Pubblicato per la prima volta il 13 luglio 2016
“Non è facile essere donna leader dei movimenti di resistenza indigena. In una società incredibilmente patriarcale le donne sono estremamente esposte, devono affrontare circostanze molto rischiose, campagne maschiliste e misogine. Il machismo si trova in ogni aspetto dell’esistenza. Questa è una delle cose che può più pesare nella scelta di abbandonare la lotta”: queste sono le parole che Berta Cáceres pronunciava poco meno di un anno fa in un’intervista rilasciata a Eldiario.
Parole di consapevolezza della difficoltà di essere non solo un’attivista indigena, ma soprattutto una donna in lotta contro tanti poteri forti, primo fra tutti quello maschile. Nonostante le avversità e la paura Berta però ha continuato a lottare, fino al giorno della sua morte avvenuto il 3 marzo, quando è stata assassinata mentre dormiva nella sua abitazione a La Esperanza, da uomini armati.
Berta Cáceres era una popolare leader ambientalista, attiva da oltre 20 anni nell’organizzazione COPINH (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras) fiera difensora dei diritti dei popoli indigeni e dei piccolo agricoltori, che ha dedicato la sua vita alla difesa della terra, opponendosi alla violenza e a tutte le forme di dominazione, dal capitalismo, al patriarcato al razzismo.
Le sue lotte per una maggiore giustizia sociale, in difesa dell’ambiente e dei diritti umani (in particolare contro la privatizzazione e lo sfruttamento dei fiumi e delle miniere da parte di multinazionali) hanno ispirato non solo gli attivisti locali, ma anche quelli dell’America latina e di tutto il mondo tanto da ricevere nell’aprile 2015 il “Goldman price”, uno dei premi più prestigiosi a livello mondiale per l’attivismo ecologista.
La morte di Berta è stata una tragedia annunciata: più volte ha ricevuto minacce di stupro, di linciaggio e di morte non solo nei suoi confronti, ma anche rivolte ai suoi familiari. La sera stessa della sua morte Berta aveva confidato alla madre la sensazione che la sua morte non sarebbe avvenuta molto distante.
Ma la storia di Berta non è stata un caso isolato: nonostante la sua storia si sia diffusa in tutto il mondo, grazie anche alla sua fama, la sua stessa sorte è toccata a molti altri militanti honduregni, che come lei avevano l’obiettivo di un mondo migliore.
Qualche giorno fa è toccato a Lesbia Yaneth Urquía, anche lei dell’organizzazione COPINH, morta il 6 luglio a 49 anni, ammazzata dopo essere stata rapita da sconosciuti il giorno prima. Il suo corpo è stato ritrovato in una discarica di Marcala, nella regione di La Paz, nel sud delle Honduras.
Lesbia Yaneth era una fervente difensora delle comunità indigene e, come Berta, era attiva contro la privatizzazione dei fiumi, espropriati alle popolazioni native con la complicità del governo honduregno; in particolare si opponeva alla costruzione di centrali idroelettriche nel municipio di San Josè, all’interno del distretto di La Paz.
Nel comunicato in memoria della sua morte COPINH ricorda come quest’assassinio ha un peso politico enorme che non può essere tralasciato: “Questo omicidio avviene a 4 mesi e 4 giorni di distanza dall’assassinio della nostra compagna e leader, Berta Isabel Cáceres Flores, e ci conferma l’attuazione di un piano volto a far sparire quanti lottano per la difesa dei beni comuni della natura. La morte di Lesbia Yaneth è un vero e proprio femminicidio politico che cerca di nascondere le voci delle donne che con coraggio e valore difendono i loro diritti contro il sistema patriarcale, razzista e capitalista, che sempre di più minaccia la distruzione del nostro pianeta”.
Il principale problema di queste morti, e del loro perpetuarsi, è che sono uccisioni che rimangono nella maggior parte dei casi senza colpevole: secondo l’organizzazione honduregna ACI-PARTICIPA (Asociación para la participación ciudadana en Honduras) più del 90% delle morti e delle violenze rimangono impunite. In questo modo si incoraggia un clima di terrore e violenza, e l’eliminazione fisica di chi si oppone diventa una routine per il controllo dei territori da parte delle grandi industrie.
Si tratta di una situazione estremamente grave, che non coinvolge solo le Honduras: secondo il report di Global Witness il 2015 è stato l’anno che detiene il record di uccisione di militanti ambientalisti/e, soprattutto nei casi dove la difesa del territorio da parte delle popolazioni natie si oppone ai grandi progetti di un capitalismo fine a sé stesso, allo sfruttamento delle multinazionali: durante questo periodo infatti sono avvenuto 185 omicidi di attivisti ecologisti, all’incirca 3 omicidi ogni settimana. Di questi il 40% erano provenienti da popolazioni indigene, che risultano tra le fasce di popolazione meno protette, esponendoli in tal modo a una maggiore vulnerabilità.
Immagine di Coolloud (dettaglio) da flickr.com
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.