Il movimento nato dopo l’uccisione di George Floyd negli USA continua a far parlare di sé: una parte di esso abbatte e imbratta alcune statue di ex regnanti, colonialisti e schiavisti. Dagli Usa al Belgio, passando per la Gran Bretagna molte polemiche sono sorte. Ne parlerà questa settimana il nostro Dieci mani.
Leonardo Croatto
Non trovo per niente convincente l’argomentazione per cui le statue sono ontologicamente un oggetto del passato, rimosso dal presente e sconnnesso dalle dinamiche sociali in corso. Sospetto anzi che dietro questo ragionamento ci sia o un involontario difetto di riflessione sul loro ruolo nello spazio urbano o vera e propria malafede.
Affermare che una statua, per il solo essere eretta, consegni il suo soggetto alla storia è un trucco retorico per sottrarre un evento o un personaggio alla naturale conflittualità del presente offrendogli la protezione che conferisce il passato oramai trascorso.
Fatti salvi quelli che non capiscono il significato politico della realizzazione di una statua per difetto di cultura, tutti gli altri sanno benissimo che la scelta di dedicare una statua ad un qualche personaggio e piazzarla in un luogo di passaggio ha esplicitamente un valore celebrativo, serve a imporre a chi quella statua incrocia nel suo passaggio una lettura positiva del soggetto ritratto: non si dedicano statue a personaggi negativi, quindi chiunque abbia una statua a lui dedicata deve essere per forza una figura positivo.
La statua è (abbastanza evidentemente!) strumento di mitopoiesi: costruisce narrativa positiva intorno a un personaggio, alle sue gesta e, per contagio, a tutto quello che quel personaggio può richiamare come prossimo a sè. La realizzazione delle statue è “storytelling” nell’accezione tecnica contemporanea del termine: serve ad imporre in chi subisce la narrazione l’interpretazione degli eventi di chi narra, ed è quindi esplicitamente un atto politico.
Per questo motivo, l’unica statua la cui esistenza non ha più senso mettere in discussione è quella che, a causa del passaggio del tempo e della conseguente evoluzione della società, si trova oramai fuori da ogni conflitto attivo.
Contrariamente alle capziose argomentazioni offerte da alcuni, non tutte le statue di personaggi con storia controversa sono a rischio di aggressione, ma di sicuro lo sono quelle che ritraggono personaggi le cui vicende trascorse si inseriscono in conflitti ancora non risolti.
Senza dubbio il centurione Marco Pisellonio avrà contribuito, a capo dei suoi uomini, all’invasione di una qualche terra del bacino del mediterraneo durante l’espansione dell’impero romano, senza dubbio sarà responsabile di uccisioni, ma quei fatti sono lontani nel tempo e nessuno soffre ancora delle guerre causate dalle brame espansionistiche degli antichi romani, difficilmente quindi la sua statua diventerà bersaglio in uno scontro politico. E’ ben diverso se ritratto in una statua di recente realizzazione è un personaggio le cui azioni ancora si riflettono sulla persone che dividono il loro spazio di vita con quella statua.
Chi ha messo li quel monumento lo ha fatto con il precise intenzioni dialogiche: quella statua parla con chi la incrocia e comunica la lettura degli eventi di chi la statua l’ha eretta. Quella statua è insulto, minaccia, dimostrazione di forza, rivendicazione, possesso del territorio e l’atto di sfigurarla o abbatterla è perfettamente inquadrato nelle variazioni dei rapporti di forza che si generano nelle curvature della storia.
Piergiorgio Desantis
Un gran polverone è sorto intorno alla modalità di lotta di una parte del movimento che, sia negli Usa, sia in Europa abbatte o imbratta alcuni monumenti di controversi personaggi storici. Tra la statua di Leopoldo II di Belgio, sovrano del passato coloniale, che decimò la popolazione congolese e quella di Cristoforo Colombo c’è una rilevante differenza storica, ovviamente. Circa le statue del sovrano belga, tuttavia, è in corso da anni un’importante battaglia politica, fatta di petizioni, risoluzioni dei consigli comunali per spostare queste statue dalle piazze fin dentro musei, dove potranno essere oggetto di riflessione e, comunque, di studio. I movimenti, per loro stessa natura, non sono fatti di storici di professione, quindi gli abbagli o pulsioni massimalistiche sono rischi da mettere in conto. Altro discorso, invece, riguarda la statua di una figura controversa e inquietante come Montanelli in Italia. In questo caso, trattasi di opera di recente fattura priva di rilievo storico. Per chi si pone a rileggere la sua storia non può non ricordare la connessione dello stesso Montanelli con il passato coloniale fascista e l’abitudine di alcuni soldati italiani di acquistare donne del luogo e farne oggetto di attenzioni sessuali. Cosa che lo stesso defunto giornalista rivendica con orgoglio in un’intervista in bianco e nero, ormai divenuta celeberrima. Le polemiche per l’azione di un collettivo studentesco milanese che ha sporcato di vernice la statua sono ben poca cosa rispetto alle parole e all’impostazione maschilista e suprematista che tiene Montanelli in quel video. Ci sono altre ombre intorno alla figura dello stesso fondatore de “Il Giornale” che riguardano il suo appoggio incondizionato per eventuali tentativi di colpi di stato in funzione anticomunista e le sue preferenze a favore di Pinochet. Questi personaggi controversi cui, ancor oggi, restano intitolate piazze o vie importanti delle nostre città impongono la necessità una battaglia politica, chiarificatoria e demistificatoria. La storia continua a confermarsi terreno di scontro e di egemonia, ultimamente stravinto dalla destra.
Jacopo Vannucchi
Il movimento antirazzista esploso negli Stati Uniti si è caratterizzato, rispetto ai precedenti, per un fortissimo accento sul razzismo definito “sistemico”: quello per cui, anche in assenza di atti discriminatori o di violenze, la popolazione di colore ha un tenore di vita regolarmente inferiore a quello dei.
Era quindi inevitabile che tale movimento mettesse sotto accusa non solo il razzismo ma anche il passato imperialista e coloniale dell’Occidente. E la riappropriazione dello spazio pubblico è, presa in sé, un dato positivo.
Sono però estremamente a disagio, e anzi molto preoccupato, per la piega pratica che questa riappropriazione ha assunto. La ridiscussione del passato occidentale dovrebbe mirare a come recidere l’influenza negativa esercitata ancora oggi dai fenomeni dei secoli passati: per far questo la lotta dovrebbe concentrarsi sul presente e il passato dovrebbe essere compreso in senso olistico e nella consapevolezza che la separazione del grano dal loglio è un’attività intellettuale, ma nella vita umana concreta i due elementi si trovano sempre inestricabilmente mischiati. Questa consapevolezza manca tremendamente nelle folle iconoclaste. Winston Churchill deve essere vandalizzato per le sue idee di gerarchia razziale, anche se ha contribuito a salvare il suo Paese dalle leggi razziali fasciste? Theodore Roosevelt, imperialista e colonialista, deve essere cacciato anche se fu il primo a proporre, nel 1912, uno dei cavalli di battaglia della sinistra USA: il sistema sanitario nazionale? Gli esempi sarebbero innumerevoli.
Mi preme qui rilevare tre cose.
1) La rimozione di statue e simboli deve essere valutata caso per caso. L’uso di indifferenziate damnatio memoriae non migliora affatto la memoria collettiva, ma anzi la sfregia, aprendovi terribili macchie bianche e/o favorendo letture apologetiche e propagandistiche. E queste sono giocoforza quelle propinate da chi detiene il potere sociale, cioè i capitalisti: ai quali piace ancora far credere che il Nord abbia combattuto la guerra di secessione per carità cristiana nei confronti degli schiavi. (Giusto un flash per chi volesse approfondire: confrontare, negli anni della secessione, la xenofobia anticattolica nel Nord e i rapporti tra Confederazione e nativi americani nel Sud.) Abbiamo già visto l’errore obbrobrioso, che io ritengo sia stata una scelta ragionata e deliberata, della rimozione della svastica dai videogiochi sulla Seconda guerra mondiale: col che si è rimosso il nazismo, si è resa quella guerra un atto tecnico indistinguibile dalle lotte tra egizi e hyksos; o peggio si è sostituita la svastica con la croce di ferro, falsificando la storia.
2) L’umore iconoclasta non nasce oggi e non nasce nel radicalismo. Ha altolocati padri istituzionali: nel 2016 il Segretario del Tesoro USA Jack Lew propose di effigiare sulla banconota da 20 dollari l’attivista antischiavista Harriet Tubman, lei stessa schiava fuggitiva, in sostituzione del Presidente Andrew Jackson, sotto accusa per le convinzioni schiaviste e le brutalità contro i nativi. Jackson era stato però anche il fondatore del Partito Democratico moderno e il primo Presidente con una vera base popolare.
3) La rimozione della memoria può forse sanare alcuni dolori, ma ne acuisce altri. La legge sulla memoria storica varata dal PSOE nel 2007, che disponeva ad esempio la rimozione dei monumenti franchisti e scavi per individuare le fosse comuni della guerra civile, fu duramente osteggiata dal Partito Popolare. Perché con essa i socialisti ruppero unilateralmente il patto tacito concordato fra tutte le forze politiche trent’anni prima, ossia che dittatura e guerra civile erano capitoli chiusi. Gli elettori popolari si sentirono traditi e non tutelati neppure dal loro partito, che, con la guida liberale di Rajoy, non rimise mano alla legge. Il risultato? Oggi un partito fascista ottiene il 15% in Spagna, un 15% che in precedenza era tenuto sotto controllo nel calderone popolare.
Alessandro Zabban
L’iconoclastia è una forma di lotta politica che ha una lunga tradizione alle spalle. Si caratterizza, almeno modernamente, per la messa in discussione del capitale simbolico di una nazione e lo fa prendendo di mira il patrimonio culturale istituzionalizzato. La lotta degli iconoclasti è dunque sulla storia e sulla memoria storica di un popolo, funziona quando mette in evidenza che a interessi di classe e potere differenti, corrispondono letture della storia differenti, inclusi i propri eroi e personaggi meritevoli di essere ricordati. Da questo punto di vista, allora, credo che attaccare l’iconoclastia in quanto tale sia un errore: è una forma di azione politica che ha una sua razionalità e dunque una sua legittimità nell’ambito di tutte le possibili forme tramite le quali si può manifestare lo scontro politico.
Le pratiche iconoclaste sorte sull’onda del movimento del Black Lives Matter non vanno dunque giudicate nella forma, politicamente legittima, ma nella sostanza. Proprio da questo punto di vista, la dimensione planetaria delle proteste, la sua componente di massa e la sua scarsa organizzazione hanno inevitabilmente portato a forme di iconoclastia piuttosto variegate, alcune delle quali indubbiamente controverse. Complessivamente però, il vaso di Pandora che si è aperto a seguito dell’uccisione di George Floyd ha generato un movimento di massa che vuole mettere in discussione la memoria storica istituzionalizzata, ancora non sufficientemente capace di fare i conti col proprio passato coloniale né tanto meno col proprio passato, ma anche presente, imperialista.
Una nota a margine merita la situazione italiana dove le polemiche sterili sulla statua di Montanelli cozzano con una realtà in cui l’egemonia simbolica e culturale è totalmente nelle mani delle destre, il cui spirito iconoclasta è meno appariscente ma non meno politicamente violento, come dimostrano ad esempio i tentativi di cancellare o snaturare il 25 aprile. Negli ultimi decenni anche il centrosinistra si è dato da fare per aiutare le destre a vincere la battaglia simbolica e sulla memoria storica, abbattendo i monumenti socialisti e rinominando vie e piazze con una furia degna dei regimi nazionalisti dell’est Europa. Non stupisce che ora siano tutti insieme a difendere la statua di Montanelli.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.