In questi tempi il tema del lavoro tocca per forza di cose i nervi scoperti della maggior parte dei cittadini italiani. La chiusura di negozi, ristoranti, bar, luoghi che accompagnano le nostre vite e i momenti di spensieratezza della nostra vita ci sono stati scippati, portati via da un virus che in molti, io per primo, avevamo un po’ preso alla leggera.
La crisi economica che ci sta sconvolgendo andrà avanti per chissà quanto tempo e la ripresa sarà sicuramente composta da regole anti proletarie, con più mercato libero e privatizzazioni. Ormai siamo talmente assuefatti al meccanismo perverso del capitalismo che non crediamo affatto nella possibilità di tentare altre strade. Che ne so… Socialismo, statalizzazione, pubblico, nazionalizzazione.
Nel prossimo futuro cosa comporteranno le manovre di recupero della produzione e del profitto, per cui dei privilegi della classe padronale, nella vita dei lavoratori? Cose non belle e nemmeno giuste.
Tuttavia questo periodo a casa dovrebbe spingerci a riflettere sul sistema lavorativo degli ultimi 30 anni, farci analizzare cosa ha portato il lavoro precario e quanto un lavoro usurante, spersonalizzante, abbia influito sulla nostra vita.
Siamo davvero dei piccoli e insignificanti ingranaggi nel sistema produttivo capitalistico? Tutto il tempo dedicato al lavoro ci dona delle gratificazioni oppure solo la paura di rimanere senza soldi e perdere tutto, fa in modo che si perda tempo e vita a presso il profitto dei padroni? Può esistere un modo di vivere che non solo metta in discussione il lavoro come elemento di sfruttamento dell’esistenza umana, ma che addirittura lo lasci alle spalle? Cosa comporta tutto questo? Io credo che la propaganda liberista sia efficace perché le masse sono terrorizzate di dover far scelte radicali ed estreme, ad alimentare questo comportamento di accettazione delle leggi padronali sono gli organi preposti alla comunicazione e informazione. I quali non fanno altro che decantare la bellezza delle nostre democrazie, dei diritti civili, le libertà individuali e intanto ci ha rinchiuso in un sistema economico che in questi anni ha debellato diritti sociali e di politiche collettiviste, cooperative, di bene comune.
Per questo molti di noi vivono vite sacrificate a un lavoro che detestano, ma che sopporta per motivi meramente economici, di sostentamento, spaventati dai giudizi della gente se dovessero metter in discussione la loro partecipazione al profitto sfrenato della classe dominante.
Ecco, tra i miei tanti amici, la storia di uno di essi mi par particolarmente interessante. Perché costui ha avuto il coraggio e la forza di abbandonare il lavoro e la sua ricerca, vivendo una vita assolutamente alternativa al sistema e alle sue pressanti condizioni di esistenza a cui condanna milioni di uomini e donne.
La sua scelta è radicale, estrema, so che susciterà incredulità o astio da parte di molti lavoratori e persone. Posso capire la posizione di costoro. Perché la ricerca del lavoro, che finisce sempre nel dover accettare di tutto pur di lavorare, ci spinge a vivere in un mondo rigidamente organizzato sulla paura, lo sfruttamento, l’annullamento della persona. Poi, più banalmente, ci sono le spese da pagare, lo sfratto incombente e tante altre cose molto pratiche che possono condizionare la comprensione di questo articolo e della vita del suo protagonista.
Conosco Simone da parecchio tempo, posso solo dirvi che non è un figlio di papà borghese, non è ricco, e non è nemmeno un fannullone. Egli ha lavorato con massimo impegno e dedizione per quasi venti anni come infermiere nei reparti psichiatrici a confronto diretto con i dannati della terra, quelli che con disprezzo chiamiamo matti e per cui richiediamo misure di contenimento, restrittive
Io provo massimo rispetto per la scelta di non lavorare da parte di Simone, certo ho anche grossi dubbi pratici, ma rientra nel soggettivismo con cui affrontiamo la vita
Ora vi lascio alle sue parole, alla sua “voce”.
Mi è stato chiesto di descrivere per la rivista Il Becco di Firenze la mia esperienza di vita da disoccupato volontario in un mondo in cui il lavoro ha perso ogni collante sociale e di coscienza di classe. Ci provo, approfittando della noia da coronavirus e per avere finalmente uno scritto che potrò usare come risposta standard quando mi faranno le solite domande trite e ritrite.
Partiamo dal presupposto che l’attività lavorativa è un’invenzione umana, specie se legata ad un sistema economico. Non esiste infatti nessun’altra specie che percepisce una retribuzione per quello che svolge quotidianamente, eppure tutte fanno qualcosa per vivere. Questo per dire, ad esempio, che non serve un incentivo in denaro per far sì che gli individui facciano la loro parte, è anzi nell’era del profitto che se esso viene a mancare c’è la possibilità che qualcuno si dedichi all’ozio sulle spalle degli altri. Diversamente, ritengo sia praticamente impossibile che possano esistere parassiti. Purtroppo oggi nasciamo in un mondo, specie quello occidentale o in qualche modo occidentalizzato (in un sistema comunista o socialista o anarchico il discorso sarebbe ben diverso, ci sarebbe l’armonia del “lavorare meno, lavorare tutti”, del “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”, dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dell’equa distribuzione delle risorse) dove si viene automaticamente catapultati fin da neonati in una società oserei dire folle, dove si dà per normale, scontato e addirittura giusto impiegare una grandissima quantità di tempo che abbiamo a disposizione sprecandolo in un lavoro che il più delle volte è inutile a se stessi e agli altri, soprattutto in dosi così massicce.
Sia chiaro che non sono un sostenitore dell’inazione, dico semplicemente che il lavoro dovrebbe essere una voce marginale nell’esistenza di un individuo, non diventare così importante al punto da farne un dramma se non si ha, o da influenzare così tanto da limitare o impedire altre esperienze. Insomma, sarebbe giusto essere liberi di farlo quando esso risulti piacevole da tutti i punti di vista, sia in termini di soddisfazione, che di tempo dedicatogli, ancora meglio sarebbe che esso sia funzionale al bene della collettività. Invece no, io vedo che il lavoro è una delle cause principali di stress, di problemi, sia che ci sia, sia che manchi.
Questa società individualista fa in modo che ognuno pensi solo a se stesso (al massimo anche ai propri cari, e qui si entrerebbe in un altro discorso dove la famiglia diventa un covo morboso di affettività malate, ma non voglio dilungarmi andando fuori tema) ed entri in competizione con gli altri, anche inconsciamente; oggi addirittura manca in modo grave la solidarietà tra sfruttati, viene impedito di organizzarsi e di fatto nemmeno ci si tiene a farlo, chi ci prova pallidamente lo fa comunque per un proprio tornaconto. Ci saranno anche delle eccezioni, per carità, sto generalizzano appositamente per semplificare.
Ma veniamo a me. Ho lavorato (ritengo anche troppo) per ben 17 anni, dopodiché ho avuto una sorta di illuminazione. Non avevo tempo di spendere ciò che guadagnavo, non avevo una vita dignitosa o perlomeno quella che mi meritavo, mi sentivo più uno schiavo che un servo, dato che ovviamente i miei padroni erano come tutti gli altri: dei tiranni. La banalità del male.
Poco importa che ero occupato in ambito sanitario e il mio era un lavoro socialmente utile (tra l’altro i primi dodici anni li ho vissuti abbastanza serenamente, essendo distaccato dalla sede centrale anche se gli influssi mefitici dei dirigenti riuscivano timidamente ad arrivare fin là); per farvi capire quanto siamo immersi in una realtà patologica ad un certo punto, sotto l’indifferenza generale, gli ospedali sono diventati “aziende”, roba che solo a livello concettuale basterebbe, se non fossimo soggiogati psicologicamente, a scatenare una Rivoluzione.
Ho avuto la fortuna di vivere sempre cercando di ragionare senza farmi inculcare usanze consolidate che con un minimo di riflessione sono completamente assurde (tipo: lavorare facendo arricchire più di me uno che lavora meno di me) e mi reputo una persona che ha più o meno una visione chiara di come gira il mondo, non dico nel dettaglio, ma grossomodo gli stessi schemi si ripetono globalmente. Ho sempre rifiutato le logiche consumistiche e ciò mi viene spontaneo, senza sforzo, anzi, più oggetti possiedo e più avverto disagio. Quindi ad un certo punto, avendo accumulato un discreto gruzzoletto e non trovando più un senso nell’impiego statale per cui mi ero laureato ed ero stato assunto, mi sono licenziato.
Mi sono sentito dare dello stupido per non essermi fatto licenziare percependo così l’indennità di disoccupazione, ma fa niente, cerco di ignorare queste bassezze.
Da allora sono libero, c’è poi un sacco di gente che forse invidiandomi cerca di capire il segreto per non lavorare. Non c’è nessun segreto, non faccio nulla di speciale, non fatemi sentire come la ragazza morettiana di “faccio cose vedo gente”. Svolgo attività di volontariato, viaggio, frequento amici, una ragazza, bevo birra, cucino, abito con un gatto, guardo serie su Netflix, non mi manca nulla. A tutti quelli che mi chiedono cose francamente noiose come “ma come lo paghi l’affitto?” non so esattamente come rispondere… Coi soldi ovviamente. Eh ma dove li trovi? Sul mio conto. Si ma come ci arrivano? E che palle. Non lo so nemmeno io, non ho metodi da suggerirvi come quelli del blogger “smettere di lavorare” (che comunque vi consiglio, a me piace ma non mi è utile essendo già emancipato), nessuno mi ha mai regalato nulla, non sono di famiglia ricca, ho sempre materialmente più dato che ricevuto (ricevuto direi proprio zero) e sono anche stato vittima di truffe per decine di migliaia di euro, per dire. Non c’è magia, non ci sono cose nascoste.
Cambiate mentalità e fuggite, se volete, provate a cambiar vita. Un minimo di coraggio, tranquilli che non morirete di fame e avrete più soddisfazioni che pentimenti. Se il pensiero vi mette ansia non fatelo, non è detto che quella sia la vostra strada, non ce n’è una standard per tutti, la mia sicuramente non era quella di lavorare a contatto con gente meschina.
Non escludo nemmeno che un giorno lavorerò di nuovo, anche se penso sia parecchio improbabile, di certo se lo farò sarà in modo più leggero, non permettendo di farmi assorbire le energie vitali. Ma soprattutto lottate, non siate dei patetici brontoloni passivi, nessuno vi regalerà nulla in quest’epoca dominata dall’egoismo; il cambiamento prevede sacrificio e violenza, ma può dare grandi soddisfazioni. Fate in modo che le vostre pretese siano quelle degli altri, così farete anche del bene e il karma sarà positivo, sia che ci crediate o meno. Oppure ignorate tutto quel che ho detto finora e tirate avanti come sempre, si vede che non mi credete (ed è legittimo, non voglio convincere nessuno e oltre a quel che ho già scritto non ho altri consigli da dare) oppure in fondo vi va bene così e se davvero siete soddisfatti già da ora sono lieto per voi, senza nessun sarcasmo.
L’idea di questo articolo è nata molto prima che la situazione si facesse così grave . In particolare per quanto riguarda la salute della classe proletaria, di migliaia di operai, lavoratori della gdo, della logistica, e della sanità pubblica.
Per non parlare di tutti quelli che hanno perso il lavoro. Persone che meritano tutto il nostro rispetto e sostegno.
Tuttavia preme una riflessione sul tema del lavoro e dello sfruttamento che non abbia nemmeno paura di toccare certi punti scomodi. Il lavoro, in questa società, è fondamentale per sopravvivere. Non vivere, non essere indipendenti. La classe dominante ha trasformato nei decenni il mondo del lavoro in quello del mercato saldamente in mano al padronato. I proletari e la borghesia proletarizzata in questo tempo hanno perso tutto e su tutti i fronti. Gli scioperi e le altre forme di resistenza operaia e dei lavoratori, sono azioni formali, incapaci di agire profondamente per un cambiamento.
Rimane la retorica della fatica del singolo, la gara a mostrarsi i più poveri ma anche quelli che “non temete corro al mio dovere”, cioè accettare ogni tipo di lavoro “per vivere”, dicono, peccato che quei lavori non bastano a pagare affitti, bollette, vita che non sia solo la prigione “ casa-ditta”.
Tutta questa retorica padronale garba anche a molti compagni, come se la lotta contro il potere capitalista sia decisa dallo stacanovismo e non dalle lotte feroci, spietate, violente, che i lavoratori devono metter in atto per aver quello che meriano.
Non ci sono- o sono pochissime- le lamentele sugli stipendi bassi, non c’è la prospettiva di creare un ambiente di lavoro a forma e somiglianza della classe lavoratrice ( rammento quando un gruppo di operai in sciopero ci dissero che vabbè se non riuscivano a far la cooperativa cera un tizio che forse li avrebbe comprati, uno pieno di debiti e questa cosa per i loro colleghi era normale) per cui non parliamo di lavoro, ma solo di sfruttamento. Di corpi, menti, della vita privata delle persone, le quali a volte finiscono sacrificate e massacrate dalla catena montaggio mortale della produzione.
Simone dopo decenni di durissimo lavoro, impegno, costanza, ha fatto una scelta azzardata, folle, sconclusionata, forse. Però ha deciso di non lasciarsi usare dalle cooperative che ti pagano in nero, dalle aziende che nemmeno ti parlano di stipendio, ma di provvigione o merito nel prender due soldi. Non è schiavo della vuota ideologia del produrre, non si lascia più terrorizzare dal “ a tutti i costi”.
Non è migliore di chi comprensibilmente e per motivi validissimi, è costretto a far lavoretti duri, spezzarsi la schiena, col timore del futuro. Le vostre scelte non vanno derise. Anzi, prese in considerazione. Tuttavia non posso che rimaner affascinato dalla storia, dalle scelte e dal rigore con cui Simone ha scelto una vita spartana, ma non di privazioni forzate. A un certo punto si noterà che l’essenziale vive senza il superfluo, poi cominceremo a combattere per aver anche quello.
Quello che vi chiedo è di leggere l’articolo e rifletterci sopra. Tralasciando le accuse più banali a Simone ( è ricco ad esempio) lui è una persona normale, figlio di lavoratori, che ha saputo semmai gestire nei tanti anni di lavoro il suo denaro, senza sperperarlo, e che sfrutta quelle cose che possono tenerlo a galla.
Potete anche criticare la sua scelta, ma prima ragionateci su.
Potreste scoprire che il problema non è lui, ma gli stipendi troppo bassi e le troppe poche battaglie fatte per aumentarli.
Immagine da www.needpix.com
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni