Pubblicato per la prima volta il 12 luglio 2018
La vulgata neoliberale si è diligentemente impegnata a celare forme e contenuti della lotta di classe.
Fra profezie sulla fine della storia e discorsi retorici sul merito, a molti è apparso che il conflitto fra lavoro e capitale si fosse risolto in una società non ugualitaria ma comunque opulenta, piena di opportunità e caratterizzata dalla forte mobilità sociale. La crisi dei partiti comunisti e dei riferimenti culturali del socialismo, sembrava corroborare questa ipotesi ed stata da molti letta come il sintomo dell’avanzata di una società globale proiettata verso una piena pacificazione interna.
La rapida crescita delle disuguaglianze, il ritorno della ghettizzazione e dei working poor, lo smantellamento del welfare in molti paesi occidentali, il ruolo egemone del sistema finanziario e un regime di concorrenza spietato hanno però gradualmente incrinato la narrazione di una globalizzazione come ultima fase di un percorso illuminista di liberazione, progresso e miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Se per ora le lotte contro lo strapotere liberista risultano troppo deboli e frammentarie, occorre però rimarcare una crescente consapevolezza che la lotta di classe è tutt’altro che finita. Semplicemente, come ci ricorda Gallino, sono i ricchi che la stanno vincendo. Nella loro eterogeneità, la crescente disillusione nei confronti dell’Unione Europea, la rinascita di un pensiero socialista negli Stati Uniti e l’ascesa del populismo sono forse i sintomi più evidenti di un ritorno della conflittualità di classe, per quanto disorganizzato e disomogeneo.
È dunque la più stringente attualità che ci obbliga a pensare e a riflettere sulla lotta di classe. Anche per questo, la scomparsa, lo scorso 28 giugno, del filosofo marxista Domenico Losurdo è una perdita incalcolabile. La sua analisi sulla lotta di classe da una prospettiva tanto storica che filosofica, resta un contributo fondamentale che aiuta a mettere in luce aspetti, potenzialità, criticità e dimensioni di una delle categorie marxiste più rilevanti. Di fronte a una sinistra in evidente stato confusionale, spesso divisa su dimensioni essenziali come quella del sovranismo/globalismo o su fenomeni controversi come il populismo, Losurdo ha sempre provato a fornire chiavi di lettura interessanti a partire da una rigorosa analisi dei testi della tradizione marxista giungendo a conclusioni molto spesso brillanti, e volte controverse, ma sempre in grado di stimolare una discussione produttiva.
Nel celebre saggio La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Losurdo chiarisce in maniera piuttosto convincente la natura e le dimensioni della lotta di classe. Contrariamente a quanto una lettura binaria possa suggerire, la lotta di classe non va intesa semplicemente come scontro fra proletariato e borghesia, bensì in una maniera decisamente più multidimensionale. Nel Manifesto, Marx ed Engels non solo, come è risaputo, affermano che la storia nel suo complesso (non solo quella relativa alla società borghese) è lotta di classe, ma vogliono chiaramente intendere che la lotta fra proletariato e borghesia, anche all’interno di una società capitalista, non è l’unica dimensione della lotta di classe, come l’appello alla liberazione nazionale della Polonia contenuta proprio nel Manifesto lascia intendere.
Il riferimento al popolo polacco non è affatto un’eccezione: in molti altri scritti, Marx ed Engels denunciano ogni forma di occupazione straniera spaziando dal caso dell’oppressione del popolo irlandese, fino alle politiche coloniali e imperialiste in Cina. Non si tratta di una “distrazione” dal conflitto lavoro-capitale: la questione nazionale va intesa come dimensione della lotta di classe. Difficilmente il popolo può liberarsi dalle catene dell’oppressione se è sotto il giogo di una potenza straniera. Non bisogna stupirci che in certe circostanze storiche, la lotta di classe assume le forme della lotta di liberazione nazionale.
Oltre alla dimensione socio-economica e a quella nazionale, la lotta di classe secondo Losurdo non può non riguardare anche il fondamentale aspetto della questione di genere. Marx rimarca la necessità di “abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione”, proponendo un fondamentale parallelismo fra la condizione dell’operaio nel sistema di fabbrica e quello della donna nel sistema patriarcale. A conferma della pluridimensionalità della lotta di classe sono le vicende storiche stesse: fenomeni come il biennio rivoluzionario 1848-1849, caratterizzato fra le altre cose da rivolte operaie e insurrezioni nazionali, o la guerra civile americana, mostrano che la lotta di classe non si dà mai storicamente allo stato puro, ma che viene condotta per motivazioni di varia natura e da classi o settori di classi non sempre affini al proletariato ma che ha come obiettivo la liberazione (nazionale, dalla schiavitù, dal lavoro salariato, ecc.).
L’importanza del saggio di Losurdo sta dunque in prima battuta nell’aver definito la lotta di classe come teoria generale del conflitto sociale. Chiunque siano i protagonisti, e qualsiasi sia la forma assunta, la lotta di classe va identificata con il conflitto sociale in quanto tale. Rompendo con le teorie naturalistiche, Marx colloca la lotta di classe in una dimensione storica: se per Nietzsche la lotta di classe è un dato immutabile che non può risolversi (se anche il servo avesse la meglio sul padrone, ciò porterebbe al crollo della civiltà), per Marx il conflitto assume forme proprie a seconda del periodo storico e può portare a una liberazione delle classi oppresse. Altro aspetto decisivo della teoria della lotta di classe, sta nel ribadire che essa si manifesta in una pluralità di forme. Il marxismo non è, come sostiene Hannah Arendt sono un ideologia pauperistica ed economicistica che vuole far trionfare il bisogno materiale sui più alti valori di giustizia e libertà, ma è una concezione filosofica che vuole la liberazione dell’uomo dalle sue catene, prima di tutto economiche, ma anche da qualsiasi altra forma di oppressione e sfruttamento (come quella di un popolo su un altro o di un uomo su una donna): la lotta di classe non può ridursi a un interesse meramente materiale e corporativo. Ne emerge ancora una volta il carattere fluido e multidimensinale della lotta di classe che non appare mai allo stato puro come conflitto capitale/lavoro.
«Prendiamo allora una donna, operaia e irlandese, oppressa tre volte, nell’ambito della famiglia, in fabbrica e in quanto appartenente a una nazione oppressa: almeno nell’ambito della famiglia patriarcale, è partecipe anche lei dello “sfruttamento dei figli da parte dei genitori” di cui parla il Manifesto e al quale i comunisti sono decisi a porre fine»
(Losurdo, La Lotta di Classe, p. 124).
Da questo esempio emerge chiaramente come la complessità di ogni situazione storica fa sì che l’individuo si trovi collocato continuamente in un insieme contraddittorio di relazioni sociali. Il sistema capitalistico, soprattutto quello attuale, caratterizzato da una crescente complessità, è “l’intreccio di molteplici e contraddittori rapporti di coercizione”.
«A decidere la finale collocazione di un individuo (e di un gruppo) nel campo degli “oppressi” o degli “oppressori” è da un lato la gerarchizzazione di queste relazioni sociali a secondo della loro rilevanza politica e sociale in una situazione concreta e determinata, dall’altro la scelta politica del singolo individuo (o del gruppo)» (ivi, pag. 125).
La complessità delle vicende storiche e dei rapporti sociali impedisce ogni semplificazione. Ovviamente al livello ideale, occorre stare dalla parte degli oppressi contro gli oppressori. Ma la realtà storica è sempre più complessa e sfugge a ogni facile semplificazione. Tornando all’esempio della guerra di secessione, Losurdo afferma:
«avviene però che in una situazione concreta e determinata si sia costretti a scegliere: schiavitù perpetua dei neri o limitazione parziale e temporanea del principio dell’autogoverno e della libertà di stampa? Si tratta di due opzioni entrambe dolorose ma non nella stessa misura: l’abolizione della schiavitù è decisamente il compito preminente e prioritario. Di qui il deciso appoggio a Lincoln, che pure sospende l’habeas corpus e che impone la coscrizione obbligatoria […] »
(ivi, pag. 134).
Essere comunisti significa accettare le contraddizioni, comprendere il conflitto delle libertà e avere il coraggio di fare una gerarchia. Lenin lo aveva capito bene quando ha affermato il suo appoggio nei confronti delle nazioni oppresse e il suo sostegno ai movimenti anticoloniali. A combattere in Cina contro il colonialismo occidentale non c’erano solo comunisti ma un vasto schieramento di forze anche reazionarie, eppure un comunista non può non supportare una Cina libera dell’oppressione coloniale (anche perché, come nota Lenin, il potere coloniale era un modo per disinnescare il conflitto sociale nelle metropoli occidentali). In questo frangente, la lotta di liberazione nazionale non può in nessun modo essere identificata con lo sciovinismo nazionalista, bensì come un’applicazione dell’internazionalismo.
L’analisi condotta da Losurdo arriva a dimostrare come mai nella storia abbiamo assisto a una lotta di classe pura fra proletari e borghesi. Ovunque hanno agito fattori e circostanze complementari, discontinue a volte contraddittorie. Per questo bisogna accogliere credo con un certo scetticismo chi non vedendo realizzata la società perfetta in Unione Sovietica o in Cina parla di “tradimento”. L’ideale della “purezza” è una categoria che poco si addice al mestiere del marxista.
Per questo ritengo fondamentalmente condivisibile la difesa che Losurdo fa del comunismo cinese a partire dalla svolta di Deng Xiaoping: le limitazioni alle libertà, lo sviluppo di rapporti capitalistici di oppressione e la crescita delle disuguaglianze nel subcontinente asiatico sono sotto gli occhi di tutti, ma ciò ha garantito alla Repubblica Popolare una indipendenza senza precedenti dalla dominazione occidentale, sia diretta che indiretta e soprattutto ha permesso quello sviluppo economico che ha reso possibile contrastare in maniera decisiva le enormi sacche di povertà che il paese si portava dietro da decenni. Il socialismo non può essere povertà. Accettare le contraddizioni ed essere in grado di capire ciò che è preferibile in una situazione sempre controversa dovrebbe essere il lavoro quotidiano di chiunque si consideri marxista.
Al giorno d’oggi, la lezione di Losurdo risulta fondamentale. Da una parte una tendenza della “sinistra” è quella di dare per scontato l’ordine neoliberista per limitare la propria azione di “lotta” (o meglio di lobbying) alla promozione di certi diritti civili. In questo modo però, non solo si abbandonano a se stesse le classi lavoratrici dei paesi occidentali ma anche quei paesi che si trovano a lottare contro un imperialismo sempre più feroce (come Iran, Venezuela, Corea del Nord, Siria, ecc.) poiché si tende assurdamente a preferire una dominazione spietata che si giustifica con la retorica dei diritti umani e della (esportazione di) democrazia piuttosto che l’autodeterminazione nazionale, assolutizzando gli aspetti che percepiamo come reazionari presenti in quei paesi. L’errore sta nella incomprensione delle reali forme di dominazione che agiscono su questi paesi e sulla corretta gerarchizzazione della dimensioni della lotta di classe.
Dall’altra parte, un’altra sinistra più sensibile al tema dello sfruttamento economico e della povertà, tende a essere attirata dagli argomenti populisti che sostituiscono la complessa teoria marxista della lotta di classe con una divisione alto-basso o ricchi corrotti e poveri onesti.
Il problema è che però in realtà, come ribadisce Losurdo, il conflitto sociale non si esaurisce mai in queste categorie pure e cristalline. la storia è sempre più complessa della divisione essenzialistica che il populismo vorrebbe restituire (che alla fine è quella fra buoni e cattivi). Ma questa visione, oltre a rendere utopistica qualsiasi possibilità rivoluzionaria (perché pensare che il conflitto di classe si sviluppi in maniera pura è ingenuo utopismo), finisce per mettere sullo stesso piano eventi storici estremamente diversi fra loro: la Rivoluzione Russa e la primavera di Praga, la presa della Bastiglia e le rivolte della Vandea, la Lunga Marcia e le proteste di piazza Tienanmen non sono del resto tutte situazioni in cui si affrontano oppressi e oppressori, alto contro basso? Ancora una volta, questo clamoroso errore di lettura delle dinamiche storiche e che porta alla celebrazione delle istanze dal “basso” qualsiasi esse siano e alla denuncia del potere in quanto tale sempre e comunque, è un procedimento antimarxista che già Gramsci bollava criticamente come “ribellismo”. Le idee semplicistiche e pure attirano, perché sono più facilmente comunicabili. Da qui il successo del populismo, anche di sinistra.
Ma il baratro in cui stiamo precipitando obbliga a rimettere in primo piano la necessità di una analisi che non provi a rifuggire la complessità dei fenomeni storici e sociali.
Rimettere al centro la multidimensionalità della lotta di classe, accettando le contraddizioni dei fenomeni reali, è l’unico modo per ridare vigore a una politica realmente emancipativa. Ed è anche il lascito più prezioso di Losurdo.
Immagine di Wolfgang Sauber (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.