generi e orientamenti. Si consideri l’opposizione manifestata alla recente proposta del Ddl Zan-Scalfarotto, proveniente non solo dai membri dei partiti di estrema destra e da tutta la galassia ultra cattolica, ma anche da parti della comunità civile, sia in nome della cosiddetta famiglia naturale, che, soprattutto, della rivendicazione dell’esistenza di due soli sessi normativamente e biologicamente ammessi, quello maschile e quello femminile.
Se, sicuramente, non è sufficiente il linguaggio per determinare un cambiamento nelle coscienze (su cui deve agire un processo culturale e politico), essendo, come qualcuno ha detto, le parole specchio del pensiero e il pensiero specchio delle parole che usiamo, esso potrebbe in tal senso fungere da detonatore performante e tentare di “normalizzare”, attraverso la scelta di una vocale neutra, ciò che ancora non è sentito da tutta la popolazione come comune e naturale, proprio perché la comunicazione su certi argomenti risulta ancora fallace e frammentaria.
Pare allora opportuno concludere questo articolo col brano tratto dal citato volume Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, che la Gheno ha recentemente condiviso sulla sua bacheca Facebook: “Il desiderio politico sorge nello spazio di parola. Lo spazio di parola esige tuttavia uno spazio di ascolto. Lo spazio di parola esprime un desiderio di spazio e tempo contro un ordine che favorisce gli uni a discapito degli altri. L’ascolto è un elemento pratico nel processo politico che dev’essere sperimentato urgentemente, soprattutto dai soggetti che detengono il privilegio della parola”.
Le parole, dunque, tutt’altro che un insieme inanimato di termini, possono e devono contribuire all’edificazione di un mondo che permetta a tuttɘ l’esplicazione del proprio sé.
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Alessandra Vescio, Valigia Blu. ↑
Immagine: alfabeto umano miniato da Heures de Charles d’Angoulême, XV secolo (dettaglio)
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.