Chi mi conosce sa che non amo le serie tv. Rispetto al cinema, queste nuove piattaforme come Netflix (ma anche Spotify con la musica) servono solo a fare soldi, appiattendo di fatto la qualità. Pochi giorni fa ho visto i primi due episodi della serie tv Snowpiercer, uscita il 25 maggio. Rispetto al film di Bong Joon Ho, è onestamente di una qualità molto bassa: dalla sceneggiatura alla fotografia al massimo risparmio. È tutto compresso. La presenza del cast di Jennifer Connelly non basta, i comprimari sono terribilmente piatti.
L’errore più grosso che molti utenti fanno è che gli sembra di scegliere, ma i contenuti sono filtrati da queste multinazionali. Ho letto un’intervista recente a un dirigente Netflix che diceva che 5 o 6 persone decidono cosa vedranno milioni di utenti in tutto il mondo. Una cosa francamente abbastanza deprimente, vista e considerata la varietà di persone esistenti al mondo. Sta agli utenti pagare e scegliere secondo i propri gusti e/o tendenze, smettendola di seguire cosa impone il gruppo dominante. Purtroppo questo origina una tremenda livellazione di cultura generale (gli effetti si vedono), ma non tutti abbiamo le stesse possibilità, la stessa cultura.
Tuttavia bisogna riconoscere a Netflix che ogni tanto sa proporre qualcosa di genuino. È stato il caso di film come The Irishman di Martin Scorsese oppure questa serie tv: The last dance.
Non è un caso che questa serie sia andata a ruba in tempi di lockdown. E c’è da sottolineare un importante aspetto positivo: molti non avevano mai visto il basket in questo modo. I ragazzi nati dopo il 2000 hanno finalmente visto cosa significava vivere quella pallacanestro ai tempi del più grande giocatore di tutti i tempi: Michael Jordan. Eppure la più grande lezione che questo immenso giocatore ci ha dato è che per vincere devi essere e diventare antipatico.
Lanciato dallo scorso 20 aprile ogni lunedì con ben 2 episodi a settimana, The last dance è un documentario di 10 episodi, da 50 minuti l’uno, molto ben fatto sui Chicago Bulls anni 90, su Michael Jordan e tutti gli altri protagonisti di una squadra indimenticabile.
Attenzione però a dire che è solo per appassionati di basket. Non è vero. Questo racconto sportivo parla del dietro le quinte delle vittorie, del carisma del fenomeno Jordan, del coronamento di un sogno, della nascita di una mentalità vincente.
Avendo giocato per diversi anni a pallacanestro, posso dire che per me questo sport è una sorta di concetto da applicare a livello di società civile: un gioco di squadra dove il difficile è relazionarsi con persone diverse, ma dove bisogna trovare l’alchimia giusta per arrivare al top. Il basket non è poi così lontano dal concetto vero di comunismo: come nel finale del film Il concerto di Radu Mihaileanu, l’unione di tante persone diverse che si uniscono per un unico obbiettivo, per trovare l’armonia. Lì era la musica, qui è il basket.
Negli anni Ottanta potevi non seguire la pallacanestro, ma in ogni parte del globo conoscevano Larry Bird, Magic Johnson o Isiah Thomas. Le loro squadre di appartenenza, rispettivamente Boston Celtics, Los Angeles Lakers e Detroit Pistons, all’epoca erano le più forti. Le prime due sono ancora oggi le più blasonate e le più titolate dell’NBA.
The Last Dance parte dalla fine (dove scorre potente Perfect Tense dei Pearl Jam), dall’ultimo anno di una squadra ormai matura e vincente. Ma prima c’era un team che non aveva mai vinto nulla, ma che sognava di diventare grande: i Chicago Bulls. Ai Draft 1984 furono scelti al primo giro atleti incredibili come Olajwon, Stockton, Barkley. Ma la squadra dei “Tori” scelse un ragazzino di 21 anni della North Carolina molto promettente: un certo Michael Jordan.
Fu soprannominato Air, l’alieno o His Airness per le sue mirabolanti giocate. Fu colui che contribuì a diffondere il basket in ogni angolo del globo. Quando uscì al cinema Space Jam (1996) ogni bambino andava al cinema per vedere Jordan. C’è anche questo in The last dance. Ricordo personalmente che, insieme alla squadra, andammo a vederlo almeno 3 volte in pochi mesi. Non sazio mi comprai anche la canotta rossa dei Bulls n° 23.
Chi oggi paragona LeBron James (che sarà in Space Jam 2 in uscita nell’estate 2021) a Jordan mi fa effetto. Quest’ultimo non era un atleta, era (quasi) in grado di volare, di sfidare la forza di gravità. Chiedetelo a Larry Bird: l’ex asso dei Celtics ai playoff 1986 se lo ritrovò davanti. Boston era nettamente superiore, ma Jordan da solo mise a referto 63 punti! “Era come se Dio fosse sceso sulla Terra con le sembianze di Michael” – dice Bird nel corso del documentario.
Il suo soprannome “Air” (aria) è divenuto perfino un celebre marchio di scarpe sportive di proprietà della Nike. Jordan era il fulcro, il vincente, il catalizzatore di una squadra che in ogni ruolo aveva il meglio. Quel n° 23 divenne in poco tempo famoso in tutto il mondo. I Bulls anni novanta vantavano però anche lo “scudiero” n° 33 Pippen, il miglior rimbalzista e difensore dell’Nba (n° 91 Rodman) e dei gregari di gran livello (il 25 Kerr, il 7 Kukoc, il 9 Harper, il 13 Longley). Ma nei momenti decisivi quello che contava era sempre lui: il numero 23.
1998. Nell’epica gara 6 della finale scudetto. Siamo a Salt Lake City, in casa degli arcirivali Utah Jazz. Un’altra grande squadra con due grandi giocatori come Stockton e Malone. Chicago era avanti nella serie 3-2. Se vinceva, l’anello è suo.
Un minuto alla fine del match. 83 pari (lo potete vedere qui con la telecronaca di Federico Buffa di Sky). Palla a Utah. Stockton infila una tripla. 86-83 per i Jazz.
Per la stragrande maggioranza la partita è praticamente finita. Specie se sbagli un tiro. Per l’extraterrestre Jordan no. In 4 secondi infila subito due punti. Chicago sotto di uno. 37 secondi alla fine. La palla è nelle mani di Utah che può gestirla.
Stockton serve il “Postino” Karl Malone spalle a canestro. Jordan raddoppia la marcatura, arrivando di gran carriera, e sradica il pallone dalle sue mani con ferocia. Questa immagine è l’icona della fame di vittorie del fenomeno. Crederci sempre, mollare mai.
Chicago è in attacco. Jordan ha addosso Russell, lo ubriaca di finte e con una freddezza inaudita mette dentro senza toccare il ferro.
Ricordo ancora la telecronaca di Guido Bagatta (all’epoca in chiaro su Italia1) con il famoso “solo il fondo del secchiello”. Stockton ebbe l’ultima opportunità, ma sbagliò l’ultimo tiro. I Bulls vinsero il sesto titolo. Mi ricordo che avevo all’epoca 12 anni. In piena notte d’estate ero in piedi sul divano a esultare.
Basterebbe questa partita per descrivere cos’erano quei Chicago Bulls: perfezione, compattezza, gioco di squadra, intensità, ma anche sofferenza (lo dico da tifoso).
The last dance (l’ultimo ballo) prende il titolo da una dichiarazione del coach di Bulls, Phil Jackson, che quell’anno sapeva di essere alla sua ultima stagione con quella stratosferica squadra. 6 titoli in 8 anni con alcune stagioni regolari chiuse con oltre 70 vittorie. Nessuno ci era mai riuscito. Dopo quella stagione anche Jordan, Pippen e Rodman lasciarono i Bulls che da allora sono crollati.
Ma non c’è solo questo: c’è anche il periodo in cui Jordan abbandonò il basket per diventare un asso del baseball (1993-1994 e 1994-1995). Guarda caso in quelle annate i Bulls non vinsero. Scottie Pippen diventò il leader dei Tori orfani del loro fenomeno. Proprio in quegli anni sentirà molto la pressione. Basta ricordarsi la celebre schiacciata sulla testa di Ewing dei New York Knicks con annessa polemica con il regista Spike Lee (fan della squadra newyorchese) a bordo campo. Durerà poco perché Jordan tornerà nel 1995 a guidare i Bulls a nuovi successi. Questo episodio è raccontato anche nel film Space Jam.
Questo docu-film però non è solo cronaca sportiva: ha tensione, profondità, pathos, è avvincente fino alla fine. Ecco perché merita di essere visto.
Oltre a Michael Jordan, c’è l’infanzia difficile di Pippen, l’arrivo dai Detroit Pistons del “cavallo pazzo” Denis Rodman, la costruzione dell’approccio zen e filosofico al gioco di Phil Jackson. E poi tutti i vari gregari: Steve Kerr (oggi il vincente allenatore dei Golden State Warriors), Ron Harper, il croato Toni Kukoc (irriconoscibile oggi), Horace Grant.
Proprio quest’ultimo ha criticato la serie tv definendola “spazzatura” per il 90%. Insieme a lui anche Scottie Pippen, Ron Harper e Bill Cartwrigh, infine, hanno espresso il loro disappunto per come sono state rivelate le dinamiche all’interno dello spogliatoio. Il giornalista Sam Smith, molto informato sui Bulls, dice che molte cose sono state romanzate o falsificate. Qualche dubbio rimane visto che Michael Jordan figura tra i produttori. Un esempio è l’episodio in cui Jordan parla della pizza avvelenata quando i Bulls giocavano a Indianapolis contro i Pacers ai playoff. Secondo Smith è un’invenzione, non ci sono prove a riguardo.
C’è poi chi, come l’acerrimo nemico degli Utah Jazz, il “Postino” Karl Malone, ha rifiutato di farsi intervistare. Per lui i Chicago Bulls non erano solo Jordan, ma una squadra quasi perfetta.
Come giustamente dice Alessandro De Simone su Cinematographe, “The Last Dance non è solo l’inestimabile documento di una stagione prodigiosa, la storia di una squadra di antieroi. È la sintesi di quello che una comunità dovrebbe essere per raggiungere il sublime, superare le divisioni, tendere al miglioramento costante della condizione collettiva”.
Ecco perché gli italiani non lo devono assolutamente perdere.
The Last Dance: i temi degli episodi
Episodio 1: Michael Jordan e i Bulls anni Novanta
Episodio 2: Scottie Pippen
Episodio 3: Denis Rodman
Episodio 4: Phil Jackson
Episodio 5: Michael Jordan e Kobe Bryant, le olimpiadi
Episodio 6: La reputazione di Michael Jordan: i vizi, gli atteggiamenti, le arrabbiature
Episodio 7: Jordan passa al baseball. I Bulls puntano su Pippen
Episodio 8: Il ritorno di Jordan del 1995, le riprese di Space Jam
Episodio 9: Gli ultimi due anelli vinti dai Bulls (1997-1998)
Episodio 10: La stagione 1998 – The Last Dance
Le 50 migliori giocate di Michael Jordan
Le 10 migliori giocate dei Bulls
The Last Dance ****
(USA 2020)
Regia: Jason HEHIR
Serie tv in 10 puntate
Genere: Sportivo
Durata: 500 minuti (10 episodi da 50 minuti circa)
Prodotto da ESPN
In onda su Netflix dal 20 aprile 2020
Qui il trailer Italiano
FONTI: movieplayer, cinematographe
Immagini Netflix
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.